Divina Commedia, Canto 20 Inferno: testo, parafrasi e commento

Divina Commedia, Canto 20 Inferno: testo, parafrasi e figure retoriche

Nel canto 20 dell’Inferno della Divina Commedia il poeta esplora la quarta bolgia dell’ottavo cerchio, Malebolge, dove sono puniti indovini, maghi e astrologi. La peculiarità di questo canto risiede nel contrappasso che colpisce i dannati: avendo preteso in vita di vedere nel futuro, sovvertendo l’ordine naturale stabilito da Dio, ora sono costretti a camminare con il volto rivolto all’indietro, impossibilitati a guardare davanti a sé.

Indice:

Canto 20 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi

Testo OriginaleParafrasi
Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch’è d’i sommersi.
Devo comporre versi su una nuova pena
e dare materia al ventesimo canto
della prima cantica, che riguarda i dannati.
Io era già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d’angoscioso pianto;
Ero già completamente pronto
a guardare nel fondo scoperto della bolgia,
che si bagnava di un pianto angoscioso;
e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.
e vidi gente per la bolgia circolare
venire, in silenzio e piangendo, con il passo
che fanno le processioni in questo mondo.
Come ‘l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso,
Quando abbassai lo sguardo su di loro,
mi apparve sorprendentemente stravolto
ciascuno tra il mento e l’inizio del torace,
ché da le reni era tornato ‘l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché ‘l veder dinanzi era lor tolto.
poiché il volto era girato verso la schiena,
ed erano costretti a camminare all’indietro,
perché la possibilità di vedere davanti era loro tolta.
Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.
Forse per effetto della paralisi
qualcuno si è stravolto in questo modo;
ma io non l’ho mai visto, né credo che sia possibile.
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com’io potea tener lo viso asciutto,
Se Dio ti permetta, o lettore, di trarre profitto
dalla tua lettura, ora immagina da te
come potevo trattenere le lacrime,
quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che ‘l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.
quando vidi da vicino la nostra figura umana
così contorta, che il pianto degli occhi
bagnava le natiche lungo la fessura.
Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: “Ancor se’ tu de li altri sciocchi?
Certamente io piangevo, appoggiato a una delle rocce
dello scoglio duro, tanto che la mia guida
mi disse: “Sei ancora come gli altri sciocchi?
Qui vive la pietà quand’è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?
Qui la pietà vive quando è ben morta;
chi è più malvagio di colui
che prova compassione per il giudizio divino?
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;
per ch’ei gridavan tutti: ‘Dove rui,
Alza la testa, alza, e guarda colui
per il quale si aprì la terra agli occhi dei Tebani;
per cui tutti gridavano: ‘Dove precipiti,
Anfïarao? perché lasci la guerra?’
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.
Anfiarao? perché abbandoni la guerra?’
E non smise di precipitare a valle
fino a Minosse che afferra ciascun dannato.
Mira c’ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.
Guarda come ha fatto del petto le spalle;
poiché volle vedere troppo nel futuro,
guarda indietro e fa cammino a ritroso.
Vedi Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;
Vedi Tiresia, che mutò aspetto
quando da maschio divenne femmina,
cambiandosi tutte le membra;
e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che riavesse le maschili penne.
e prima, poi, gli convenne colpire
i due serpenti avvolti, con la verga,
per riavere le sembianze maschili.
Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,
che ne’ monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,
Aronta è colui che gli sta alle spalle,
che nei monti di Luni, dove lavora
il carrarese che abita sotto,
ebbe tra ‘ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e ‘l mar non li era la veduta tronca.
ebbe tra i bianchi marmi la grotta
come sua dimora; da dove la vista
non gli era impedita per guardare le stelle e il mare.
E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,
E quella che copre il petto,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogni parte pelosa,
Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu’io;
onde un poco mi piace che m’ascolte.
fu Manto, che viaggiò per molte terre;
poi si stabilì là dove nacqui io;
perciò mi piace che tu mi ascolti un poco.
Poscia che ‘l padre suo di vita uscìo,
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.
Dopo che suo padre morì,
e la città di Bacco (Tebe) divenne schiava,
questa per lungo tempo andò per il mondo.
Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.
