Il Canto XVIII del Paradiso rappresenta una tappa fondamentale nel viaggio ultraterreno di Dante, collocandosi tra il Cielo di Marte e il Cielo di Giove. In questo canto della Divina Commedia, il poeta fiorentino conclude il dialogo con l’antenato Cacciaguida per poi assistere a una delle più suggestive manifestazioni della giustizia divina: le anime dei beati che si dispongono a formare lettere luminose e poi si trasformano nell’immagine di un’aquila, simbolo supremo dell’ordine voluto da Dio.
Indice:
- Canto 18 Paradiso della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 18 Paradiso della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 18 Paradiso della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 18 Paradiso: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 18 Paradiso della Divina Commedia
- Temi principali del Canto 18 del Paradiso della Divina Commedia
- Il Canto 18 Paradiso in pillole
Canto 18 Paradiso della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
| Testo originale | Parafrasi |
|---|---|
| Già si godeva solo del suo verbo quello specchio beato, e io gustava lo mio, temprando col dolce l’acerbo; | Cacciaguida ormai godeva in silenzio delle sue parole, e io assaporavo le mie riflessioni, attenuando l’amarezza della profezia con la dolcezza della gloria futura. |
| e quella donna ch’a Dio mi menava disse: «Muta pensier; pensa ch’i’ sono presso a colui ch’ogne torto disgrava». | Beatrice, che mi guidava verso Dio, mi disse: «Cambia pensiero; ricorda che io sono vicina a Colui che ripara ogni ingiustizia». |
| Io mi rivolsi a l’amoroso suono del mio conforto; e qual io allor vidi ne li occhi santi amor, qui l’abbandono: | Mi voltai verso il suono amorevole di chi mi confortava; ma non posso descrivere qui l’amore che vidi allora nei suoi occhi santi. |
| non perch’io pur del mio parlar diffidi, ma per la mente che non può redire sovra sé tanto, s’altri non la guidi. | Non solo perché diffido delle mie capacità espressive, ma perché la memoria non può tornare così indietro su se stessa, senza l’aiuto divino. |
| Tanto poss’io di quel punto ridire, che, rimirando lei, lo mio affetto libero fu da ogne altro disire, | Di quel momento posso dire solo che, guardando Beatrice, il mio cuore fu libero da ogni altro desiderio. |
| fin che ‘l piacere etterno, che diretto raggiava in Beatrice, dal bel viso mi contentava col secondo aspetto. | Finché la bellezza eterna di Dio, che risplendeva direttamente in Beatrice, mi appagava riflettendosi dal suo bel volto. |
| Vincendo me col lume d’un sorriso, ella mi disse: «Volgiti e ascolta; ché non pur ne’ miei occhi è paradiso». | Abbagliandomi con la luce del suo sorriso, mi disse: «Voltati e ascolta; perché il Paradiso non è solo nei miei occhi». |
| Come si vede qui alcuna volta l’affetto ne la vista, s’elli è tanto, che da lui sia tutta l’anima tolta, | Come talvolta sulla Terra si vede l’affetto manifestarsi nello sguardo, quando è così intenso da catturare tutta l’anima. |
| così nel fiammeggiar del folgór santo, a ch’io mi volsi, conobbi la voglia in lui di ragionarmi ancora alquanto. | Così nello splendore di quella luce santa, verso cui mi voltai, compresi il desiderio di Cacciaguida di parlarmi ancora. |
| El cominciò: «In questa quinta soglia de l’albero che vive de la cima e frutta sempre e mai non perde foglia, | Egli cominciò: «In questo quinto cielo del Paradiso, che riceve vita da Dio, fruttifica sempre e non perde mai le foglie. |
| spiriti son beati, che giù, prima che venissero al ciel, fuor di gran voce, sì ch’ogne musa ne sarebbe opima. | Ci sono spiriti beati che sulla Terra, prima di venire in cielo, ebbero grande fama, tanto da offrire ricca materia a ogni poesia. |
