Il Canto 18 dell’Inferno della Divina Commedia introduce l’ottavo cerchio infernale, le Malebolge, dove sono puniti i fraudolenti. Questo canto rappresenta un punto di svolta nell’architettura morale dantesca, poiché la frode è considerata più grave della violenza in quanto perverte il dono divino dell’intelletto umano.
Indice:
- Canto 18 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 18 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 18 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 18 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 18 dell’Inferno della Divina Commedia
- Temi principali del 18 canto dell’Inferno della Divina Commedia
- Il Canto 18 dell’Inferno in pillole
Canto 18 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
Testo Originale | Parafrasi |
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Luogo è in inferno detto Malebolge, | C’è nell’inferno un luogo chiamato Malebolge, |
tutto di pietra di color ferrigno, | fatto interamente di pietra color ferro, |
come la cerchia che dintorno il volge. | come la parete circolare che lo racchiude. |
Nel dritto mezzo del campo maligno | Proprio al centro di quella distesa dannata |
vaneggia un pozzo assai largo e profondo, | si apre un pozzo molto largo e profondo, |
di cui suo loco dicerò l’ordigno. | della cui struttura parlerò al momento opportuno. |
Quel cinghio che rimane adunque è tondo | Quella fascia di terreno che rimane è quindi rotonda |
tra ‘l pozzo e ‘l piè de l’alta ripa dura, | tra il pozzo e il piede dell’alta e ripida parete, |
e ha distinto in dieci valli il fondo. | e ha il fondo suddiviso in dieci fossati. |
Quale, dove per guardia de le mura | Come là dove per difendere le mura |
più e più fossi cingon li castelli, | più fossati circondano i castelli, |
la parte dove son rende figura, | la zona dove si trovano assume un aspetto particolare, |
tale imagine quivi facean quelli; | tale aspetto avevano quei fossati; |
e come a tai fortezze da’ lor sogli | e come a tali fortezze dai loro ingressi |
a la ripa di fuor son ponticelli, | fino alla riva esterna ci sono dei ponticelli, |
così da imo de la roccia scogli | così dalla base della roccia degli scogli |
movien che ricidien li argini e ‘ fossi | si estendevano tagliando gli argini e i fossati |
infino al pozzo che i tronca e raccogli. | fino al pozzo che li interrompe e li raccoglie. |
In questo luogo, de la schiena scossi | In questo luogo, scaricati dalla groppa |
di Gerïon, trovammoci; e ‘l poeta | di Gerione, ci ritrovammo; e il poeta |
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi. | prese a sinistra, e io lo seguii. |
A la man destra vidi nova pieta, | Alla mia destra vidi nuove sofferenze, |
novo tormento e novi frustatori, | nuovi tormenti e nuovi aguzzini, |
di che la prima bolgia era repleta. | di cui era piena la prima bolgia. |
Nel fondo erano ignudi i peccatori; | Sul fondo c’erano i peccatori nudi; |
dal mezzo in qua ci venien verso ‘l volto, | dalla metà in qua venivano verso di noi, |
di là con noi, ma con passi maggiori, | di là nella stessa direzione nostra, ma con passi più svelti, |
come i Roman per l’esercito molto, | come i Romani per la grande folla, |
l’anno del giubileo, su per lo ponte | nell’anno del giubileo, sul ponte |
hanno a passar la gente modo colto, | hanno trovato un sistema per far passare la gente, |
che da l’un lato tutti hanno la fronte | per cui da un lato tutti sono rivolti |
verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro, | verso Castel Sant’Angelo e vanno a San Pietro, |
da l’altra sponda vanno verso ‘l monte. | dall’altro lato vanno verso il monte. |
Di qua, di là, su per lo sasso tetro | Di qua, di là, sulla roccia scura |
vidi demon cornuti con gran ferze, | vidi demoni cornuti con grandi fruste, |
che li battien crudelmente di retro. | che li colpivano crudelmente da dietro. |
Ahi come facean lor levar le berze | Ah, come facevano loro alzare le gambe |
a le prime percosse! già nessuno | ai primi colpi! Già nessuno |
le seconde aspettava né le terze. | aspettava i secondi né i terzi. |
Mentr’ io andava, li occhi miei in uno | Mentre camminavo, i miei occhi in uno |
furo scontrati; e io sì tosto dissi: | si imbatterono; e io subito dissi: |
