Il Canto XX del Paradiso della Divina Commedia rappresenta una tappa fondamentale nel viaggio ultraterreno di Dante Alighieri attraverso il cielo di Giove, dove continua la visione degli spiriti giusti disposti a formare l’aquila, simbolo dell’Impero e della giustizia terrena. In questo canto il poeta affronta il tema dell’imperscrutabilità della giustizia divina e della predestinazione, esplorando il mistero della salvezza attraverso figure inaspettate che sfidano la comprensione umana dei disegni di Dio.
| Testo Originale | Parafrasi |
|---|---|
| Quando colui che tutto ‘l mondo alluma de l’emisperio nostro sì discende, che ‘l giorno d’ogne parte si consuma, | Quando il sole, che illumina tutto il mondo, scende sotto il nostro orizzonte così che il giorno si consuma in ogni luogo, |
| lo ciel, che sol di lui prima s’accende, subitamente si rifà parvente per molte luci, in che una risplende; | il cielo, che prima si illuminava solo di lui, improvvisamente si rende visibile grazie a molte luci, nelle quali risplende un’unica luce (divina); |
| e questo atto del ciel mi venne a mente, come ‘l segno del mondo e de’ suoi duci nel benedetto rostro fu tacente; | e questo fenomeno del cielo mi venne in mente quando l’insegna del mondo e dei suoi capi (l’aquila) si tacque nel benedetto becco; |
| però che tutte quelle vive luci, vie più lucendo, cominciaron canti da mia memoria labili e caduci. | poiché tutte quelle anime luminose, brillando ancora più intensamente, cominciarono canti che sono sfuggiti e svaniti dalla mia memoria. |
| O dolce amor che di riso t’ammanti, quanto parevi ardente in que’ flailli, ch’avieno spirto sol di pensier santi! | O dolce amore (divino) che ti rivesti di letizia, quanto sembravi ardente in quei suoni melodiosi che contenevano spirito solo di santi pensieri! |
| Poscia che i cari e lucidi lapilli ond’io vidi ingemmato il sesto lume puoser silenzio a li angelici squilli, | Dopo che le care e luminose gemme, con cui vidi adornato il sesto cielo, posero fine ai suoni angelici, |
| udir mi parve un mormorar di fiume che scende chiaro giù di pietra in pietra, mostrando l’ubertà del suo cacume. | mi parve di udire un mormorio simile a quello di un fiume che scende limpido di pietra in pietra, mostrando l’abbondanza della sua sorgente. |
| E come suono al collo de la cetra prende sua forma, e sì com’al pertugio de la sampogna vento che penètra, | E come il suono prende forma nel collo della cetra, e come l’aria che penetra nei fori della zampogna, |
| così, rimosso d’aspettare indugio, quel mormorar de l’aguglia salissi su per lo collo, come fosse bugio. | così, senza alcun indugio, quel mormorio dell’aquila salì attraverso il collo, come se fosse cavo. |
| Fecesi voce quivi, e quindi uscissi per lo suo becco in forma di parole, quali aspettava il core ov’io le scrissi. | Lì si trasformò in voce, e poi uscì dal suo becco in forma di parole, quali attendeva il mio cuore nel quale le ho scritte. |
| «La parte in me che vede e pate il sole ne l’aguglie mortali», incominciommi, «or fisamente riguardar si vole, | «La parte di me che vede e sopporta il sole nelle aquile mortali», cominciò a dirmi, «ora vuole essere guardata attentamente, |
| perché d’i fuochi ond’io figura fommi, quelli onde l’occhio in testa mi scintilla, e’ di tutti lor gradi son li sommi. | perché dei fuochi (delle anime) di cui io sono composta, quelli da cui l’occhio mi brilla in testa sono i più elevati di tutti. |
| Colui che luce in mezzo per pupilla, fu il cantor de lo Spirito Santo, che l’arca traslatò di villa in villa: | Colui che risplende al centro come pupilla fu il cantore dello Spirito Santo (Davide), che trasportò l’arca dell’alleanza di città in città: |
| ora conosce il merto del suo canto, in quanto effetto fu del suo consiglio, per lo remunerar ch’è altrettanto. | ora conosce il merito del suo canto, in quanto effetto della sua ispirazione divina, attraverso la ricompensa che è proporzionata al suo valore. |
| Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, colui che più al becco mi s’accosta, la vedovella consolò del figlio: | Dei cinque spiriti che formano cerchio intorno al mio occhio come un sopracciglio, colui che si avvicina di più al becco consolò la vedova per la morte del figlio: |
| ora conosce quanto caro costa non seguir Cristo, per l’esperienza di questa dolce vita e de l’opposta. | ora conosce quanto caro costa non seguire Cristo, per l’esperienza diretta di questa dolce vita (paradiso) e della contraria (inferno). |
| E quel che segue in la circunferenza di che ragiono, per l’arco superno, morte indugiò per vera penitenza: | E quello spirito che segue nella parte superiore della circonferenza di cui parlo ritardò la morte grazie a una sincera penitenza: |
| ora conosce che il giudicio etterno non si trasmuta, quando degno preco fa crastino là giù de l’odierno. | ora sa che il giudizio eterno (di Dio) non cambia, quando una degna preghiera fa rimandare a domani sulla terra ciò che dovrebbe avvenire oggi. |
| L’altro che segue, con le leggi e meco, sotto buona intenzion che fé mal frutto, per cedere al pastor si fece greco: | L’altro che segue, con le leggi e con me (l’aquila), con buone intenzioni che però produssero cattivi frutti, si fece greco (bizantino) per cedere il posto al pastore (al Papa): |
| ora conosce come il mal dedutto dal suo bene operar non li è nocivo, avvegna che sia ‘l mondo indi distrutto. | ora conosce come il male derivato dal suo ben operare non gli nuoce, benché il mondo ne sia stato rovinato. |
| E quel che vedi ne l’arco declivo, Guiglielmo fu, cui quella terra plora che piagne Carlo e Federigo vivo: | E quello che vedi nella parte inferiore dell’arco fu Guglielmo, rimpianto da quella terra (la Sicilia) che piange per avere ancora vivi Carlo II d’Angiò e Federico d’Aragona: |
| ora conosce come s’innamora lo ciel del giusto rege, e al sembiante del suo fulgore il fa vedere ancora. | ora conosce come il cielo ami il re giusto, e lo dimostra ancora mediante lo splendore del suo aspetto. |
| Chi crederebbe giù nel mondo errante che Rifeo Troiano in questo tondo fosse la quinta de le luci sante? | Chi crederebbe giù nel mondo incerto che Rifeo Troiano in questo cerchio fosse la quinta delle luci beate? |
| Ora conosce assai di quel che ‘l mondo veder non può de la divina grazia, ben che sua vista non discerna il fondo». | Ora conosce molto della grazia divina che il mondo non può vedere, benché la sua vista non ne misuri la profondità». |
| Quale allodetta che ‘n aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta de l’ultima dolcezza che la sazia, | Come l’allodola che si libra nell’aria prima cantando, e poi tace soddisfatta dell’ultima dolcezza che la appaga, |
| tal mi sembiò l’imago de la ‘mprenta de l’etterno piacere, al cui disio ciascuna cosa qual ell’è diventa. | tale mi sembrò l’immagine dell’impronta dell’eterno piacere (divino), al cui volere ogni cosa diventa ciò che è. |
| E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio lì quasi vetro a lo color ch’el veste, tempo aspettar tacendo non patio, | E benché io fossi trasparente nel mio dubitare come il vetro rispetto al colore che lo riveste, l’aquila non sopportò di aspettare in silenzio, |
| ma de la bocca, «Che cose son queste?», mi pinse con la forza del suo peso: per ch’io di coruscar vidi gran feste. | ma dalla bocca mi spinse con la forza del suo peso: «Che cose sono queste?»; perciò vidi un grande sfolgorio di gioia. |
| Poi appresso, con l’occhio più acceso, lo benedetto segno mi rispuose per non tenermi in ammirar sospeso: | Poi subito, con l’occhio più ardente, il benedetto segno (l’aquila) mi rispose per non tenermi sospeso nello stupore: |
| «Io veggio che tu credi queste cose perch’io le dico, ma non vedi come; sì che, se son credute, sono ascose. | «Io vedo che tu credi queste cose perché le dico io, ma non ne comprendi il modo; così, pur essendo credute, rimangono oscure. |