| Però mira ne’ corni de la croce: quello ch’io nomerò, lì farà l’atto che fa in nube il suo foco veloce». | Perciò guarda nei bracci della croce: chi io nominerò compirà il movimento rapido che il lampo fa nella nube». |
| Io vidi per la croce un lume tratto dal nomar Iosuè, com’el si feo; né mi fu noto il dir prima che ‘l fatto. | Vidi una luce muoversi per la croce al nome di Giosuè, simultaneamente al suono del nome stesso; vedere e udire avvennero insieme. |
| E al nome de l’alto Macabeo vidi moversi un altro roteando, e letizia era ferza del paleo. | Al nome del nobile Giuda Maccabeo vidi un’altra luce muoversi ruotando, e la gioia era la spinta che faceva girare la trottola. |
| Così per Carlo Magno e per Orlando due ne seguì lo mio attento sguardo, com’occhio segue suo falcon volando. | Così ai nomi di Carlo Magno e Orlando il mio sguardo attento seguì altre due luci, come l’occhio segue il volo del falcone. |
| Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo e ‘l duca Gottifredi la mia vista per quella croce, e Ruberto Guiscardo. | Poi Guglielmo, Rinoardo, il duca Goffredo e Roberto Guiscardo attrassero la mia vista lungo quella croce. |
| Indi, tra l’altre luci mota e mista, mostrommi l’alma che m’avea parlato qual era tra i cantor del cielo artista. | Infine, spostatasi e unitasi alle altre luci, l’anima che mi aveva parlato mi mostrò quanto fosse abile artista tra quei cantori celesti. |
| Io mi rivolsi dal mio destro lato per vedere in Beatrice il mio dovere, o per parlare o per atto, segnato; | Mi voltai a destra verso Beatrice per vedere quale fosse il mio compito, indicato nelle sue parole o nei suoi gesti. |
| e vidi le sue luci tanto mere, tanto gioconde, che la sua sembianza vinceva li altri e l’ultimo solere. | Vidi i suoi occhi così splendenti e gioiosi che il suo aspetto superava ogni altro precedente. |
| E come, per sentir più dilettanza bene operando, l’uom di giorno in giorno s’accorge che la sua virtute avanza, | Come chi, provando maggior gioia nel fare il bene, di giorno in giorno si accorge di aumentare la propria virtù. |
| sì m’accors’io che ‘l mio girare intorno col cielo insieme avea cresciuto l’arco, veggendo quel miracol più addorno. | Così io capii che il mio ruotare con il cielo aveva ampliato il giro, vedendo la bellezza di Beatrice accresciuta. |
| E qual è ‘l trasmutare in picciol varco di tempo in bianca donna, quando ‘l volto suo si discarchi di vergogna il carco, | Come una donna pallida riacquista velocemente il suo colore quando il volto perde il rossore della vergogna. |
| tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto, per lo candor de la temprata stella sesta, che dentro a sé m’avea ricolto. | Così fu ai miei occhi quando mi voltai, per il candore argenteo della sesta stella, Giove, che mi aveva accolto in sé. |
| Io vidi in quella giovial facella lo sfavillar de l’amor che lì era, segnare a li occhi miei nostra favella. | Vidi in quella stella di Giove lo splendore delle anime che vi risiedevano formare lettere visibili ai miei occhi. |
| E come augelli surti di rivera, quasi congratulando a lor pasture, fanno di sé or tonda or altra schiera, | Come uccelli levati da un fiume, quasi rallegrandosi del pasto, formano ora schiere tonde ora di altra forma. |
| sì dentro ai lumi sante creature volitando cantavano, e faciensi or _D_, or _I_, or _L_ in sue figure. | Così dentro quelle luci le anime sante volteggiavano cantando, formando ora una D, ora una I, ora una L. |