“Già di veder costui non son digiuno”. | “Non è la prima volta che vedo costui”. |
Per ch’io a figurarlo i piedi affissi; | Perciò fermai i piedi per osservarlo meglio; |
e ‘l dolce duca meco si ristette, | e il mio dolce duca si fermò con me, |
e assentio ch’alquanto in dietro gissi. | e acconsentì che tornassi un po’ indietro. |
E quel frustato celar si credette | E quel frustato credette di nascondersi |
bassando ‘l viso; ma poco li valse, | abbassando il viso; ma gli servì a poco, |
ch’io dissi: “O tu che l’occhio a terra gette, | perché io dissi: “O tu che tieni lo sguardo a terra, |
se le fazion che porti non son false, | se i lineamenti che hai non sono ingannevoli, |
Venedico se’ tu Caccianemico. | tu sei Venedico Caccianemico. |
Ma che ti mena a sì pungenti salse?”. | Ma cosa ti conduce a così pungenti tormenti?”. |
Ed elli a me: “Mal volontier lo dico; | Ed egli a me: “Mal volentieri lo dico; |
ma sforzami la tua chiara favella, | ma mi costringe il tuo chiaro parlare, |
che mi fa sovvenir del mondo antico. | che mi fa ricordare del mondo di prima. |
I’ fui colui che la Ghisolabella | Io fui colui che la Ghisolabella |
condussi a far la voglia del marchese, | indussi a fare la volontà del marchese, |
come che suoni la sconcia novella. | comunque si racconti la scabrosa vicenda. |
E non pur io qui piango bolognese; | E non sono il solo bolognese a piangere qui; |
anzi n’è questo loco tanto pieno, | anzi, questo luogo ne è così pieno, |
che tante lingue non son ora apprese | che ora non ci sono tante persone che hanno imparato |
a dicer ‘sipa’ tra Sàvena e Reno; | a dire ‘sipa’ tra Savena e Reno; |
e se di ciò vuoi fede o testimonio, | e se di ciò vuoi prova o testimonianza, |
rècati a mente il nostro avaro seno”. | ricordati della nostra indole avara”. |
Così parlando il percosse un demonio | Mentre così parlava lo colpì un demonio |
de la sua scurïada, e disse: “Via, | con la sua frusta, e disse: “Via, |
ruffian! qui non son femmine da conio”. | ruffiano! qui non ci sono donne da sedurre”. |
I’ mi raggiunsi con la scorta mia; | Io raggiunsi la mia guida; |
poscia con pochi passi divenimmo | poi dopo pochi passi arrivammo |
là ‘v’ uno scoglio de la ripa uscia. | là dove uno scoglio sporgeva dalla parete. |
Assai leggermente quel salimmo; | Vi salimmo molto agevolmente; |
e vòlti a destra su per la sua scheggia, | e voltati a destra su per il suo spigolo, |
da quelle cerchie etterne ci partimmo. | ci allontanammo da quei cerchi eterni. |
Quando noi fummo là dov’ el vaneggia | Quando fummo là dove lo scoglio si interrompe |
di sotto per dar passo a li sferzati, | in basso per lasciar passare i frustati, |
lo duca disse: “Attienti, e fa che feggia | la mia guida disse: “Fermati, e fa in modo che ti colpiscano |
lo viso in te di quest’ altri mal nati, | allo sguardo questi altri dannati, |
ai quali ancor non vedesti la faccia | dei quali non hai ancora visto il volto |
però che son con noi insieme andati”. | perché hanno camminato nella nostra stessa direzione”. |
Del vecchio ponte guardavam la traccia | Dal vecchio ponte osservavamo la processione |
che venìa verso noi da l’altra banda, | che veniva verso di noi dall’altra parte, |
e che la ferza similmente scaccia. | e che la frusta ugualmente incalza. |
E ‘l buon maestro, sanza mia dimanda, | E il buon maestro, senza che io glielo chiedessi, |
mi disse: “Guarda quel grande che vene, | mi disse: “Guarda quel grande che viene, |
e per dolor non par lagrime spanda: | e per il dolore non sembra versare lacrime: |
quanto aspetto reale ancor ritene! | quanto aspetto regale ancora mantiene! |
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno | Quello è Giasone, che per coraggio e per astuzia |
li Colchi del monton privati féne. | privò i Colchi del montone dal vello d’oro. |
Ello passò per l’isola di Lenno | Egli passò per l’isola di Lemno |
poi che l’ardite femmine spietate | dopo che le audaci donne spietate |
tutti li maschi loro a morte dienno. | mandarono a morte tutti i loro uomini. |
Ivi con segni e con parole ornate | Lì con atteggiamenti e con parole adorni |
Isifile ingannò, la giovinetta | ingannò Ipsipile, la giovinetta |
