Divina Commedia, Canto 16 Inferno: testo, parafrasi e commento

Divina Commedia, Canto 16 Inferno: testo, parafrasi e figure retoriche

Il Canto 16 dell’Inferno della Divina Commedia è ambientato nel terzo girone del settimo cerchio infernale, dove sono puniti i violenti contro natura. In questo episodio il Poeta incontra tre illustri fiorentini condannati per sodomia, dialoga con loro sulla decadenza morale e politica di Firenze e conclude con il misterioso episodio della corda utilizzata per chiamare Gerione.

Indice:

Parafrasi e testo del 16° canto dell’Inferno della Divina Commedia

TestoParafrasi
Già era in loco onde s’udia ’l rimbomboEro già arrivato nel luogo in cui si udiva il frastuono
de l’acqua che cadea ne l’altro giro,della cascata del cerchio seguente,
simile a quel che l’arnie fanno rombo,analogo al ronzio che fanno gli alveari,
quando tre ombre insieme si partiro,quando tre anime, che si trovavano insieme,
correndo, d’una torma che passavasi staccarono, correndo, dalla schiera che procedeva
sotto la pioggia de l’aspro martiro.sotto la pioggia infuocata del duro castigo.
Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:Si avvicinarono a noi, mentre gridavano:
«Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri essere alcun di nostra terra prava».“Fermati, tu che dall’abito sembri essere nativo della nostra città corrotta.”
Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,Ahimé, quali ferite notai sparse nei loro corpi,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!vecchie e nuove, incise dal fuoco!
Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.Ne provo ancora dolore al solo ricordarlo.
A le lor grida il mio dottor s’attese;Virgilio si fermò sentendo i loro richiami;
volse ’l viso ver’ me, e «Or aspetta»,mi guardò e disse:
disse, «a costor si vuole esser cortese.“Fermati, con queste anime conviene essere gentili.
E se non fosse il foco che saettaE se non fosse per il fuoco che la natura del luogo scaglia,
la natura del loco, i’ dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta».direi che sarebbe meglio che tu ti affrettassi verso di loro.”
Ricominciar, come noi restammo, eiQuando ci fummo fermati, essi ripresero a lamentarsi;
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,e quando arrivarono a noi,
fenno una rota di sé tutti e trei.si misero tutti e tre in cerchio.
Qual sogliono i campion far nudi e unti,Ciò che sono soliti fare coloro che lottano nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,i quali studiano il momento giusto per una presa vantaggiosa,
prima che sien tra lor battuti e punti,prima di battersi e ferirsi a vicenda,
così rotando, ciascuno il visaggioallo stesso modo, ruotando, ognuno di loro
drizzava a me, sì che ’n contraro il colloindirizzava il viso verso di me, così che il collo
faceva ai piè continuo viaggio.si muoveva continuamente nel senso contrario dei piedi.
E «Se miseria d’esto loco solloE uno disse: “Se la miseria di questo luogo sabbioso e il nostro aspetto spellato e annerito
rende in dispetto noi e nostri prieghi»,rende spregevoli le nostre preghiere,
cominciò l’uno, «e ’l tinto aspetto e brollo, la fama nostra il tuo animo pieghisia allora la nostra fama a farti dire
a dirne chi tu se’, che i vivi piedichi sei tu, che coi piedi di persona viva
così sicuro per lo ’nferno freghi.cammini per l’Inferno.
Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,Costui, il quale mi precede,
tutto che nudo e dipelato vada,nonostante ora sia tutto nudo e spellato,
fu di grado maggior che tu non credi:aveva in vita una condizione sociale maggiore di quella che puoi credere:
nepote fu de la buona Gualdrada;fu nipote della valente Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vitasi chiamava Guido Guerra,
fece col senno assai e con la spada.e durante la sua vita fece molto con l’ingegno e con le armi.