| Fai come quei che la cosa per nome apprende ben, ma la sua quiditate veder non può se altri non la prome. | Fai come colui che apprende bene la cosa dal nome, ma non ne può vedere l’essenza se qualcun altro non gliela rivela. |
| Regnum celorum violenza pate da caldo amore e da viva speranza, che vince la divina volontate: | Il regno dei cieli subisce violenza da parte del fervido amore e della viva speranza, che vincono la volontà divina: |
| non a guisa che l’omo a l’om sobranza, ma vince lei perché vuole esser vinta, e, vinta, vince con sua beninanza. | non nel modo in cui un uomo sovrasta un altro uomo, ma la vince perché vuole essere vinta e, vinta, vince con la sua benevolenza. |
| La prima vita del ciglio e la quinta ti fa maravigliar, perché ne vedi la region de li angeli dipinta. | La prima e la quinta anima del ciglio (Traiano e Rifeo) ti fanno meravigliare, perché vedi ornata di essi la regione degli angeli. |
| D’i corpi suoi non uscir, come credi, Gentili, ma Cristiani, in ferma fede quel d’i passuri e quel d’i passi piedi. | Dai loro corpi non uscirono, come credi, da pagani, ma da cristiani, con ferma fede l’uno nei piedi che avrebbero dovuto soffrire (Cristo) e l’altro nei piedi che avevano già sofferto (Cristo crocifisso). |
| Ché l’una de lo ‘nferno, u’ non si riede già mai a buon voler, tornò a l’ossa; e ciò di viva spene fu mercede: | Perché la prima (Traiano) dall’inferno, da dove non si torna mai a buon volere, tornò al suo corpo; e questo fu premio di viva speranza: |
| di viva spene, che mise la possa ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla, sì che potesse sua voglia esser mossa. | di viva speranza, che diede forza alle preghiere rivolte a Dio per risuscitarla, così che la sua volontà potesse essere influenzata. |
| L’anima gloriosa onde si parla, tornata ne la carne, in che fu poco, credette in lui che potea aiutarla; | L’anima gloriosa di cui si parla, tornata nel corpo in cui rimase poco tempo, credette in colui che poteva aiutarla; |
| e credendo s’accese in tanto foco di vero amor, ch’a la morte seconda fu degna di venire a questo gioco. | e credendo si accese di un così intenso fuoco di vero amore che alla seconda morte (definitiva) fu degna di venire a questa gioia paradisiaca. |
| L’altra, per grazia che da sì profonda fontana stilla, che mai creatura non pinse l’occhio infino a la prima onda, | L’altra (Rifeo), per grazia che sgorga da una fonte così profonda che mai creatura spinse lo sguardo fino alla prima onda, |
| tutto suo amor là giù pose a drittura: per che, di grazia in grazia, Dio li aperse l’occhio a la nostra redenzion futura; | sulla terra pose tutto il suo amore alla giustizia: perciò, di grazia in grazia, Dio gli aprì gli occhi alla nostra futura redenzione; |
| ond’ei credette in quella, e non sofferse da indi il puzzo più del paganesmo; e riprendiene le genti perverse. | onde egli credette in essa, e non sopportò più da quel momento il puzzo del paganesimo; e ne riprendeva le genti perverse. |
| Quelle tre donne li fur per battesmo che tu vedesti da la destra rota, dinanzi al battezzar più d’un millesmo. | Quelle tre donne (Fede, Speranza e Carità) che tu vedesti presso la ruota destra gli furono da battesimo, più di mille anni prima dell’istituzione del battesimo. |
| O predestinazion, quanto remota è la radice tua da quelli aspetti che la prima cagion non veggion tota! | O predestinazione, quanto è remota la tua radice da quegli intelletti che non vedono interamente la causa prima (Dio)! |
| E voi, mortali, tenetevi stretti a giudicar; ché noi, che Dio vedemo, non conosciamo ancor tutti li eletti; | E voi, mortali, astenetevi dal giudicare; infatti noi, che vediamo Dio, non conosciamo ancora tutti gli eletti; |
| ed ènne dolce così fatto scemo, perché il ben nostro in questo ben s’affina, che quel che vole Iddio, e noi volemo». | e ci è dolce questa limitazione della conoscenza, perché il nostro bene si perfeziona in questo bene, cioè che quello che Dio vuole, anche noi lo vogliamo». |