che prima avea tutte l’altre ingannate. | che prima aveva ingannato tutte le altre. |
Lasciolla quivi, gravida, soletta; | La lasciò lì, incinta, sola; |
tal colpa a tal martiro lui condanna; | tale colpa lo condanna a tale tormento; |
e anche di Medea si fa vendetta. | e anche di Medea si fa vendetta. |
Con lui sen va chi da tal parte inganna; | Con lui se ne va chi inganna nel medesimo modo; |
e questo basti de la prima valle | e questo basti per la prima valle |
sapere e di color che ‘n sé assanna”. | sapere e di coloro che essa tormenta”. |
Già eravam là ‘ve lo stretto calle | Eravamo già arrivati dove lo stretto passaggio |
con l’argine secondo s’incrocicchia, | si incrocia con il secondo argine, |
e fa di quello ad un altr’ arco spalle. | e di quello si fa sostegno a un altro arco. |
Quindi sentimmo gente che si nicchia | Da lì sentimmo gente che si lamenta |
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa, | nell’altra bolgia e che sbuffa col naso, |
e sé medesma con le palme picchia. | e si colpisce da sola con le mani. |
Le ripe eran grommate d’una muffa, | Le pareti erano incrostate di una muffa, |
per l’alito di giù che vi s’appasta, | a causa dell’esalazione di sotto che vi si attacca, |
che con li occhi e col naso facea zuffa. | che faceva guerra agli occhi e al naso. |
Lo fondo è cupo sì, che non ci basta | Il fondo è così profondo che non ci è sufficiente |
loco a veder sanza montare al dosso | guardare senza salire sulla sommità |
de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta. | dell’arco, dove lo scoglio sporge di più. |
Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso | Qui venimmo; e quindi giù nel fossato |
vidi gente attuffata in uno sterco | vidi gente immersa in uno sterco |
che da li uman privadi parea mosso. | che sembrava provenire dalle latrine umane. |
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, | E mentre là in basso con lo sguardo cerco, |
vidi un col capo sì di merda lordo, | vidi uno col capo così sporco di merda, |
che non parëa s’era laico o cherco. | che non si capiva se fosse laico o chierico. |
Quei mi sgridò: “Perché se’ tu sì gordo | Quello mi sgridò: “Perché sei così avido |
di riguardar più me che li altri brutti?”. | di guardare proprio me più degli altri imbrattati?”. |
E io a lui: “Perché, se ben ricordo, | E io a lui: “Perché, se ben ricordo, |
già t’ho veduto coi capelli asciutti, | ti ho già visto con i capelli asciutti, |
e se’ Alessio Interminei da Lucca: | e sei Alessio Interminelli da Lucca: |
però t’adocchio più che li altri tutti”. | per questo ti guardo più di tutti gli altri”. |
Ed elli allor, battendosi la zucca: | Ed egli allora, battendosi la testa: |
“Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe | “Quaggiù mi hanno sommerso le adulazioni |
ond’ io non ebbi mai la lingua stucca”. | di cui non ebbi mai la lingua stanca”. |
Appresso ciò lo duca “Fa che pinghe”, | Dopo ciò la mia guida: “Fa in modo che tu spinga” |
mi disse, “il viso un poco più avante, | mi disse, “lo sguardo un po’ più avanti, |
sì che la faccia ben con l’occhio attinghe | così che l’occhio colga bene il volto |
di quella sozza e scapigliata fante | di quella sozza e scarmigliata serva |
che là si graffia con l’unghie merdose, | che là si graffia con le unghie sporche di merda, |
e or s’accoscia e ora è in piedi stante. | e ora si accoscia e ora sta in piedi. |
Taïde è, la puttana che rispuose | È Taide, la prostituta che rispose |
al drudo suo quando disse ‘Ho io grazie | al suo amante quando disse ‘Ho ricevuto |
grandi apo te?’: ‘Anzi maravigliose!’. | grandi ringraziamenti da te?’: ‘Anzi, straordinari!’. |
E quinci sian le nostre viste sazie”. | E con questo siano soddisfatte le nostre osservazioni”. |
Canto 18 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il Canto 18 dell’Inferno della Divina Commedia segna l’ingresso di Dante e Virgilio nell’ottavo cerchio dell’Inferno, denominato Malebolge. Questo luogo è caratterizzato da una struttura complessa e geometricamente ordinata: dieci fosse concentriche (bolge) separate da argini rocciosi, interconnesse da ponti di pietra che si irradiano dal centro come raggi. L’architettura di pietra color ferro simboleggia la freddezza morale dei fraudolenti qui puniti.