Su in Italia bella giace un lago,
ai piedi delle Alpi che chiudono la Germania
sopra il Tirolo, che ha nome Benaco.
Per mille fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de l’acqua che nel detto laco stagna.
Per mille sorgenti, credo, e più si bagna
tra Garda, Val Camonica e Appennino
dell’acqua che ristagna nel detto lago.
Loco è nel mezzo là dove ‘l trentino
pastore e quel di Brescia e ‘l veronese
segnar poria, se fesse quel cammino.
C’è un punto nel mezzo dove il vescovo trentino
e quello di Brescia e il veronese
potrebbero benedire, se facessero quel cammino.
Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ‘ntorno più discese.
Si trova Peschiera, bella e forte fortezza
per fronteggiare bresciani e bergamaschi,
dove la riva intorno più si abbassa.
Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che ‘n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi.
Lì deve cadere tutto quanto
ciò che non può rimanere nel grembo del Benaco,
e diventa fiume giù per verdi pascoli.
Tosto che l’acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.
Non appena l’acqua inizia a scorrere,
non più Benaco, ma Mincio si chiama
fino a Governolo, dove confluisce nel Po.
Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
ne la qual si distende e la ‘mpaluda;
e suol di state talor essere grama.
Non ha corso per molto, che trova una pianura,
nella quale si estende e forma una palude;
e suole d’estate talvolta essere malsana.
Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d’abitanti nuda.
Passando di qui la vergine crudele
vide terra, nel mezzo della palude,
senza coltivazione e priva di abitanti.
Lì, per fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.
Lì, per fuggire ogni consorzio umano,
si fermò con i suoi servi a praticare le sue arti magiche,
e visse, e vi lasciò il suo corpo morto.
Li uomini poi che ‘ntorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti.
Gli uomini poi che erano sparsi intorno
si riunirono in quel luogo, che era difeso
dalla palude che aveva da tutte le parti.
Fer la città sovra quell’ossa morte;
e per colei che ‘l loco prima elesse,
Mantüa l’appellar sanz’altra sorte.
Fondarono la città sopra quelle ossa morte;
e per colei che per prima scelse il luogo,
la chiamarono Mantova senza altra scelta.
Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.
Già furono le sue genti all’interno più numerose,
prima che la stoltezza dei Casalodi
ricevesse l’inganno da Pinamonte.
Però t’assenno che, se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi.”
Perciò ti avverto che, se mai senti
raccontare l’origine della mia città diversamente,
la verità non sia ingannata da alcuna menzogna.”
E io: “Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti.
E io: “Maestro, i tuoi ragionamenti
mi sono così certi e conquistano così la mia fiducia,
che gli altri mi sarebbero come carboni spenti.
Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede”.
Ma dimmi, della gente che avanza,
se tu ne vedi alcuno degno di nota;
perché solo a ciò la mia mente ritorna”.
Allor mi disse: “Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu – quando Grecia fu di maschi vòta,
Allora mi disse: “Quello che dalla guancia
protende la barba sulle spalle scure,
fu – quando la Grecia fu svuotata di maschi,
sì ch’a pena rimaser per le cune –
augure, e diede ‘l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.
tanto che appena ne rimasero nelle culle –
augure, e diede il segnale con Calcante
in Aulide per tagliare la prima fune.
Euripilo ebbe nome, e così ‘l canta
l’alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.
Euripilo ebbe nome, e così lo menziona
la mia alta tragedia in qualche passo:
ben lo sai tu che la conosci tutta intera.
Quell’altro che ne’ fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe ‘l gioco.
Quell’altro che nei fianchi è così esile,
fu Michele Scotto, che veramente
delle frodi magiche conobbe l’arte.
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
che vorrebbe ora aver badato al cuoio e allo spago,
ma tardi si pente.
Vedi le triste che lasciaron l’ago,
la spuola e ‘l fuso, e fecersi ‘ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.
Vedi le infelici che abbandonarono l’ago,
la spola e il fuso, e si fecero indovine;
praticarono magie con erbe e con immagini.
Ma vienne omai, ché già tiene ‘l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
sotto Sobilia Caino e le spine;
Ma vieni ormai, perché già tiene il confine
di entrambi gli emisferi e tocca l’onda
sotto Siviglia Caino con le spine;
e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda”.
e già ieri notte fu luna piena:
ben te ne devi ricordare, dato che non ti nuocque
alcuna volta nella selva profonda”.
Sì mi parlava, e andavamo introcque.Così mi parlava, e intanto camminavamo.