L’altro, ch’appresso me la rena trita,L’altro, che calca la sabbia accanto a me,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voceè Tegghiaio Aldobrandi,
nel mondo sù dovria esser gradita.il cui consiglio nel mondo di sopra avrebbe dovuto essere meglio ascoltato.
E io, che posto son con loro in croce,Ed io, che sono messo assieme a loro a scontare il castigo,
Iacopo Rusticucci fui, e certofui Iacopo Rusticucci,
la fiera moglie più ch’altro mi nuoce».e di sicuro la mia scontrosa moglie più di ogni altra cosa mi arreca danno.”
S’i’ fossi stato dal foco coperto,Se io fossi stato al riparo dal fuoco,
gittato mi sarei tra lor di sotto,mi sarei buttato giù tra loro,
e credo che ’l dottor l’avria sofferto;e credo che Virgilio l’avrebbe permesso;
ma perch’io mi sarei brusciato e cotto,ma poiché invece mi sarei bruciato e scottato,
vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto.la paura fu più forte del desiderio di abbracciarli.
Poi cominciai: «Non dispetto, ma dogliaPoi dissi: “Non disprezzo, ma dolore mi procura prendere atto della vostra condizione,
la vostra condizion dentro mi fisse,ed è talmente tanto il dolore
tanta che tardi tutta si dispoglia,che esso cesserà solo molto più tardi,
tosto che questo mio segnor mi disseappena Virgilio mi disse quelle parole
parole per le quali i’ mi pensaigrazie alle quali seppi chi voi siete,
che qual voi siete, tal gente venisse.che persone rispettabili stessero arrivando.
Di vostra terra sono, e sempre maiSono fiorentino,
l’ovra di voi e li onorati nomie sempre le vostre opere e i vostri meriti
con affezion ritrassi e ascoltai.con ammirazione appresi, ascoltandoli.
Lascio lo fele e vo per dolci pomiLascio l’amarezza e mi dirigo verso i dolci frutti
promessi a me per lo verace duca;a me promessi dalla mia guida veritiera;
ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi».ma fino al centro dell’Inferno prima è necessario che scenda.”
«Se lungamente l’anima conduca“Se vivrai a lungo,” rispose costui allora,
le membra tue», rispuose quelli ancora,“e se la tua fama risplenderà dopo la tua morte,
«e se la fama tua dopo te luca,dì a noi se gentilezza e virtù vivono
cortesia e valor dì se dimoranella nostra città così com’era ai tempi nostri
ne la nostra città sì come suole,o se sono sparite del tutto;
o se del tutto se n’è gita fora;perché Guglielmo Borsiere,
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duoleche da poco tempo soffre con noi ed è là con la nostra schiera,
con noi per poco e va là coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole».dimostra di preoccuparsene molto per quello che dice.”
«La gente nuova e i sùbiti guadagni“I nuovi cittadini e i facili guadagni
orgoglio e dismisura han generata,hanno nutrito alterigia e intemperanza, in te, Firenze,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».ché già cominci a sentirne i tristi effetti.”
Così gridai con la faccia levata;Così gridai a testa alta;
e i tre, che ciò inteser per risposta,e i tre dannati, che ascoltarono questa risposta,
guardar l’un l’altro com’al ver si guata.si guardarono a vicenda come si guarda in faccia una verità spiacevole.
«Se l’altre volte sì poco ti costa»,“Se ancora ti costa così poco,” risposero,
rispuoser tutti, «il satisfare altrui,“soddisfare le richieste degli altri,
felice te se sì parli a tua posta!sii tu felice se parli così liberamente!
Però, se campi d’esti luoghi buiPerciò, se sfuggirai a questi luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,e tornerai ad ammirare le belle stelle,
quando ti gioverà dicere “I’ fui”,quando vorrai raccontare il tuo viaggio,
fa che di noi a la gente favelle».fa in modo che la gente parli di noi.”
Indi rupper la rota, e a fuggirsiAllora ruppero il cerchio,
ali sembiar le gambe loro isnelle.e nel correre, le loro gambe magre sembrarono ali.
Un amen non saria possuto dirsiNon si sarebbe potuto dire un “amen”
tosto così com’e’ fuoro spariti;nel tempo che ci misero a sparire;