| Prima, cantando, a sua nota moviensi; poi, diventando l’un di questi segni, un poco s’arrestavano e taciensi. | Dapprima si muovevano cantando a ritmo del canto; poi, formando una di queste lettere, si fermavano un poco tacendo. |
| O diva Pegasëa che li ‘ngegni fai gloriosi e rendili longevi, ed essi teco le cittadi e’ regni, | O Musa, che rendi gloriosi gli ingegni e li fai durare nel tempo, ed essi con te rendono immortali città e regni. |
| illustrami di te, sì ch’io rilevi le lor figure com’io l’ho concette: paia tua possa in questi versi brevi! | Illuminami con la tua ispirazione, così che io possa descrivere quelle figure come le ho viste: risplenda la tua potenza in questi versi! |
| Mostrarsi dunque in cinque volte sette vocali e consonanti; e io notai le parti sì, come mi parver dette. | Si mostrarono dunque trentacinque lettere, vocali e consonanti; e io le annotai nella mente come mi sembrò fossero scritte. |
| ‘DILIGITE IUSTITIAM’, primai fur verbo e nome di tutto ‘l dipinto; ‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai. | «Amate la giustizia» furono verbo e nome che apparvero per primi; «voi che giudicate la Terra» furono gli ultimi. |
| Poscia ne l’emme del vocabol quinto rimasero ordinate; sì che Giove pareva argento lì d’oro distinto. | Poi le luci rimasero disposte nella M della quinta parola, così che Giove argenteo risaltava per il loro splendore dorato. |
| E vidi scendere altre luci dove era il colmo de l’emme, e lì quetarsi cantando, credo, il ben ch’a sé le move. | Vidi scendere altre luci nella parte alta della M e fermarsi lì cantando, credo, in lode di Dio che le attira. |
| Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi surgono innumerabili faville, onde li stolti sogliono agurarsi, | Poi, come colpendo ciocchi ardenti si levano innumerevoli faville, dalle quali gli sciocchi traggono presagi. |
| resurger parver quindi più di mille luci e salir, qual assai e qual poco, sì come ‘l sol che l’accende sortille; | Così sembrò che da quel punto si levassero più di mille luci, alcune salendo molto altre poco, come Dio che le accende dispose. |
| e quietata ciascuna in suo loco, la testa e ‘l collo d’un’aguglia vidi rappresentare a quel distinto foco. | Fermatasi ciascuna nel suo posto, vidi formare la testa e il collo di un’aquila con quello splendore che si stagliava sul cielo. |
| Quei che dipinge lì, non ha chi ‘l guidi; ma esso guida, e da lui si rammenta quella virtù ch’è forma per li nidi. | Colui che dipinge quella figura, Dio, non ha maestri; ma Lui stesso guida, e da Lui proviene la virtù creatrice per gli esseri viventi. |
| L’altra beatitudo, che contenta pareva prima d’ingigliarsi a l’emme, con poco moto seguitò la ‘mprenta. | Le altre anime beate, che prima sembravano contente di formare il giglio araldico dalla M, con piccoli movimenti completarono l’aquila. |
| O dolce stella, quali e quante gemme mi dimostraro che nostra giustizia effetto sia del ciel che tu ingemme! | O dolce stella, quali e quante anime luminose mi dimostraro che la nostra giustizia è frutto del cielo che tu adorni! |
| Per ch’io prego la mente in che s’inizia tuo moto e tua virtute, che rimiri ond’esce il fummo che ‘l tuo raggio vizia; | Perciò prego Dio, da cui inizia il tuo moto e la tua virtù, di osservare da dove esce il fumo che offusca il tuo influsso. |
| sì ch’un’altra fiata omai s’adiri del comperare e vender dentro al templo che si murò di segni e di martìri. | Così che si adiri ancora del commercio che si fa dentro il tempio costruito con miracoli e martiri. |