Canto 20 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione

Il canto 20 dell’Inferno della Divina Commedia si svolge nell’ottavo cerchio, precisamente nella quarta bolgia di Malebolge, dove sono puniti gli indovini, i maghi e gli astrologi. Questo luogo infernale rappresenta la dimora eterna di coloro che in vita pretesero di vedere il futuro, sfidando così la Provvidenza divina.

Dante introduce subito la singolarità della pena che attende questi dannati: “Di nova pena mi conven far versi”, esordisce il poeta, sottolineando l’unicità del contrappasso che sta per descrivere. Mentre osserva il fondo della bolgia, vede una processione di anime che avanzano lentamente, in silenzio e piangendo, simili alle processioni litaniche terrene.

La loro punizione è emblematica: i volti sono stati stravolti e ruotati all’indietro, verso la schiena, costringendoli a camminare a ritroso, poiché “il veder dinanzi era lor tolto”. Le loro lacrime, anziché scorrere sul petto, rigano la schiena, scivolando lungo il solco tra le natiche.

Questa deformazione fisica riflette perfettamente la natura del loro peccato: avendo preteso di guardare troppo avanti nel futuro, ora sono condannati a vedere solo dietro di sé, in un ribaltamento che manifesta la legge del contrappasso. La loro andatura innaturale simboleggia la distorsione che hanno operato sull’ordine voluto da Dio, tentando di usurpare una conoscenza riservata alla divinità.

Davanti a questo spettacolo, Dante è sopraffatto dalla compassione e scoppia in lacrime. Questo suscita il severo rimprovero di Virgilio: “Ancor se’ tu de li altri sciocchi?”. La guida gli ricorda che “Qui vive la pietà quand’è ben morta”, ossia che la vera pietà consiste nel riconoscere la giustizia della punizione divina, non nel compatire chi l’ha meritata.

Tra i dannati, Dante riconosce diverse figure storiche e mitologiche. Il primo è Anfiarao, indovino greco che partecipò alla spedizione dei Sette contro Tebe, il quale, prevedendo la propria morte, tentò di evitarla nascondendosi, ma fu comunque inghiottito dalla terra. Segue Tiresia, celebre indovino tebano che, secondo il mito, visse sia come uomo che come donna. Poi si incontra Aronte, aruspice etrusco che predisse la guerra civile tra Cesare e Pompeo.

Particolarmente estesa è la digressione dedicata a Manto, figlia di Tiresia, alla quale si collega la fondazione di Mantova, città natale di Virgilio. Attraverso la voce della sua guida, Dante offre una descrizione accurata della geografia del territorio mantovano, spiegando come le acque in eccesso del lago di Garda formino il fiume Mincio, che scorre fino a creare una palude.

In questo luogo palustre Manto si stabilì dopo lunghi vagabondaggi, e qui morì. Solo dopo la sua morte, gli uomini dei territori circostanti edificarono una città in quel luogo, chiamandola Mantova in onore della profetessa.

Questo racconto rappresenta una delle rare occasioni in cui Dante fa correggere a Virgilio un errore presente nelle sue stesse opere, poiché la versione sulla fondazione di Mantova qui presentata differisce da quella dell’Eneide.

Il canto prosegue con la menzione di altri indovini: Euripilo, che insieme a Calcante stabilì il momento propizio per la partenza della flotta greca verso Troia; Michele Scotto, astrologo scozzese attivo alla corte di Federico II; Guido Bonatti, astrologo forlivese che servì Guido da Montefeltro; e Asdente, calzolaio parmense noto per le sue profezie.

Il canto si conclude con un’indicazione astronomica che segnala il trascorrere del tempo: la luna (“Caino e le spine”, secondo una credenza popolare medievale) sta per tramontare nell’oceano. Virgilio esorta Dante a proseguire il cammino, ricordandogli che la notte precedente la luna era piena, fatto che dovrebbe rammentare poiché la luce lunare lo aveva aiutato nella “selva fonda”.

La struttura poetica del canto segue il consueto schema dantesco delle terzine incatenate in endecasillabi (ABA BCB CDC…), con un ritmo che si adatta perfettamente alla narrazione: solenne nell’introduzione, concitato nella descrizione dei dannati, disteso nella digressione su Mantova e nuovamente incalzante nell’elenco finale degli indovini puniti.