per ch’al maestro parve di partirsi.al punto che a Virgilio sembrò giusto allontanarsi.
Io lo seguiva, e poco eravam iti,Io lo seguii, e avevamo percorso un breve tratto,
che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,ma il fragore dell’acqua era così vicino
che per parlar saremmo a pena uditi.al punto che, se avessimo parlato, ci saremmo sentiti a malapena.
Come quel fiume c’ha proprio camminoCome quel fiume che nasce dal Monviso
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,e scende verso oriente,
da la sinistra costa d’Apennino,dalla parte sinistra dell’Appennino,
che si chiama Acquacheta suso, avanteil quale si chiama Acquacheta in quota,
che si divalli giù nel basso letto,prima che scenda a valle nella pianura,
e a Forlì di quel nome è vacante,e già a Forlì non ha più quel nome,
rimbomba là sovra San Benedettoe risuona laggiù sopra San Benedetto dell’Alpe,
de l’Alpe per cadere ad una scesadove precipita da una scesa,
ove dovea per mille esser recetto;ma potrebbero essere mille le scese che lo ricevono;
così, giù d’una ripa discoscesa,così, giù da una scarpata,
trovammo risonar quell’acqua tinta,scoprimmo il fragore di quell’acqua scura,
sì che ’n poc’ora avria l’orecchia offesa.forte a tal punto che in poche ore mi avrebbe danneggiato l’udito.
Io avea una corda intorno cinta,Io avevo cinta una corda intorno alla vita,
e con essa pensai alcuna voltae con questa avevo pensato in precedenza
prender la lonza a la pelle dipinta.di catturare quella lonza dalla pelle screziata.
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,Dopo che l’ebbi slegata da intorno alla vita,
sì come ’l duca m’avea comandato,così come Virgilio mi aveva ordinato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.gliela porsi annodata ed avvolta.
Ond’ei si volse inver’ lo destro lato,Allora egli si rivolse a destra,
e alquanto di lunge da la spondae, piuttosto distante dalla sponda,
la gittò giuso in quell’alto burrato.la gettò giù nel profondo precipizio.
«E’ pur convien che novità risponda»,“È sicuro che qualcosa di nuovo risponderà,”
dicea fra me medesmo, «al novo cenno che ’l maestro con l’occhio sì seconda».dicevo fra me, “all’insolito segnale che Virgilio segue con così grande attenzione.”
Ahi quanto cauti li uomini esser diennoAhimè, quanto prudenti gli uomini devono essere
presso a color che non veggion pur l’ovra,vicino a coloro che non vedono soltanto le azioni,
ma per entro i pensier miran col senno!ma vedono anche i pensieri col loro intelletto!
El disse a me: «Tosto verrà di sovraVirgilio mi disse: “Presto arriverà dall’alto ciò che attendo
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;e che nella mente immagini;
tosto convien ch’al tuo viso si scovra».presto accadrà che tu lo veda.”
Sempre a quel ver c’ha faccia di menzognaSempre, finché gli è possibile,
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,l’uomo ha il dovere di tacere quella verità
però che sanza colpa fa vergogna;che sembra all’apparenza una bugia, perché fa apparire bugiardo chi la racconta;
ma qui tacer nol posso; e per le notema qui non posso far silenzio;
di questa comedìa, lettor, ti giuro,e per i versi di questa commedia, lettore, te lo giuro,
s’elle non sien di lunga grazia vòte,se essi non saranno a lungo privi di favore,
ch’i’ vidi per quell’aere grosso e scuroche io vidi in quell’aria densa e oscura
venir notando una figura in suso,nuotare in alto nell’aria una figura che giungeva,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,stupefacente anche per un cuore forte,
sì come torna colui che va giusocosì come ritorna colui che a volte scende
talora a solver l’àncora ch’aggrappaa disincagliare l’àncora che si impiglia
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,o in uno scoglio o in altro che è sul fondo marino,
che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.che ritrae le gambe e allunga le braccia per darsi la spinta.