| O milizia del ciel cu’ io contemplo, adora per color che sono in terra tutti sviati dietro al malo essemplo! | O esercito celeste che io contemplo, prega per coloro che sulla Terra sono fuorviati dal cattivo esempio dei papi! |
| Già si solea con le spade far guerra; ma or si fa togliendo or qui or quivi lo pan che ‘l pio Padre a nessun serra. | Un tempo si faceva guerra con le spade; ora invece si fa sottraendo qui e là il pane spirituale che Dio non nega a nessuno. |
| Ma tu che sol per cancellare scrivi, pensa che Pietro e Paulo, che moriro per la vigna che guasti, ancor son vivi. | Ma tu, papa Giovanni, che scrivi solo per cancellare, ricorda che Pietro e Paolo, morti per la Chiesa che tu corrompi, sono ancora vivi. |
| Ben puoi tu dire: «I’ ho fermo ‘l disiro sì a colui che volle viver solo e che per salti fu tratto al martiro, | Certo tu puoi dire: «Io desidero solo san Giovanni Battista, che volle vivere nel deserto e fu condotto al martirio per una danza. |
| ch’io non conosco il pescator né Polo». | Così che io non riconosco il pescatore Pietro né Paolo». |
Canto 18 Paradiso della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il diciottesimo canto del Paradiso si articola in due grandi sezioni narrative che segnano un momento cruciale nel viaggio celeste di Dante. Nella prima parte, prosegue e si conclude il dialogo con Cacciaguida, iniziato nei canti precedenti; nella seconda, il poeta viene trasportato nel Cielo di Giove, dove assiste a una straordinaria manifestazione delle anime dei beati.
Il canto si apre con Dante che medita in silenzio sulle parole profetiche di Cacciaguida riguardanti il suo futuro esilio. Il poeta bilancia dentro di sé l’amarezza di queste previsioni con la dolcezza della consolazione ricevuta (“temprando col dolce l’acerbo”). Beatrice, percependo i pensieri di Dante, lo invita a distogliersi dalle preoccupazioni terrene, ricordandogli la vicinanza di Dio, supremo dispensatore di giustizia: “Muta pensier; pensa ch’i’ sono presso a colui ch’ogne torto disgrava”.
Cacciaguida riprende brevemente la parola per indicare a Dante alcuni spiriti illustri presenti nel Cielo di Marte: Giosuè, Giuda Maccabeo, Carlo Magno, Orlando, Guglielmo d’Orange, Rinoardo, Goffredo di Buglione e Roberto il Guiscardo. Questi personaggi, presentati attraverso un solenne catalogo epico, sono tutti combattenti per la fede, sottolineando così l’importanza della lotta per la giustizia divina. È significativo come Dante utilizzi questa enumerazione per creare un legame tra la storia biblica, la tradizione cavalleresca e la storia contemporanea.
Terminato il colloquio con Cacciaguida, avviene la transizione al Cielo di Giove, sesto cielo del Paradiso, dove risiedono gli spiriti giusti. Qui inizia la seconda e più spettacolare sezione del canto, caratterizzata da straordinarie visioni simboliche. Dante osserva le anime dei beati che, simili a uccelli che si alzano dai fiumi, volano nel cielo formando lettere luminose. Queste anime, paragonando il loro volo alle gru, si dispongono in modo da comporre trentacinque lettere, tra vocali e consonanti (“Mostrarsi dunque in cinque volte sette vocali e consonanti”) che formano la frase latina: “DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM” (“Amate la giustizia voi che giudicate la terra”), tratta dal Libro della Sapienza.
Questa scritta celeste rappresenta un monito divino rivolto ai governanti terrestri, esortandoli ad amministrare la giustizia con amore e saggezza. La tecnica retorica del figuralismo visivo permette a Dante di trasformare un concetto astratto come la giustizia in un’immagine concreta e luminosa, capace di colpire immediatamente l’immaginazione del lettore.