| Così da quella imagine divina, per farmi chiara la mia corta vista, data mi fu soave medicina. | Così da quell’immagine divina, per rendermi chiara la mia limitata comprensione, mi fu data una soave medicina. |
| E come a buon cantor buon citarista fa seguitar lo guizzo de la corda, in che più di piacer lo canto acquista, | E come a un buon cantore un buon suonatore di cetra fa seguire il vibrar della corda, per cui il canto acquista maggior dolcezza, |
| sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda ch’io vidi le due luci benedette, pur come batter d’occhi si concorda, | così, mentre l’aquila parlava, ricordo di aver visto le due luci benedette (Traiano e Rifeo), proprio come si accordano nel battere degli occhi, |
| con le parole mover le fiammette. | muovere le fiammelle insieme con le parole. |
Canto 20 Paradiso della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il Canto XX del Paradiso si colloca nel Cielo di Giove, dove risiedono le anime dei giusti. Dante continua il dialogo con l’aquila, simbolo imperiale per eccellenza, formata dalle anime dei beati che in vita esercitarono con rettitudine la giustizia. Questa straordinaria immagine allegorica rappresenta l’unione perfetta tra giustizia terrena e giustizia divina, parlando al poeta con una voce unitaria pur essendo composta da molteplici anime.
L’apertura del canto è dominata dal silenzio che segue il canto dell’aquila. Quando questa riprende a parlare, concentra l’attenzione di Dante sulle anime più luminose che compongono il suo occhio. La disposizione di queste anime non è casuale ma rispecchia una precisa gerarchia spirituale: nella pupilla si trova Re Davide, il salmista biblico e modello del sovrano giusto; nell’arcata sopraccigliare si collocano invece cinque spiriti eccellenti: Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II il Buono e Rifeo Troiano.
L’aquila procede descrivendo le storie individuali di queste anime, sottolineando come ciascuna di esse rappresenti un aspetto particolare della giustizia divina. Di Re Davide viene ricordata l’umiltà e la composizione dei Salmi; di Traiano, l’episodio della vedova consolata, che divenne esempio di giustizia imperiale tanto da meritargli la salvezza nonostante fosse pagano; di Ezechia, la preghiera che gli permise di posticipare la morte di quindici anni; di Costantino, il trasferimento della capitale dell’impero da Roma a Costantinopoli con buone intenzioni ma conseguenze funeste; di Guglielmo II, la giustizia che lo fa rimpiangere dai siciliani ora governati da sovrani indegni.
Particolarmente significativa è la presentazione di Rifeo Troiano, personaggio minore dell’Eneide virgiliana, definito da Virgilio “giustissimo tra i Troiani”. La sua presenza in Paradiso è la più sorprendente poiché si tratta di un pagano vissuto molti secoli prima di Cristo. L’aquila spiega che Dio concesse a Rifeo una grazia speciale, permettendogli di credere nella redenzione futura e nelle tre virtù teologali (fede, speranza e carità) prima ancora che queste fossero rivelate.
Nella seconda parte del canto, l’aquila affronta il tema teologico della predestinazione e dei misteri insondabili del giudizio divino. Attraverso i casi di Traiano e Rifeo, Dante illustra come la salvezza possa raggiungere anche chi sembrerebbe escluso secondo i criteri umani. Traiano fu riportato temporaneamente in vita grazie alle preghiere di San Gregorio Magno, permettendogli di convertirsi al cristianesimo prima della sua morte definitiva. Rifeo, invece, ricevette una grazia speciale che gli permise di credere nella venuta di Cristo anticipatamente.
L’aquila ammonisce Dante (e con lui il lettore) sulla presunzione di giudicare i destini altrui, sottolineando come i disegni divini siano imperscrutabili anche per i beati stessi: “E voi, mortali, tenetevi stretti a giudicar: ché noi, che Dio vedemo, non conosciamo ancor tutti li eletti”. Questo verso racchiude uno dei messaggi centrali del canto: l’invito all’umiltà intellettuale di fronte ai misteri della predestinazione e della grazia.