Canto 16 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione

Il canto 16 dell’Inferno della Divina Commedia si svolge nel terzo girone del settimo cerchio infernale, quello riservato ai violenti contro natura, in particolare ai sodomiti. Dante e Virgilio camminano su un argine di pietra che li protegge dalla sabbia infuocata e dalla pioggia di fuoco che tormenta i dannati, mentre il rumore del fiume Flegetonte, che sta per precipitare nell’ottavo cerchio, fa da sottofondo sonoro alla scena.

La narrazione si sviluppa in quattro sequenze principali. Nella prima (versi 1-21), mentre i due poeti avanzano lungo l’argine, tre anime si staccano da una schiera di dannati, riconoscendo Dante come fiorentino dall’abito che indossa. Si tratta di tre illustri concittadini del poeta: Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci, che corrono incessantemente formando una “ruota” mentre si muovono, una figurazione che rappresenta il contrappasso per il loro peccato: come in vita hanno sovvertito l’ordine naturale voluto da Dio, così nell’oltretomba sono condannati a un moto perpetuo e senza scopo.

Nella seconda parte (versi 22-63), si sviluppa il dialogo con i tre dannati. Dante manifesta rispetto e deferenza verso questi personaggi, che in vita rappresentarono l’antica nobiltà fiorentina e che egli aveva già citato nel sesto canto come esempi di virtù civica. Questo atteggiamento evidenzia il contrasto tra la condanna morale e teologica dei peccatori e l’ammirazione per il loro valore pubblico, sottolineando la complessità del giudizio dantesco che distingue tra virtù civile e colpa morale.

La terza sequenza (versi 64-90) contiene la celebre invettiva contro Firenze. Rispondendo alle domande dei tre spiriti sulla condizione attuale della città, Dante pronuncia una dura condanna: “La gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni”. Con queste parole, il poeta denuncia come i nuovi abitanti e le ricchezze rapidamente accumulate abbiano corrotto l’antico spirito cittadino, generando superbia e smisuratezza. È una critica amara alla trasformazione sociale ed economica di Firenze, dove i valori tradizionali sono stati sostituiti dall’avidità e dall’arroganza dei nuovi ricchi.

L’ultima parte del canto (versi 91-136) vede il congedo dai tre fiorentini, che riprendono la loro corsa, e la preparazione alla discesa verso l’ottavo cerchio. Qui si colloca l’enigmatico episodio della corda: Virgilio chiede a Dante di consegnargli una corda che porta cinta ai fianchi (probabilmente un riferimento simbolico alla disciplina francescana o al tentativo di dominare le passioni). Il maestro la getta nel vuoto come segnale, preparando l’arrivo di Gerione, il mostro che rappresenta la frode e che apparirà nel canto successivo per trasportare i poeti nell’ottavo cerchio.

Il contrappasso che punisce i sodomiti è particolarmente significativo sul piano simbolico: essi corrono senza sosta su una sabbia sterile e infuocata, colpiti da falde di fuoco che scendono lentamente come neve. La sterilità della sabbia rappresenta la sterilità del loro peccato, mentre il fuoco simboleggia la passione disordinata che li ha consumati in vita. La corsa incessante riflette il carattere irrequieto e senza direzione del desiderio che ha distorto il loro comportamento.

Questo canto ha una funzione di cerniera nell’architettura dell’Inferno: chiude la sezione dedicata alla violenza e prepara l’ingresso nel mondo della frode, considerata da Dante peccato più grave perché corrompe la ragione, facoltà distintiva dell’uomo.