Dopo essere scesi dal dorso di Gerione, mostro emblema della frode incontrato nel canto precedente, i due poeti iniziano l’esplorazione delle prime due bolge. Dante descrive minuziosamente la topografia dell’ottavo cerchio, paragonando la sua struttura a quella dei fossati che circondavano i castelli medievali, creando un’immagine concreta e visivamente potente per i suoi lettori.
Nella prima bolgia, Dante osserva due schiere di peccatori che procedono in direzioni opposte, entrambe frustate da demoni cornuti. Da una parte camminano i seduttori, coloro che hanno ingannato donne per il proprio piacere personale; dall’altra i ruffiani, che hanno sfruttato donne per trarne profitto. Il contrappasso è evidente: chi ha “sferzato” gli altri con l’inganno ora viene eternamente sferzato.
Tra i dannati, Dante riconosce Venedico Caccianemico, nobile bolognese che indusse la sorella Ghisolabella a concedersi al marchese Obizzo II d’Este. Nonostante tenti di nascondersi, Venedico viene identificato dal poeta e ammette la sua colpa, aggiungendo che molti bolognesi sono puniti nello stesso luogo, a dimostrazione della diffusione di tale vizio nella sua città.
Proseguendo lungo l’argine, Dante scorge anche l’eroe mitologico Giasone, punito per aver sedotto e poi abbandonato Ipsipile e Medea dopo aver ottenuto ciò che desiderava. Dante descrive Giasone con un misto di ammirazione per le sue imprese eroiche e condanna per il suo comportamento immorale, evidenziando l’ambivalenza morale del personaggio.
I due poeti raggiungono poi la seconda bolgia, dove sono puniti gli adulatori. Questi dannati sono immersi in un fosso pieno di escrementi umani, che rappresenta perfettamente il contrappasso: chi ha “sporcato” la propria bocca con false lusinghe ora è immerso nella sporcizia. L’atmosfera è dominata da un fetore nauseabondo, e i peccatori si percuotono con le proprie mani.
Dante riconosce tra costoro Alessio Interminelli da Lucca, che in vita era noto per la sua adulazione eccessiva. Il canto si conclude con il riferimento a Taide, cortigiana della commedia classica, che rappresenta l’adulatrice per eccellenza. Virgilio spiega a Dante come questa donna esagerò nella sua riconoscenza verso un amante, rappresentando l’essenza dell’adulazione interessata.
La struttura del canto riflette il passaggio da una punizione dinamica (il movimento forzato dei seduttori e ruffiani) a una statica (l’immobilità degli adulatori nella sporcizia), suggerendo come la frode proceda dalla manipolazione dei sentimenti alla corruzione della parola. Questo movimento discendente è emblematico della progressiva degradazione morale che caratterizza l’Inferno dantesco.
Canto 18 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
Nel canto 18 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante incontra diversi personaggi che incarnano le varie sfaccettature della frode. Questi incontri non sono casuali, ma attentamente orchestrati per illustrare la corruzione morale che caratterizza l’ottavo cerchio infernale.
Il primo personaggio di rilievo è Venedico Caccianemico, nobile bolognese che Dante riconosce tra i ruffiani della prima bolgia. Venedico era un influente membro della fazione guelfa di Bologna, ma la sua fama è macchiata da un’azione ignobile: indusse sua sorella Ghisolabella a concedersi al marchese Obizzo II d’Este per ottenere favori politici. Quando Dante lo apostrofa, Venedico tenta invano di nascondersi, ma finisce per confessare la propria colpa:
“E quel frustato celar si credette / bassando ‘l viso; ma poco li valse”
La presenza di Venedico serve a Dante per criticare la corruzione della nobiltà italiana contemporanea, evidenziando come i legami familiari venissero sacrificati sull’altare dell’interesse personale. Il nobile bolognese rappresenta inoltre una critica alla sua città natale, tanto che afferma che in quella bolgia si trovano “tanti Bolognesi” da superare il numero di quelli che vivono tra Savena e Reno, i fiumi che delimitano Bologna.