La visione raggiunge il culmine quando l’ultima lettera M della parola “TERRAM” si trasforma progressivamente nella testa di un’aquila. Le anime si riconfigurano, altre si aggiungono fino a completare la forma dell’aquila imperiale, simbolo per eccellenza della giustizia terrena e dell’autorità dell’Impero, istituzione che nella visione politica dantesca è direttamente voluta da Dio. Dante descrive questo processo con grande ricchezza di similitudini: le anime che si muovono sono paragonate a scintille che si sprigionano da un tronco ardente, creando un’immagine di straordinaria bellezza visiva.
Il canto si conclude con l’aquila che inizia a parlare come un’unica voce, pur essendo composta da molteplici anime, anticipando i temi che verranno sviluppati nel canto successivo. Questa immagine dell’unità nella molteplicità rappresenta perfettamente l’ideale dantesco di un ordine universale in cui ogni elemento conserva la propria identità pur contribuendo all’armonia dell’insieme, proprio come le diverse anime formano insieme il corpo dell’aquila pur mantenendo ciascuna la propria individualità.
Attraverso queste visioni celestiali, Dante illustra la corrispondenza tra l’ordine divino e quello terreno, tra la giustizia eterna e il suo riflesso nelle istituzioni umane, sviluppando così uno dei temi centrali dell’intera Divina Commedia.
Canto 18 Paradiso della Divina Commedia: i personaggi
Nel Canto XVIII del Paradiso, Dante costruisce un sistema di personaggi finalizzato a illustrare sia la dimensione personale del suo viaggio ultraterreno sia la visione politico-teologica dell’opera. I personaggi che popolano questo canto svolgono ruoli distinti ma complementari nel tessuto narrativo.
Cacciaguida rappresenta la figura centrale nella prima parte del canto, concludendo il dialogo iniziato nei canti precedenti. Trisavolo del poeta, questo spirito beato incarna il legame tra la dimensione familiare e quella universale del viaggio dantesco. La sua funzione è duplice: da un lato, rappresenta la nobiltà dell’antica Firenze, evocando un passato idealizzato contrapposto alla corruzione contemporanea; dall’altro, svolge un ruolo profetico, anticipando l’esilio di Dante e tracciando il futuro percorso del poeta. Quando Cacciaguida afferma “già s’godeva solo del suo verbo / quello specchio beato”, Dante lo definisce “specchio beato”, utilizzando una metafora che sottolinea come lo spirito rifletta perfettamente la luce divina. La sua eloquenza è caratterizzata da un linguaggio solenne e ricco di riferimenti biblici, conferendo autorità alle sue parole.
Beatrice emerge come figura fondamentale di guida e mediazione spirituale. Il suo ruolo si manifesta con particolare evidenza quando interrompe le meditazioni di Dante sulle profezie di Cacciaguida, invitandolo a “muta[r] pensier”. In questo passaggio, Beatrice incarna la funzione di intermediaria tra la dimensione umana e quella divina, richiamando Dante alla contemplazione delle verità celesti. Il suo sorriso, descritto come “lume”, diventa strumento di elevazione spirituale, capace di sciogliere le preoccupazioni terrene del poeta. La figura di Beatrice si arricchisce di connotazioni teologiche: rappresenta la Grazia illuminante che permette all’anima di superare i limiti della comprensione umana per accedere alla verità divina.
Particolarmente significativa è la galleria degli spiriti illustri citati da Cacciaguida nella prima parte del canto. Questo catalogo epico comprende figure come Giosuè, condottiero degli Ebrei che conquistò la Terra Promessa; Giuda Maccabeo, simbolo della resistenza ebraica contro l’oppressione; Carlo Magno e Orlando, emblemi della tradizione epica cristiana; Guglielmo d’Orange e Rinoardo, rappresentanti della lotta contro i Saraceni; Goffredo di Buglione, capo della prima crociata; e Roberto il Guiscardo, conquistatore normanno dell’Italia meridionale. La funzione di questo elenco va oltre il semplice omaggio a figure storiche: costituisce un catalogo di anime che hanno combattuto per la fede e per la giustizia, anticipando tematicamente la visione dell’aquila, simbolo della giustizia divina, che dominerà la seconda parte del canto.