Canto 16 Inferno della Divina Commedia: i personaggi

Nel canto 16 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante incontra tre anime illustri di fiorentini, che si distaccano da una schiera di dannati per rivolgersi a lui. Questi personaggi sono figure storiche di grande rilievo nella Firenze del XIII secolo, tutti appartenenti alla fazione guelfa e noti per il loro valore civico e militare.

Il primo è Guido Guerra, nipote della “buona Gualdrada” (come Dante lo definisce), valoroso condottiero che si distinse nella battaglia di Benevento del 1266, combattendo a fianco di Carlo d’Angiò contro Manfredi. Appartenente alla nobile famiglia dei conti Guidi, Guido rappresenta l’aristocrazia militare fiorentina, celebre tanto per le virtù guerriere quanto per la fedeltà alla causa politica.

Il secondo personaggio è Tegghiaio Aldobrandi, membro della famiglia degli Adimari, ricordato principalmente per aver sconsigliato saggiamente l’impresa militare contro Siena che si concluse nella disastrosa sconfitta di Montaperti (1260). Dante, già nel canto VI dell’Inferno, lo aveva menzionato tra “coloro ch’a ben far puoser li ‘ngegni”, sottolineando il suo merito come consigliere politico prudente e avveduto.

Iacopo Rusticucci è il terzo dannato che si rivolge al poeta. Di lui sappiamo che fu cavaliere di origini modeste ma che riuscì a elevarsi socialmente grazie alle sue capacità. È lo stesso Rusticucci a rivelare la causa della sua dannazione, alludendo alla “fiera moglie” che lo avrebbe indotto al vizio per cui è punito, probabilmente a causa di un matrimonio infelice.

È significativo il modo in cui Dante tratta questi personaggi: nonostante siano dannati per un peccato che il Medioevo considerava gravissimo (la sodomia), il poeta mostra nei loro confronti rispetto e persino ammirazione. Questo atteggiamento rivela la complessità del giudizio dantesco, capace di distinguere tra il peccato individuale e il valore pubblico e civile delle persone.

I tre fiorentini chiedono a Dante notizie della loro città, dando al poeta l’occasione per formulare una delle sue più amare invettive contro Firenze. Attraverso questo dialogo emerge il contrasto tra la nobiltà d’animo degli antichi fiorentini (rappresentati dai tre dannati) e la corruzione della Firenze contemporanea, dove “la gente nuova e i sùbiti guadagni” hanno generato “orgoglio e dismisura”.

Nel loro essere contemporaneamente peccatori dannati e uomini di valore, i tre personaggi incarnano quella tragica contraddizione tra virtù civile e debolezza morale che Dante riconosceva come caratteristica della condizione umana. La loro presenza nel sedicesimo canto serve quindi non solo a sviluppare la narrazione, ma anche a sostenere la critica politica e morale che attraversa tutta la Commedia.

Analisi del Canto 16 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi

Il Canto 16 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta un momento cruciale nel viaggio dantesco, collocandosi in una posizione strategica di transizione tra i violenti e i fraudolenti. La struttura narrativa si sviluppa attraverso sequenze ben definite che alternano descrizioni ambientali, dialoghi intensi e riflessioni morali.

Il canto si apre con un’immagine sonora potente: il fragore dell’acqua del Flegetonte che precipita nell’abisso, paragonato al ronzio degli alveari. Questa cascata segna il confine tra il settimo e l’ottavo cerchio, simboleggiando il passaggio dalla violenza alla frode, peccato considerato più grave nella gerarchia morale dantesca.

La narrazione si struttura attorno a tre momenti fondamentali: l’incontro con i tre fiorentini, il dialogo politico-morale e l’episodio enigmatico della corda. Il primo momento è caratterizzato dal riconoscimento reciproco e dal rispetto che Dante manifesta verso questi personaggi, nonostante la loro condizione di dannati. Questo atteggiamento rivela la complessità della visione etica dell’autore, che distingue tra il valore civico dei tre uomini e la loro condanna ultraterrena per peccati privati.