Canto 20 Inferno della Divina Commedia: i personaggi

Nel canto 20 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante incontra una galleria di personaggi illustri accomunati dalla pratica delle arti divinatorie. Queste anime dannate rappresentano l’arroganza umana di chi ha tentato di superare i limiti della conoscenza imposti da Dio, pretendendo di scrutare il futuro.

Il primo indovino che appare è Anfiarao, celebre indovino della mitologia greca che partecipò alla spedizione dei Sette contro Tebe. Dante lo presenta mentre “fuggì per non veder” la propria morte in battaglia che aveva lui stesso previsto. Anfiarao, secondo la leggenda, finì inghiottito dalla terra che si aprì sotto i suoi piedi, creando una perfetta analogia con la sua punizione eterna: chi pretese di vedere troppo avanti ora è costretto a guardare indietro.

Tiresia rappresenta forse la figura più emblematica tra gli indovini puniti. L’indovino tebano, famoso per aver vissuto sia come uomo sia come donna (avendo cambiato sesso dopo aver colpito due serpenti accoppiati), acquisì il dono della profezia proprio attraverso questa duplice esperienza.

Dante lo descrive nel momento della sua metamorfosi, sottolineando come il bastone con cui colpì i serpenti simboleggi l’intrusione umana nei segreti della natura.

Proseguendo la sua narrazione, il poeta incontra Aronte, aruspice etrusco menzionato da Lucano nella Pharsalia, che predisse la guerra civile tra Cesare e Pompeo esaminando le viscere degli animali. Dante lo colloca presso Luni, tra le “bianche marme”, evidenziando il contrasto tra il candore del marmo e l’oscurità delle sue pratiche divinatorie.

Manto, figlia di Tiresia, occupa un posto speciale nel canto, tanto che Dante le dedica una lunga digressione. Attraverso il racconto della sua storia – la fuga da Tebe, il suo vagabondare, fino all’insediamento nelle paludi dove sorgerà Mantova – il poeta crea un collegamento diretto con Virgilio, nativo proprio di quella città.

La fondazione di Mantova diventa così occasione per mostrare come le arti magiche abbiano influenzato la storia umana.

Tra gli indovini dell’antichità classica appare anche Euripilo, che insieme a Calcante stabilì il momento propizio per la partenza della flotta greca verso Troia, esempio di come la superstizione e la divinazione influenzassero decisioni militari cruciali.

Dante non limita la sua condanna agli indovini dell’antichità, ma include figure a lui quasi contemporanee. Michele Scotto viene ricordato come “che veramente / delle magiche frode seppe il gioco”. Astrologo scozzese attivo alla corte di Federico II, rappresenta la persistenza delle pratiche divinatorie nel mondo medievale e nell’ambiente imperiale.

Guido Bonatti, astrologo forlivese al servizio di Guido da Montefeltro, è un altro esempio di come la superstizione influenzasse le decisioni politiche e militari nel medioevo italiano. La sua menzione accanto a Asdente, umile calzolaio parmense divenuto famoso per le sue predizioni, dimostra come Dante condanni la pratica divinatoria a prescindere dallo status sociale di chi la esercita.

La presenza di questi personaggi, provenienti da epoche e contesti diversi, costruisce una continuità storica del peccato di divinazione che attraversa i secoli, dalle figure mitologiche fino ai contemporanei di Dante. Il poeta vuole mostrare come, in ogni tempo, l’hybris di chi pretende di conoscere il futuro costituisca una grave offesa all’ordine divino.

Analisi del Canto 20 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi

Il ventesimo canto dell’Inferno presenta una struttura narrativa ricca di elementi simbolici e tematici che contribuiscono alla complessità dell’opera dantesca. La narrazione si sviluppa attraverso un sapiente alternarsi di descrizioni infernali, incontri con anime dannate e digressioni storiche, creando un intreccio che sostiene il messaggio teologico e morale.

La descrizione del paesaggio infernale della quarta bolgia è caratterizzata da un’atmosfera cupa e angosciante. Dante rappresenta un ambiente desolato dove le anime procedono in una processione silenziosa, «tacendo e lagrimando», simile alle litanie terrene ma in una versione distorta e degradata.