Oltre ai personaggi individuali, assumono rilevanza le anime collettive che, nel Cielo di Giove, compongono prima le lettere della frase “DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM” e poi si trasformano nell’immagine dell’aquila imperiale. Queste anime, pur perdendo momentaneamente la loro individualità per fondersi in un disegno collettivo, mantengono la loro identità personale all’interno di un ordine superiore. Questa peculiare caratterizzazione evidenzia uno dei concetti fondamentali della visione dantesca del Paradiso: l’armonia tra individualità e comunità nella beatitudine celestiale.
La presenza stessa di Dante-personaggio evolve significativamente all’interno del canto. Da interlocutore di Cacciaguida, impegnato in riflessioni personali sul proprio destino terreno, diventa spettatore estatico di visioni celesti di portata universale. Questa trasformazione riflette il progressivo distacco dalle preoccupazioni mondane e l’apertura alla comprensione delle verità divine, segnando un’importante tappa nel percorso di ascensione spirituale del poeta.
Analisi del Canto 18 Paradiso: elementi tematici e narrativi
Nel Canto XVIII del Paradiso, Dante costruisce un’architettura narrativa e simbolica di straordinaria complessità che integra dimensioni teologiche, politiche e filosofiche. Il canto si sviluppa attraverso una progressione ascendente che parte dall’esperienza individuale per approdare a una visione collettiva della giustizia divina, costituendo un momento cruciale nell’evoluzione del percorso paradisiaco.
La struttura narrativa del canto è caratterizzata da un dualismo fondamentale: nella prima parte domina l’elemento privato e introspettivo del dialogo con Cacciaguida, mentre nella seconda prevale la dimensione pubblica e collettiva delle anime che formano lettere e simboli celesti. Questo passaggio dall’individuale al collettivo rispecchia l’itinerario spirituale di Dante, che progressivamente abbandona le preoccupazioni terrene per elevarsi alla contemplazione dell’ordine divino.
Particolarmente significativa è la transizione che avviene quando Beatrice interrompe le riflessioni di Dante sui propri tormenti terreni invitandolo a “mutare pensier”. Questo momento segna un punto di svolta narrativo fondamentale: il poeta è chiamato a distaccarsi dalle ansie relative al proprio destino personale per contemplare verità più elevate. La struttura narrativa riflette dunque il processo di purificazione interiore che Dante sta compiendo.
Il tema della giustizia divina, centrale nell’intero Paradiso, trova in questo canto una delle sue espressioni più compiute. La frase biblica “DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM” rappresenta l’essenza del messaggio teologico-politico che Dante intende trasmettere: i governanti terreni sono chiamati ad amministrare la giustizia come riflesso dell’ordine divino. Questa concezione si inserisce perfettamente nella visione dantesca del rapporto tra potere spirituale e temporale, elaborata nel “De Monarchia”: l’autorità imperiale, simboleggiata dall’aquila, deriva direttamente da Dio e ha il compito di garantire la giustizia e la pace nel mondo.
La trasformazione delle anime da lettere in aquila costituisce l’elemento narrativo più innovativo del canto. Questa metamorfosi allegorica illustra come l’ordine divino si manifesti attraverso forme comprensibili all’intelletto umano, rendendo visibile l’invisibile. La descrizione minuziosa del processo di formazione delle lettere e della loro trasformazione in aquila testimonia la capacità di Dante di rendere concrete e percepibili realtà metafisiche attraverso immagini di straordinaria potenza visiva.
Il simbolismo dell’aquila imperiale si carica di particolare significato nel contesto storico-politico dell’epoca dantesca: essa rappresenta non solo l’ideale di un impero universale capace di garantire pace e giustizia, ma anche un amaro contrasto con la realtà contemporanea caratterizzata da divisioni e conflitti. L’aquila incarna così la nostalgia dantesca per un ordine politico perfetto, che rispecchi l’armonia celeste.