Successivamente, Dante identifica nella stessa schiera di dannati Giasone, eroe della mitologia greca. La sua inclusione tra i seduttori è emblematica: Giasone è presentato con ambivalenza, lodato per il coraggio e l’astuzia dimostrati nella conquista del vello d’oro, ma condannato per aver sedotto e abbandonato prima Isifile nell’isola di Lemno e poi Medea in Colchide. Dante descrive Giasone con una certa ammirazione:
“Quelli è Iasón, che per cuore e per senno / li Colchi del monton privati féne”
Questa rappresentazione complessa sottolinea come anche figure di apparente grandezza possano essere corrotte dall’inganno nelle relazioni personali. Giasone incarna il seduttore raffinato che usa “parole ornate” per ingannare, rappresentando la frode sentimentale nella sua forma più elevata e quindi più insidiosa.
Passando alla seconda bolgia, Dante incontra Alessio Interminelli da Lucca, immerso nello sterco degli adulatori. Alessio, appartenente a un’importante famiglia ghibellina lucchese, è sorpreso di essere riconosciuto in quella condizione degradante. La sua presenza evidenzia come l’adulazione fosse diffusa anche tra le classi elevate della società medievale. Dante lo ricorda per la sua eccessiva adulazione, sottolineando come il peccato dell’adulazione corrompa l’uso della parola, trasformandola da strumento di verità a mezzo d’inganno.
L’ultimo personaggio significativo è Taide, una meretrice tratta dalla commedia “L’Eunuco” di Terenzio. Dante la presenta come esempio di adulazione interessata, citando un dialogo in cui esagera la gratitudine verso un amante per un modesto dono. È interessante notare che Dante probabilmente non conosceva direttamente l’opera di Terenzio, ma la citazione mediata attraverso Cicerone, il che dimostra la sua capacità di integrare fonti classiche nel proprio impianto morale cristiano.
“‘Ho io grazie / grandi apo te?’: ‘Anzi maravigliose!'”
La scelta di includere Taide, personaggio letterario piuttosto che storico, evidenzia come Dante consideri la finzione letteraria uno strumento efficace per illustrare verità morali universali. Taide rappresenta l’adulazione nella sua forma più vile, utilizzata come strumento di manipolazione per ottenere vantaggi materiali.
Questa galleria di personaggi, che spazia dai contemporanei di Dante alle figure mitologiche e letterarie, crea un affresco completo della frode nelle relazioni umane. Ciascun personaggio illumina un aspetto specifico dell’inganno: Venedico rappresenta lo sfruttamento dei legami familiari, Giasone l’inganno amoroso mascherato da nobiltà d’animo, Alessio l’ipocrisia sociale e Taide la manipolazione attraverso false lusinghe.
Attraverso questi incontri, Dante non si limita a condannare comportamenti individuali, ma critica intere classi sociali e pratiche culturali del suo tempo, dimostrando come la frode fosse trasversale a tutti i livelli della società medievale, dalla nobiltà alla letteratura.
Analisi del Canto 18 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi
L’ingresso nelle Malebolge segna un cruciale passaggio nell’itinerario infernale di Dante. L’ottavo cerchio rappresenta infatti un punto di svolta, dove la logica punitiva si fa più complessa e raffinata. Qui inizia il regno della frode, peccato che richiede l’uso consapevole dell’intelletto per ingannare il prossimo, rappresentando quindi un tradimento della natura razionale dell’uomo.
La narrazione del diciottesimo canto si sviluppa attraverso una precisa architettura spaziale che riflette l’ordine morale dantesco. La struttura circolare delle bolge, con i suoi ponti radiali e gli argini concentrici, non è solo un’invenzione topografica, ma una potente metafora dell’ordine divino che governa anche la punizione. Questa geometria infernale contrasta volutamente con il disordine morale dei fraudolenti, creando una tensione narrativa che pervade l’intero canto.