Il dialogo con i dannati evolve rapidamente verso una riflessione sulla decadenza di Firenze, tema caro a Dante esule. La celebre terzina «La gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni» sintetizza la critica dantesca alla nuova classe dirigente fiorentina, arricchitasi rapidamente e priva dei valori cavallereschi che caratterizzavano l’antica nobiltà. Questo passaggio evidenzia come il canto, pur ambientato nell’oltretomba, sia profondamente radicato nelle vicende storiche contemporanee, trasformando il viaggio ultraterreno in uno strumento di analisi e critica sociale.

Particolarmente significativa è la dicotomia tra l’ammirazione di Dante per le virtù pubbliche dei tre dannati e la loro condanna per peccati privati. Questa tensione riflette una questione centrale nel pensiero medievale: il rapporto tra vita pubblica e privata, tra virtù civiche e moralità personale. I tre fiorentini incarnano questo paradosso: valorosi cittadini ma peccatori nella sfera intima.

L’episodio della corda rappresenta uno dei momenti più enigmatici dell’Inferno. Quando Virgilio chiede a Dante la corda che porta alla vita e la getta nel baratro per richiamare Gerione, si apre uno spazio interpretativo complesso. La critica ha fornito diverse letture: simbolo della continenza francescana, allegoria della ragione che doma le passioni, o metafora del tentativo di superare l’inganno con l’inganno stesso. In ogni caso, questo gesto segna il passaggio verso il mondo della frode, anticipando l’incontro con Gerione che avverrà nel canto successivo.

L’organizzazione narrativa del canto riflette la perizia compositiva di Dante, che intreccia sapientemente elementi descrittivi, dialogici e allegorici. Il passaggio dai violenti ai fraudolenti è preparato gradualmente, attraverso un percorso che conduce il lettore dalle sabbie infuocate al bordo dell’abisso. Questa progressione spaziale è parallela a un approfondimento morale, con l’ingresso in un territorio del male più sottile e insidioso.

Il tema dell’apparenza ingannevole emerge con forza nella parte finale del canto, quando Dante allude a «quel ver c’ha faccia di menzogna», verità che appare incredibile. Questa riflessione metaletteraria anticipa l’incontro con Gerione e suggerisce una chiave interpretativa per l’intero viaggio dantesco, sospeso tra esperienza mistica autentica e costruzione poetica.

La dimensione politica del canto è ulteriormente enfatizzata dall’attenzione alla decadenza morale di Firenze. Attraverso il dialogo con i tre dannati, Dante esprime la sua visione della città natale, ormai corrotta dall’avidità e dalla perdita dei valori tradizionali. Questa critica si inserisce nella più ampia riflessione dantesca sulla crisi dell’Italia e dell’Impero, temi che attraversano l’intera Commedia.

Nel Canto XVI si manifesta pienamente la capacità di Dante di fondere dimensione personale e universale. L’incontro con concittadini illustri diventa occasione per una meditazione sulla condizione umana e sulla fragilità morale che può minare anche esistenze pubblicamente rispettabili. Il contrasto tra l’antica nobiltà e la nuova borghesia mercantile riflette non solo tensioni sociali specifiche, ma una più profonda crisi di valori che Dante identifica come radice del disordine politico e morale del suo tempo.

Figure retoriche nel Canto 16 dell’Inferno della Divina Commedia

Il canto 16 dell’Inferno della Divina Commedia è caratterizzato da un articolato tessuto retorico che Dante impiega con maestria per intensificare l’impatto emotivo e simbolico della narrazione. La ricchezza stilistica contribuisce a rendere il testo non solo memorabile, ma anche funzionale alla trasmissione dei significati allegorici e morali che il poeta intende comunicare.