Dal punto di vista teologico, il canto sviluppa il tema della giustizia divina come principio ordinatore dell’universo. Le anime dei beati, pur mantenendo la propria individualità, partecipano alla formazione di un disegno collettivo che trascende le singole esistenze. Questo concetto di “unità nella molteplicità” riflette la concezione neoplatonica dell’ordine cosmico che permea l’intera struttura del Paradiso.
La luce, elemento centrale nella simbologia paradisiaca, assume in questo canto una funzione comunicativa: attraverso i movimenti delle anime luminose si manifestano messaggi divini. La luminosità delle anime varia d’intensità in relazione alla beatitudine di ciascuna, secondo il principio per cui maggiore è la vicinanza a Dio, più intensa è la luce emanata. Questo gradualismo luminoso corrisponde alla struttura gerarchica dell’universo dantesco.
Il canto XVIII rappresenta dunque un momento cruciale nel processo di elevazione spirituale di Dante: attraverso la visione dell’aquila, simbolo della giustizia divina manifestata nel mondo, il poeta comprende come l’ordine terreno debba conformarsi ai principi celesti. La ricchezza dei temi trattati e la complessità della struttura narrativa rendono questo canto uno dei vertici della poesia dantesca, in cui si fondono magistralmente dimensione teologica, politica e poetica.
Figure retoriche nel Canto 18 Paradiso della Divina Commedia
Il Canto XVIII del Paradiso rappresenta uno dei vertici stilistici dell’intera Commedia, dove Dante dispiega un ricchissimo apparato di figure retoriche per tradurre in parole l’ineffabilità della visione celeste.
Metafore e similitudini costituiscono l’ossatura stilistica del canto, permettendo al poeta di avvicinare l’esperienza ultraterrena alla comprensione umana. Particolarmente efficace è la similitudine che descrive il movimento delle anime beate: “Quali per li seren tranquilli e puri / discorron per lo ciel lumi repenti“, paragonando gli spiriti a meteore che attraversano un cielo limpido. La metafora dello “specchio beato” riferita a Cacciaguida evoca invece la capacità delle anime di riflettere perfettamente la luce divina.
L’allegoria pervade l’intero canto, culminando nella trasformazione delle anime in lettere e poi nell’aquila imperiale. Questa metamorfosi rappresenta visivamente il concetto di unità nella molteplicità: i singoli beati mantengono la propria identità pur formando collettivamente un simbolo superiore. L’aquila, emblema della giustizia divina e dell’autorità imperiale, incarna l’idea dantesca dell’ordine cosmico voluto da Dio.
La sinestesia, fusione di percezioni sensoriali diverse, emerge in espressioni come “dolce sinfonia di paradiso” e “temprando col dolce l’acerbo“, dove sensazioni gustative si mescolano con quelle uditive e spirituali, suggerendo la totalità dell’esperienza paradisiaca che trascende i singoli sensi.
L’ekphrasis, descrizione dettagliata di un’opera d’arte o di una visione complessa, si manifesta nella minuziosa rappresentazione delle anime che formano le lettere bibliche. Dante riesce a trasformare un concetto astratto (la giustizia divina) in un’immagine dinamica e vivente, permettendo al lettore di “vedere” ciò che normalmente sarebbe inesprimibile.
Particolarmente significativa è l’apostrofe rivolta ai governanti della terra: “DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM” (“Amate la giustizia, voi che giudicate la terra”), frase tratta dal Libro della Sapienza che si materializza nel cielo attraverso le anime disposte in forma di lettere. Questa figura sottolinea l’urgenza del messaggio morale e politico del canto.
Il catalogo epico degli spiriti giusti citati da Cacciaguida (Giosuè, Giuda Maccabeo, Carlo Magno, Orlando) richiama la tradizione classica, conferendo solennità al passaggio e creando un ponte tra l’eroismo terreno e la beatitudine celeste.
A livello fonico, il canto è ricco di allitterazioni che creano effetti musicali riflettendo l’armonia paradisiaca: “lume lucente“, “primo principio“. La ricchezza sonora si estende anche all’uso di onomatopee che riproducono il suono del canto delle anime.