Particolarmente significativa è la progressione tematica tra le due bolge presentate: nella prima vengono puniti coloro che hanno ingannato attraverso l’azione (seduttori e ruffiani), nella seconda quelli che hanno tradito attraverso la parola (adulatori). Questo passaggio dall’atto alla parola segue una logica narrativa che mette in evidenza la crescente sofisticazione del peccato fraudolento.
Il contrappasso, principio cardine della giustizia dantesca, si esprime qui con straordinaria efficacia poetica. I seduttori e ruffiani, che in vita spinsero altri a muoversi secondo i propri desideri manipolatori, sono ora costretti a un movimento perpetuo sotto la sferza dei demoni. Gli adulatori, che corruppero la parola immergendola nella falsità dell’adulazione interessata, sono ora letteralmente immersi nello sterco, emblema della degradazione morale.
La narrazione si sviluppa anche attraverso il contrasto tra movimento e stasi: l’incessante camminare dei dannati nella prima bolgia si contrappone all’immobilità forzata degli adulatori nella seconda. Questa opposizione cinetica riflette la natura stessa dei peccati: l’inganno attivo dei seduttori contro la passività corruttrice degli adulatori.
Significativo è anche il cambiamento del registro linguistico tra le due sezioni del canto. Dante passa da un linguaggio tecnico-architettonico, usato per descrivere la struttura delle Malebolge, a uno crudo e realistico per rappresentare la seconda bolgia. Questa transizione stilistica non è casuale ma rispecchia la degradazione morale che il poeta sta esplorando.
L’elemento dell’osservazione diretta è centrale nella costruzione narrativa: Dante non si limita a descrivere le pene, ma interagisce con i dannati, ponendo domande e ricevendo risposte che arricchiscono la dimensione morale del testo. L’incontro con Venedico Caccianemico, ad esempio, permette al poeta di denunciare la corruzione morale della sua Bologna, creando un collegamento tra la geografia infernale e quella terrena.
Un ulteriore elemento narrativo rilevante è l’uso di figure storiche accanto a personaggi mitologici: Caccianemico e Alessio Interminelli rappresentano il presente corrotto, mentre Giasone e Taide evocano un passato letterario altrettanto macchiato dalla frode. Questa giustapposizione temporale sottolinea l’universalità del peccato attraverso i secoli.
L’aspetto visivo delle punizioni riflette la concezione medievale del corpo come specchio dell’anima: la degradazione fisica dei dannati manifesta visibilmente la loro corruzione interiore. I corpi frustati dei seduttori e quelli immersi nello sterco degli adulatori diventano emblemi tangibili della degenerazione spirituale.
In conclusione, il Canto 18 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta un capolavoro di integrazione tra struttura narrativa e messaggio morale. La progressione spaziale attraverso le bolge rispecchia il percorso conoscitivo di Dante, che approfondisce gradualmente la sua comprensione della frode come perversione della ragione umana. La maestria con cui elementi architettonici, caratterizzazione dei personaggi e contrappasso vengono fusi in una narrazione coerente testimonia la straordinaria capacità del poeta di rendere tangibile, attraverso l’arte, la complessa realtà morale che intende rappresentare.
Figure retoriche nel Canto 18 dell’Inferno della Divina Commedia
Nel Canto 18 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante impiega un ricco apparato di figure retoriche che potenzia l’impatto emotivo dei versi e rende più efficace la rappresentazione delle pene infernali.
La similitudine è tra le figure più frequenti, utilizzata principalmente per rendere comprensibili le complesse strutture architettoniche di Malebolge. Emblematica è la comparazione tra l’organizzazione dell’ottavo cerchio e i sistemi difensivi medievali: “Quale, dove per guardia de le mura / più e più fossi cingon li castelli, / la parte dove son rende figura, / tale imagine quivi facean quelli” (vv. 10-13). Questa similitudine permette al lettore di visualizzare concretamente la struttura concentrica delle bolge.
Dante ricorre frequentemente alla metafora, come nei versi iniziali dove la pietra di Malebolge viene descritta “di color ferrigno” (v. 2), associando il metallo alla durezza morale dei fraudolenti. Significativo è anche l’uso della metafora architettonica quando il poeta paragona i ponti rocciosi a “scaglion che si mosse” (v. 34), evocando l’immagine di una scala mobile che connette le diverse zone del peccato.