Le similitudini rappresentano uno degli strumenti retorici più significativi del canto. Dante paragona il rimbombo dell’acqua che cade nel cerchio inferiore al ronzio degli alveari: “simile a quel che l’arnie fanno rombo” (v. 3). Questa similitudine trasforma un’esperienza ultraterrena in un’immagine familiare, rendendo percepibile l’atmosfera sonora dell’Inferno. Particolarmente efficace è la similitudine che paragona i tre dannati che corrono a “campion nudi e unti” (v. 22), evocando l’immagine degli atleti dell’antica Grecia, conferendo così dignità classica ai personaggi nonostante la loro condizione di dannati. Un’altra similitudine potente conclude il canto, quando i dannati vengono paragonati a coloro che corrono il “drappo verde” a Verona (vv. 121-123), sottolineando l’urgenza e la disperazione della loro corsa eterna.

Le metafore ricorrono con frequenza, contribuendo alla densità semantica del testo. La “fiera moglie” di Iacopo Rusticucci diventa metafora delle difficoltà coniugali che lo avrebbero condotto alla sodomia. Particolarmente significativa è la metafora politica della “gente nuova” e dei “sùbiti guadagni” (v. 73) come cause della corruzione di Firenze, condensando in poche parole la critica sociale e politica di Dante verso la sua città natale.

Le anafore e ripetizioni strutturano ritmicamente il discorso dantesco. L’uso ripetuto di “qual” nei versi 4-7 crea un effetto di intensificazione nel presentare i tre dannati. Anche la ripetizione dell’interiezione “O” funziona come elemento retorico che evidenzia il rispetto di Dante verso i dannati, nonostante la loro condizione: “O tu che con due dita alzi le ciglia” (v. 92). Questa figura contribuisce a creare un’atmosfera di solennità e rispetto che contrasta con la natura del peccato punito.

Le apostrofi costituiscono un elemento caratterizzante del canto, in particolare quando Dante si rivolge direttamente a Firenze: “Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni” (v. 75). Questa apostrofe personalizza la città, trasformandola in un’entità capace di soffrire per la propria corruzione. Altrettanto significativa è l’apostrofe rivolta ai tre fiorentini: “O gente in cui fervore acuto adesso / risana forse, che di voi, la colpa / già ben apparecchia, non siate sorde” (vv. 34-39), che trasmette l’ambivalenza del sentimento dantesco verso questi personaggi.

Il chiasmo emerge in diversi passaggi, come nel verso “cortesia e valor non si ripara” (v. 67), dove la struttura retorica rafforza il contrasto tra i valori perduti e la nuova realtà fiorentina. Questa figura contribuisce all’architettura simmetrica del discorso poetico, riflettendo la precisione strutturale dell’intero poema.

Le perifrasi arricchiscono il testo di sfumature interpretative. Quando Dante si riferisce a Virgilio come “colui ch’attende là, per qui mi mena” (v. 84), utilizza una perifrasi che evidenzia il ruolo di guida del poeta latino. Anche la descrizione della corda come strumento “con la qual pensai / prender la lonza alla pelle dipinta” (vv. 107-108) costituisce una complessa perifrasi che rimanda al primo canto e all’interpretazione allegorica della lussuria.

L’iperbole emerge quando Dante esalta la fame di notizie dei tre dannati, descritta come così intensa che “se fosse stato più, avran data volta” (v. 85), suggerendo che avrebbero interrotto la loro corsa eterna pur di continuare il dialogo.

L’uso sapiente di queste figure retoriche non è mero ornamento stilistico, ma parte integrante del progetto poetico dantesco. Attraverso di esse, il poeta riesce a creare ponti tra l’esperienza ultraterrena e quella terrena, a condensare significati complessi in immagini memorabili, e a strutturare il discorso secondo precise architetture concettuali che riflettono l’ordine morale e teologico dell’intera Commedia.

Temi principali del 16 canto dell’Inferno della Divina Commedia

Nel canto 16 dell’Inferno della Divina Commedia emergono diversi temi fondamentali che permettono di comprendere non solo il significato specifico di questo passaggio, ma anche il più ampio progetto morale e politico di Dante.