L’intero canto è strutturato come una progressiva rivelazione del concetto di giustizia divina, che trascende e perfeziona quella umana. La disposizione delle anime nell’occhio dell’aquila simboleggia una visione illuminata dalla sapienza di Dio, capace di vedere oltre le apparenze e di riconoscere la vera virtù anche dove l’uomo non la scorgerebbe. Il poeta sottolinea così la distanza tra i limitati giudizi umani e l’infinita sapienza divina, rappresentata dalla metafora dell’occhio dell’aquila che tutto vede e tutto comprende.
Si comprende quindi come il Canto XX rappresenti un momento fondamentale nel percorso spirituale di Dante attraverso il Paradiso: attraverso gli esempi delle anime giuste, il poeta viene iniziato ai misteri più profondi della provvidenza divina, preparandosi gradualmente alla visione finale di Dio che costituirà il culmine del suo viaggio ultraterreno.
Canto 20 Paradiso della Divina Commedia: i personaggi
Nel Cielo di Giove, l’aquila parlante presenta a Dante sei anime eccellenti che compongono il suo occhio, ciascuna con una storia che illustra aspetti diversi della giustizia divina e della salvezza.
Al centro dell’occhio, nella pupilla, si trova Re Davide, il salmista biblico per eccellenza. La sua posizione privilegiata sottolinea il suo ruolo come modello supremo di giustizia regale e di umiltà penitenziale. Autore del salmo Miserere, Davide rappresenta il sovrano che, pur avendo peccato gravemente (adulterio con Betsabea e omicidio di Uria), seppe pentirsi sinceramente, ottenendo il perdono divino. La sua centralità simboleggia anche il legame tra regalità terrena e quella spirituale, essendo Davide antenato di Cristo.
Traiano è forse il personaggio più sorprendente tra i sei spiriti. Imperatore romano pagano, è salvato grazie all’intercessione di papa Gregorio Magno, colpito dalla giustizia che Traiano dimostrò verso una vedova che chiedeva giustizia per il figlio ucciso. La leggenda narra che Gregorio pregò tanto per Traiano che Dio permise all’anima dell’imperatore di tornare brevemente nel corpo per ricevere il battesimo, prima di ascendere al Paradiso. La sua presenza tra i beati esemplifica come la misericordia divina possa operare anche al di là dei confini temporali della rivelazione cristiana.
Ezechia è il re biblico di Giuda che, gravemente malato, supplicò Dio di prolungare la sua vita. Il Signore, mosso dalla sincerità della sua preghiera, gli concesse altri quindici anni di vita, ritardando il momento della morte già annunciata. Questo episodio illustra come la preghiera sincera possa modificare persino i decreti divini, introducendo il tema della possibile flessibilità nel piano divino di salvezza.
Costantino rappresenta una figura complessa nella visione dantesca. Da un lato, è il primo imperatore cristiano che pose fine alle persecuzioni; dall’altro, è l’autore della presunta Donazione, che secondo Dante fu all’origine della corruzione della Chiesa. Nel Canto 20, l’aquila chiarisce che Costantino è salvato per le buone intenzioni che motivarono la Donazione, pur avendo questa prodotto conseguenze negative. La sua presenza evidenzia come nel giudizio divino conti più l’intenzione che l’esito delle azioni umane.
Guglielmo II il Buono, re normanno di Sicilia (1166-1189), è presentato come modello di sovrano giusto, in contrasto con i suoi successori (Federico II e Carlo d’Angiò), rimpianto dai suoi sudditi per la saggia amministrazione. La sua inclusione nell’occhio dell’aquila sottolinea l’importanza che Dante attribuisce alla giustizia nell’esercizio del potere temporale.