Questa rappresentazione visiva rafforza l’idea della perversione dell’ordine naturale, tema centrale del canto. Il poeta impiega un linguaggio icastico che rende quasi tangibile l’orrore della scena, con particolare attenzione alla deformazione fisica dei dannati, i cui volti sono rivolti all’indietro.

Il ritmo narrativo si distingue per la sua variabilità: incalzante nella descrizione delle pene, più disteso e quasi didascalico nelle digressioni storiche. Questa alternanza ritmica è funzionale all’incedere del viaggio dantesco, creando una tensione che mantiene viva l’attenzione del lettore mentre lo guida attraverso i diversi livelli di significato del testo.

Una delle digressioni più significative riguarda la fondazione di Mantova, narrata da Virgilio in prima persona. Questo excursus non è un semplice sfoggio di erudizione, ma svolge molteplici funzioni all’interno dell’economia del canto.

Innanzitutto, stabilisce un legame personale tra Virgilio e la narrazione, conferendogli un ruolo attivo che va oltre quello di semplice guida. In secondo luogo, la digressione offre a Dante l’opportunità di correggere la tradizione classica (inclusa quella virgiliana dell’Eneide), affermando così la superiorità della propria visione poetica e storica. Infine, il racconto della fondazione di Mantova attraverso la figura di Manto, indovina punita nella bolgia, rafforza il tema della divinazione come sovversione dell’ordine divino.

Un elemento tematico cruciale del canto è il contrasto tra la compassione umana e il rigore del giudizio divino. La reazione emotiva di Dante personaggio, che piange davanti alla condizione dei dannati, viene duramente rimproverata da Virgilio con la celebre sentenza: «Qui vive la pietà quand’è ben morta», ovvero qui la vera pietà consiste nel non avere pietà.

Questo momento narrativo rappresenta un importante snodo nell’evoluzione spirituale del protagonista, che deve imparare a conformare il proprio giudizio a quello divino, riconoscendo la giustizia delle pene inflitte.

La punizione degli indovini esprime in modo emblematico il concetto dantesco di contrappasso: chi ha preteso di vedere il futuro, violando i limiti imposti da Dio alla conoscenza umana, è ora costretto a guardare eternamente alle proprie spalle. Questa rappresentazione fisica della colpa morale illustra la visione medievale del peccato come sovversione dell’ordine naturale voluto dal Creatore.

Gli indovini hanno cercato di usurpare una prerogativa divina, trasformando la legittima ricerca della conoscenza in hybris, in superbia intellettuale.

La critica alla superfetazione della conoscenza è un altro tema fondamentale del canto. Dante condanna non la conoscenza in sé, ma il suo utilizzo improprio quando questa diventa strumento di sfida all’ordine stabilito da Dio. È significativo che tra i dannati vi siano figure dell’antichità pagana (come Anfiarao e Tiresia) insieme a contemporanei di Dante (come Michele Scotto e Guido Bonatti), a dimostrazione dell’universalità di questa colpa attraverso i secoli.

La scelta stilistica di Dante di elencare figure storiche e mitologiche di diverse epoche crea un ponte tra passato e presente, collocando il peccato della divinazione in una dimensione atemporale. Questo procedimento è tipico della Commedia, dove il poeta costruisce un sistema morale che trascende le contingenze storiche per affermare principi eterni.

L’indicazione astronomica che chiude il canto («e già iernotte fu la luna tonda») non è un mero espediente narrativo, ma inserisce il viaggio ultraterreno all’interno delle coordinate temporali terrene, sottolineando la concretezza dell’esperienza dantesca nonostante la sua dimensione allegorica e spirituale.

Gli elementi narrativi e tematici si fondono così in una costruzione poetica di straordinaria coerenza, dove ogni dettaglio contribuisce al messaggio complessivo dell’opera. Il canto 20 dell’Inferno si configura come una meditazione sul rapporto tra umano e divino, sui limiti della conoscenza e sull’accettazione dell’ordine provvidenziale, temi che attraversano l’intera Commedia e che trovano in questo episodio una delle loro espressioni più emblematiche.

Figure retoriche nel Canto 20 dell’Inferno della Divina Commedia

Il canto 20 dell’Inferno della Divina Commedia è caratterizzato da un ricco apparato retorico che Dante utilizza per amplificare il valore espressivo e simbolico della sua narrazione. La maestria poetica dell’Alighieri si manifesta attraverso un uso sapiente di figure retoriche che rendono vivida e memorabile la rappresentazione degli indovini puniti.