La decadenza di Firenze rappresenta il tema dominante, sviluppato attraverso il dialogo con i tre illustri fiorentini. Quando questi chiedono a Dante notizie sulla loro città, il poeta risponde con la celebre terzina: “La gente nuova e i sùbiti guadagni/ orgoglio e dismisura han generata,/ Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni” (vv. 73-75). Questa invettiva condensa la critica dantesca alla nuova classe dirigente fiorentina, composta da arricchiti di recente fortuna che hanno portato alla rovina morale della città. La contrapposizione tra l’antica nobiltà (rappresentata dai tre dannati) e i nuovi ricchi evidenzia l’amarezza del poeta per i valori civici perduti.

Strettamente collegato è il tema della nobiltà morale contrapposta al censo. Per Dante, la vera nobiltà non risiede nel sangue o nelle ricchezze, ma nelle virtù civiche e morali. I tre dannati, pur colpevoli di peccati personali, vengono comunque descritti come “di gran pregio” e degni di ascolto, dimostrando come il poeta riesca a distinguere tra virtù pubblica e vizi privati. Questo concetto verrà ulteriormente approfondito nel Convivio e rappresenta un pilastro del pensiero dantesco.

Un altro tema centrale è la contrapposizione tra valore cavalleresco e corruzione morale. I tre fiorentini chiedono se “cortesia e valor” risiedano ancora nella loro città, utilizzando termini che appartengono alla tradizione cavalleresca per indicare valori civici elevati. La risposta negativa di Dante sottolinea il fallimento dell’ideale cavalleresco nella Firenze contemporanea, dominata da interessi economici.

Il canto affronta anche la complessa tensione tra condanna morale e riconoscimento del merito. Dante mostra rispetto verso i tre dannati, pur sapendo che sono colpevoli di un grave peccato contro natura. Questo atteggiamento riflette la capacità del poeta di valutare la complessità dell’animo umano, riconoscendo che anche persone degne possono cadere in errore.

Infine, l’enigma della corda nella parte finale del canto introduce il tema della transizione dalla violenza alla frode. Questo passaggio simbolico anticipa l’ingresso nei cerchi inferiori dell’Inferno, dove i peccati diventano più gravi perché coinvolgono l’abuso dell’intelletto, facoltà distintamente umana. La corda, simbolo ambiguo che allude alla tentazione domata (la “lonza” del primo canto), diventa strumento per evocare Gerione, mostro che incarna la frode.

Questa ricchezza tematica dimostra come il sedicesimo canto non sia solo un episodio narrativo, ma un momento cruciale nell’articolazione del messaggio morale e politico della Commedia.

Il Canto 16 dell’Inferno in pillole

AspettoDettagli
CollocazioneSettimo cerchio, terzo girone (violenti contro natura – sodomiti)
AmbientazioneSabbione infuocato sotto una pioggia di fiamme, presso la cascata del Flegetonte
Personaggi principaliGuido Guerra (condottiero guelfo), Tegghiaio Aldobrandi (saggio consigliere), Iacopo Rusticucci (nobile rovinato dalla “fiera moglie”)
Struttura narrativaIncontro con i tre fiorentini, dialogo sulla corruzione di Firenze, congedo dai dannati, episodio della corda
Temi centraliDecadenza morale di Firenze, contrasto tra antica nobiltà e “gente nuova”, critica alla corruzione civica
Figure retoriche principaliSimilitudini (cani affamati, atleti nudi), metafore (“fiera moglie”), anafore (“qual, qual, qual”), apostrofi
Elementi simboliciLa corsa incessante (contrappasso), la corda gettata nel burrone (preparazione all’incontro con Gerione)
Messaggio moraleAnche uomini virtuosi nella vita pubblica possono cadere nel peccato personale; la nuova ricchezza ha corrotto i valori tradizionali
Collegamenti strutturaliPonte tra la violenza (settimo cerchio) e la frode (ottavo cerchio, evocata con Gerione)
Versi chiave“La gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni” (vv. 73-75)

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