L’antitesi tra luce e ombra, tra perfezione celeste e corruzione terrena, permea l’intero canto, evidenziando il contrasto tra l’ideale giustizia rappresentata dall’aquila e la realtà storica contemporanea a Dante.
La metonimia appare quando Dio viene definito come “colui ch’ogne torto disgrava“, identificandolo attraverso la sua funzione di supremo giudice.
Questo intricato tessuto retorico non rappresenta un mero esercizio stilistico, ma lo strumento necessario per rendere comunicabile l’esperienza mistica. Le figure retoriche funzionano come ponti tra il mondo terreno e quello celeste, permettendo a Dante di guidare il lettore verso una comprensione intuitiva di realtà altrimenti inafferrabili.
Temi principali del Canto 18 del Paradiso della Divina Commedia
Il Canto XVIII del Paradiso racchiude alcuni dei temi fondamentali dell’intera terza cantica dantesca. Il primo tema portante è la giustizia divina, presentata non come concetto astratto ma materializzata nella visione delle anime che formano prima lettere e poi l’aquila imperiale. La frase biblica “DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM” rappresenta l’esortazione divina rivolta ai governanti terreni, evidenziando come la giustizia debba essere il fondamento di ogni potere temporale.
Un secondo tema cruciale è il rapporto tra ordine celeste e potere terreno. L’aquila, simbolo dell’Impero, si forma proprio nel cielo di Giove, pianeta tradizionalmente associato alla giustizia. Dante sviluppa qui la sua concezione politica secondo cui l’autorità imperiale deriva direttamente da Dio e costituisce lo strumento terreno della giustizia divina. Questa visione si contrappone alla realtà storica contemporanea, caratterizzata dalle lotte tra guelfi e ghibellini e dalla corruzione delle istituzioni.
Il simbolismo visivo emerge come terzo tema fondamentale, rivelando la capacità di Dante di tradurre concetti teologici complessi in immagini concrete e memorabili. Le lettere luminose e la trasformazione in aquila rappresentano un linguaggio visivo che permette di comunicare verità spirituali altrimenti ineffabili attraverso l’esperienza sensibile.
Infine, il tema della trascendenza pervade l’intero canto, con il progressivo distacco di Dante dalle preoccupazioni terrene (rappresentate dalle profezie sul suo esilio) verso la contemplazione delle realtà celesti, mediata dal sorriso illuminante di Beatrice. Questo movimento ascensionale simboleggia il percorso dell’anima umana verso la comprensione delle verità divine, possibile solo abbandonando la prospettiva mondana.
Il Canto 18 Paradiso in pillole
| Sezione | Punti Chiave | Figure Retoriche Utilizzate | Temi Principali |
|---|---|---|---|
| Struttura del canto | Conclusione dialogo con Cacciaguida (vv.1-51); Visione delle anime nel Cielo di Giove (vv.52-93); Formazione dell’aquila (vv.94-136) | Catalogo epico, similitudine | Giustizia divina, autorità imperiale |
| Significato simbolico | Lettere che formano “DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM”; Trasformazione della M finale in aquila | Figuralismo visivo, allegoria | Relazione tra giustizia divina e governo terreno |
| Personaggi principali | Cacciaguida (antenato-profeta); Beatrice (guida spirituale); Spiriti giusti (formano le lettere e l’aquila) | Metonimia, perifrasi | Continuità storica, guida divina |
| Contesto teologico | Visione della giustizia come fondamento dell’ordine cosmico; Impero come istituzione voluta da Dio | Metafora dell’aquila, ekphrasis | Ordine universale, legittimazione del potere |
| Tecnica poetica | Uso di immagini concrete per rappresentare concetti astratti; Transizione tra dialogo e visione collettiva | Sinestesia, allitterazione, chiasmo | Ineffabilità dell’esperienza paradisiaca, armonia celeste |