La prima figura retorica significativa che incontriamo è la metafora contenuta già nei versi di apertura: “Di nova pena mi conven far versi / e dar matera al ventesimo canto / de la prima canzon, ch’è d’i sommersi”. Qui “prima canzon” è metafora per l’Inferno, mentre “sommersi” rappresenta metaforicamente i dannati, immersi nella loro eterna punizione.

Particolarmente efficaci sono le similitudini, come quella che paragona la processione dei dannati alle litanie terrene: “venir, tacendo e lagrimando, al passo / che fanno le letane in questo mondo”. Questo paragone crea un contrasto inquietante tra le sacre processioni religiose e la dannazione infernale, rendendo ancora più stridente e perturbante la visione.

Nel descrivere la deformazione fisica degli indovini, Dante ricorre a un’iperbole quando afferma “Forse per forza già di parlasia / si travolse così alcun del tutto”, suggerendo che nemmeno la più grave forma di paralisi potrebbe causare una contorsione tanto estrema quanto quella inflitta agli indovini.

La sineddoche è presente quando il poeta utilizza “viso” per indicare lo sguardo o “pianto” per rappresentare il dolore complessivo. Questa figura amplifica l’effetto emotivo della narrazione, concentrando l’attenzione su elementi particolari che evocano un significato più ampio.

Uno degli strumenti retorici più raffinati impiegati da Dante in questo canto è la perifrasi, evidente quando descrive Anfiarao come “colui che volle veder troppo davante” o quando si riferisce a Manto come “la figlia di Tiresia”. Queste circonlocuzioni non solo arricchiscono il tessuto poetico, ma sottolineano anche caratteristiche essenziali dei personaggi, evidenziandone la colpa o la genealogia.

L’anafora emerge nei versi dedicati alla descrizione geografica del territorio mantovano, dove la ripetizione di “loco” e “quivi” crea un ritmo incalzante che accompagna il lettore attraverso la digressione topografica: “Tosto che l’acqua a correr mette co / non più Benaco, ma Mencio si chiama / fino a Governol, dove cade in Po. / Non molto ha corso, ch’el trova una lama”.

Nel dialogo tra Dante e Virgilio, appare evidente l’uso dell’apostrofe, quando la guida si rivolge direttamente al discepolo con tono di rimprovero: “Ancor se’ tu de li altri sciocchi?”. Questa interruzione improvvisa intensifica il messaggio teologico riguardante l’inappropriatezza della compassione verso i dannati.

L’allitterazione caratterizza numerosi versi, come “mirabilmente apparve esser travolto”, dove la ripetizione dei suoni ‘m’ e ‘r’ potenzia l’effetto di meraviglia e sgomento provato dal poeta.

Si nota anche un efficace uso dell’ossimoro nell’espressione “Qui vive la pietà quand’è ben morta”, dove l’accostamento di concetti opposti (vivere e morire) sottolinea il paradosso morale: la vera pietà, in quel luogo di giustizia divina, consiste nel non provare compassione per i dannati.

Il climax o gradazione ascendente si manifesta nell’elenco degli indovini, che culmina con la menzione di figure contemporanee a Dante, creando un effetto di progressivo avvicinamento temporale che rende più immediata la condanna morale.

Infine, ricorre in modo significativo l’antitesi tra il guardare indietro (fisicamente) degli indovini e il loro aver voluto vedere avanti (spiritualmente), condensata nell’immagine potente dei volti rivoltati: “ché da le reni al volto s’eran volti / e in dietro venir li convenia / perché ‘l veder dinanzi era lor tolto”.

Queste figure retoriche, sapientemente intrecciate nel tessuto poetico del canto, non sono meri ornamenti stilistici, ma strumenti essenziali attraverso cui Dante riesce a rendere tangibile l’orrore della pena, a comunicare la profondità teologica del contrappasso e a costruire un’architettura simbolica che parla ancora oggi al lettore con straordinaria potenza espressiva.

Temi principali del 20 canto dell’Inferno della Divina Commedia

Il canto 20 dell’Inferno della Divina Commedia si distingue per la ricchezza dei suoi temi teologici e morali, che si intrecciano in una complessa riflessione sulla natura umana e divina.