L’antitesi è impiegata per esaltare i contrasti morali: nella descrizione di Giasone, Dante accosta le qualità eroiche (“per cuore e per senno”, v. 86) alla bassezza morale del seduttore, creando una tensione che evidenzia la complessità del personaggio.
L’enjambement è strategicamente utilizzato per mantenere alta l’attenzione del lettore, come nei versi: “Quindi sentimmo gente che si nicchia / ne l’altra bolgia” (vv. 103-104), dove la sospensione amplifica l’effetto drammatico.
Particolarmente efficace è l’iperbole nella descrizione della seconda bolgia, dove l’esagerazione del fetore e dell’immondezza (“Le ripe eran grommate d’una muffa, / per l’alito di giù che vi s’appasta, / che con li occhi e col naso facea zuffa”, vv. 106-108) intensifica il disgusto provato dai viaggiatori.
L’allitterazione contribuisce alla musicalità del testo, come nel verso “che col muso scuffa” (v. 104), dove la ripetizione dei suoni consonantici evoca il rumore dei dannati che sbuffano nel letame.
Dante impiega sapientemente l’apostrofe, rivolgendosi direttamente ai personaggi per aumentare la drammaticità, come nell’incontro con Venedico: “O tu che l’occhio a terra gette” (v. 46). Questa tecnica trasforma il lettore in testimone diretto del dialogo.
Particolarmente significativo è l’uso della perifrasi per descrivere l’impresa del vello d’oro di Giasone: “Quelli è Iasón, che per cuore e per senno / li Colchi del monton privati féne” (vv. 86-87), conferendo solennità al personaggio mitologico.
Dante sfrutta anche l’onomatopea, con termini come “si nicchia” e “scuffa” che imitano i suoni emessi dai dannati, rendendo più vivida la rappresentazione sensoriale.
L’ironia pervade il dialogo con Alessio Interminelli, quando Dante afferma di ricordarlo “coi capelli asciutti” (v. 121), contrapponendo l’aspetto dignitoso in vita all’immersione negli escrementi nell’aldilà.
La sinestesia arricchisce le descrizioni sensoriali, come nei versi che descrivono l’impressione olfattiva e visiva della seconda bolgia: “che con li occhi e col naso facea zuffa” (v. 108), fondendo percezioni diverse in un’unica potente immagine.
Queste figure retoriche non sono semplici ornamenti stilistici, ma strumenti essenziali attraverso cui Dante costruisce il dualismo tra l’ordine geometrico delle Malebolge e il caos morale dei fraudolenti, rendendo tangibile il contrasto tra la precisione della giustizia divina e la perversione dell’intelletto umano.
Temi principali del 18 canto dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto XVIII dell’Inferno costituisce un momento fondamentale nell’architettura morale della Divina Commedia, introducendo i lettori al complesso sistema delle Malebolge. In questo canto emergono diversi temi cruciali che riflettono la visione etica e teologica di Dante.
Il tema principale è indubbiamente la frode, considerata da Dante come la forma più grave di peccato dopo il tradimento. Nell’ottica teologica medievale, la frode rappresenta una perversione dell’intelletto, dono divino che distingue l’uomo dalle bestie. Utilizzare la ragione per ingannare il prossimo significa tradire la propria natura umana e allontanarsi deliberatamente da Dio. Le prime due bolge presentate nel canto XVIII mostrano due declinazioni specifiche di questo peccato: la manipolazione dei sentimenti e la corruzione della parola.
La manipolazione dei rapporti umani è esemplificata nella prima bolgia, dove seduttori e ruffiani vengono puniti per aver strumentalizzato le relazioni personali. Il caso di Venedico Caccianemico, che indusse la propria sorella a concedersi al marchese d’Este, evidenzia come i legami familiari e affettivi vengano corrotti dalla cupidigia e dall’interesse personale. Similmente, la figura di Giasone rappresenta l’inganno amoroso perpetrato attraverso «parole ornate» e false promesse. Il tema acquisisce una dimensione sociale quando Dante accenna alla diffusione di questo peccato a Bologna, suggerendo una critica alla degenerazione morale delle città italiane.
Parallelo a questo si sviluppa il tema della corruzione della parola, centrale nella seconda bolgia dove sono puniti gli adulatori. L’adulazione rappresenta un uso distorto del linguaggio, ridotto a strumento di manipolazione per ottenere favori o vantaggi. Non è casuale che questi peccatori siano immersi nello sterco: la sporcizia fisica riflette la contaminazione morale di chi ha «sporcato» la propria bocca con false lusinghe. Il riferimento a Taide, personaggio della commedia classica, amplia la prospettiva storica del peccato, mostrando come l’adulazione sia un vizio perenne della natura umana.
Un altro tema significativo è il contrasto tra struttura e caos morale. La precisione geometrica delle Malebolge, descritta con minuzia quasi architettonica nei versi iniziali, contrasta con il disordine etico dei peccatori. Questa opposizione riflette la concezione dantesca della giustizia divina: anche nel caos apparente del male, esiste un ordine superiore che assegna a ciascun peccato la punizione più appropriata.
Il simbolismo ambientale permea l’intero canto. La pietra di color ferrigno che costituisce le Malebolge rappresenta la durezza del cuore dei fraudolenti, mentre lo sterco della seconda bolgia simboleggia la degradazione morale degli adulatori. Anche il movimento forzato dei dannati nella prima bolgia, in direzioni opposte e sotto le sferzate dei demoni, riflette l’inquietudine e lo smarrimento spirituale di chi ha usato l’inganno nelle relazioni umane.
L’impostazione didattico-morale del canto è evidenziata dal modo in cui Dante presenta i peccatori come esempi negativi. Il tono di condanna è particolarmente evidente nel caso di Venedico Caccianemico, che Dante costringe a rivelare pubblicamente la propria colpa, negandogli la possibilità di nascondersi. Allo stesso tempo, il poeta riconosce le qualità eroiche di Giasone, pur condannandone la condotta morale, suggerendo una complessa visione della natura umana in cui virtù e vizio possono coesistere.
Il tema della responsabilità individuale emerge con chiarezza quando i peccatori sono costretti a riconoscere le proprie colpe. L’ammissione di Venedico («e non pur io qui piango bolognese») e la presenza di Alessio Interminelli sottolineano come la frode sia una scelta consapevole, non un errore o una passione incontrollabile.
Infine, il degrado della dignità umana è rappresentato vividamente attraverso le punizioni dei dannati. La riduzione dei seduttori e ruffiani a bestie frustate e degli adulatori a figure immerse negli escrementi simboleggia la perdita dell’umanità che consegue dall’uso fraudolento dell’intelletto.
Il Canto 18 dell’Inferno in pillole
Aspetto | Dettagli |
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Ambientazione | Ottavo cerchio (Malebolge), strutturato in dieci bolge concentriche collegate da ponti di pietra; ambiente caratterizzato da pietra color ferro |
Bolge descritte | Prima bolgia: seduttori e ruffiani frustati da demoni mentre camminano in direzioni opposte Seconda bolgia: adulatori immersi in escrementi |
Personaggi principali | Venedico Caccianemico: nobile bolognese che indusse la sorella a concedersi al marchese d’Este Giasone: eroe greco che sedusse e abbandonò Isifile e Medea Alessio Interminelli: nobile lucchese colpevole di adulazione Taide: cortigiana della commedia classica, simbolo dell’adulazione interessata |
Contrappasso | Seduttori/ruffiani: costretti a muoversi incessantemente frustati da demoni, simbolo dell’inquietudine causata dalle passioni Adulatori: immersi nello sterco, rappresentazione materiale della corruzione morale della loro parola |
Figure retoriche | Similitudini: paragoni con fortezze e fossati per descrivere Malebolge Metafore: pietra ferrigna come simbolo della durezza morale Antitesi: tra movimento dei seduttori e immobilità degli adulatori Realismo crudo: nelle descrizioni delle punizioni |
Temi centrali | Frode come perversione dell’intelletto umano Corruzione delle relazioni umane attraverso l’inganno Degradazione della parola come dono divino Critica sociale verso Bologna e altre città italiane |
Significato teologico | La frode colpisce il vincolo di fiducia tra gli uomini Progressione nella gravità dei peccati: dall’incontinenza alla malizia Ordine geometrico come espressione della giustizia divina |
Stile linguistico | Contrasto tra linguaggio tecnico (descrizioni architettoniche) e termini bassi (punizioni) Precisione descrittiva e realismo crudo Alternanza di registri stilistici |