Il tema centrale è indubbiamente la presunzione della conoscenza. Gli indovini puniti nella quarta bolgia hanno tentato di appropriarsi di una prerogativa esclusivamente divina: la capacità di conoscere il futuro. Questa usurpazione rappresenta una forma di superbia intellettuale particolarmente grave nella visione medievale.

Il contrappasso inflitto – avere il volto rivolto all’indietro – simboleggia perfettamente la natura della loro colpa: chi ha preteso di vedere davanti a sé più di quanto fosse lecito, ora è condannato a guardare eternamente alle proprie spalle, in una distorsione fisica che rispecchia la distorsione spirituale del loro peccato.

Il secondo tema fondamentale è il rispetto dell’ordine divino. Nella concezione dantesca, l’universo è governato da leggi immutabili stabilite da Dio, e ogni tentativo di sovvertirle costituisce un atto di ribellione contro il Creatore.

La divinazione, in questa prospettiva, non è solo un’illusione, ma un tentativo sacrilego di forzare i limiti imposti alla conoscenza umana. Quando Virgilio rimprovera Dante per la sua compassione verso i dannati (“Ancor se’ tu de li altri sciocchi?”), sta riaffermando il principio secondo cui la giustizia divina è perfetta e inappellabile.

Un altro tema essenziale è la tensione tra compassione umana e giustizia divina. Il pianto di Dante davanti alla sofferenza degli indovini rappresenta la reazione naturale dell’uomo di fronte alla sofferenza altrui.

Tuttavia, la dura risposta di Virgilio (“Qui vive la pietà quand’è ben morta”) sottolinea come questa compassione, apparentemente virtuosa, sia in realtà inappropriata quando rivolta a chi subisce un giusto castigo. Questo conflitto interiore segna una tappa importante nel percorso di maturazione spirituale di Dante personaggio, che deve imparare a conformare il proprio giudizio a quello divino.

La limitatezza della conoscenza umana emerge come tema complementare. Il desiderio di conoscere ciò che va oltre i limiti stabiliti non solo è peccaminoso, ma illusorio. Gli indovini sono puniti non solo per la loro presunzione, ma anche per l’inganno perpetrato ai danni di chi ha creduto alle loro false previsioni.

La lunga digressione su Mantova serve a ristabilire la verità storica, contrapponendo alla falsa conoscenza degli indovini la sapienza autentica, rappresentata da Virgilio che corregge persino le proprie opere.

Infine, il tema dell’umiltà intellettuale attraversa l’intero canto come un filo conduttore. Dante suggerisce che la vera saggezza consiste nel riconoscere i propri limiti e nell’accettare che solo a Dio appartiene la conoscenza assoluta. Questa lezione di umiltà costituisce uno dei messaggi più profondi non solo di questo canto, ma dell’intera Commedia, che invita il lettore a un atteggiamento di apertura verso la verità che trascende la ragione umana.

Il Canto 20 dell’Inferno in pillole

ElementoDescrizioneRiferimenti
CollocazioneQuarta bolgia dell’ottavo cerchio (Malebolge)versi 1-3
Peccatori punitiIndovini, maghi e astrologiversi 7-15
ContrappassoVolti girati all’indietro, costretti a camminare a ritrosoversi 10-15
Personaggi principaliAnfiarao (indovino greco), Tiresia (indovino tebano), Aronte (aruspice etrusco), Manto (profetessa), Michele Scotto (astrologo), Guido Bonatti (astrologo), Asdente (calzolaio-indovino)versi 31-120
Digressione geograficaLunga descrizione della fondazione di Mantova, patria di Virgilioversi 52-99
Rimprovero di VirgilioCondanna della pietà verso i dannati: “Qui vive la pietà quand’è ben morta”versi 25-30
Figure retoriche notevoliSimilitudine (processione simile alle litanie), metafora (nova pena), perifrasi (Caino e le spine per indicare la luna)vv. 8-9, 1, 124-126
Temi principaliPresunzione umana, limiti della conoscenza, giustizia divina, rispetto dell’ordine naturaletutto il canto
Indicazione temporaleRiferimento astronomico alla luna piena per indicare il tempo del viaggioversi 124-130
Insegnamento moraleChi pretende di vedere il futuro sovverte l’ordine voluto da Dioversi 37-39

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