Infine, Rifeo Troiano, personaggio minore dell’Eneide virgiliana, rappresenta il caso più enigmatico. Virgilio lo descrive semplicemente come “il più giusto tra i Troiani”, caduto durante l’ultima notte di Troia. Dante, con audacia teologica, lo colloca in Paradiso, spiegando che Rifeo ricevette da Dio una grazia speciale che gli permise di credere nelle tre virtù teologali (fede, speranza e carità) secoli prima dell’avvento di Cristo. La sua salvezza, ancora più sorprendente di quella di Traiano, dimostra l’assoluta libertà e imperscrutabilità della grazia divina.
Questa galleria di personaggi, diversi per epoca e condizione, compone un mosaico che illustra la complessità della giustizia divina. La loro disposizione nell’occhio dell’aquila non è casuale: da Davide, rappresentante della tradizione biblica, a Rifeo, pagano vissuto prima di Cristo, essi formano una progressione che espande progressivamente i confini della salvezza, dimostrando come il piano divino trascenda qualsiasi limitazione umana e temporale.
Analisi del Canto 20 del Paradiso: elementi tematici e narrativi
Il Canto 20 del Paradiso rappresenta un momento cruciale nel percorso spirituale di Dante attraverso i cieli. Dopo aver osservato la formazione dell’aquila composta dalle anime dei giusti nel cielo di Giove, il poeta approfondisce la riflessione sulla giustizia divina e la predestinazione attraverso una complessa struttura narrativa e simbolica.
Il tema dominante del canto è l’imperscrutabilità dei giudizi divini. L’aquila si rivolge direttamente a Dante ammonendolo sui limiti della comprensione umana: “E voi, mortali, tenetevi stretti a giudicar: ché noi, che Dio vedemo, non conosciamo ancor tutti li eletti”. Questo passaggio sottolinea un punto teologico fondamentale: persino i beati, che contemplano Dio direttamente, non possono comprendere pienamente tutti i misteri della predestinazione. Quanto più dovrebbero essere cauti gli esseri umani nell’emettere giudizi sulla salvezza altrui.
La narrazione procede con la rivelazione delle anime che compongono l’occhio dell’aquila, in particolare quella di Re Davide nella pupilla, circondato da figure come Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II e Rifeo il Troiano. La disposizione non è casuale ma riflette una gerarchia spirituale all’interno dell’ordine divino, con il re biblico Davide posto come modello supremo di giustizia regale.
Particolarmente significativi sono i casi di Traiano e Rifeo, due pagani la cui presenza in Paradiso sfida le aspettative umane sulla salvezza. L’aquila spiega che Traiano, imperatore romano, fu riportato temporaneamente in vita grazie alle preghiere di San Gregorio Magno, permettendogli di convertirsi al cristianesimo prima della morte definitiva. Questo episodio introduce il concetto teologico della resurrezione temporanea per grazia speciale, un tema raro ma presente nella tradizione medievale.
Ancora più sorprendente è il caso di Rifeo, personaggio minore dell’Eneide virgiliana, descritto da Virgilio come “il più giusto tra i Troiani”. La sua salvezza rappresenta il massimo esempio dell’imperscrutabilità divina. L’aquila spiega che Rifeo ricevette da Dio una grazia speciale che gli permise di credere nelle tre virtù teologali (fede, speranza e carità) molti secoli prima della venuta di Cristo:
“Di profonda notte a li occhi de’ mortali, con quei raggi faceva amor che fosse del ciel degno”.
Questa metafora della notte profonda (il paganesimo) illuminata dai raggi della grazia divina illustra come Dio possa agire in modi misteriosi, trascendendo i limiti temporali e culturali per condurre alla salvezza anche chi sembra più lontano dalla fede cristiana.
Dante introduce così il concetto del “battesimo di desiderio” o implicito, che permette la salvezza di anime virtuose vissute prima di Cristo o fuori della Chiesa visibile. Questa visione inclusiva della salvezza, pur rimanendo nel solco dell’ortodossia cattolica medievale, rivela l’ampiezza della concezione dantesca della misericordia divina.
Il canto affronta anche la complessa relazione tra libero arbitrio e predestinazione, uno dei nodi teologici più dibattuti nel Medioevo. L’aquila proclama che “regnum celorum violenza pate da caldo amore e da viva speranza”, suggerendo che il Regno dei Cieli può essere conquistato attraverso l’intensità dell’amore e della speranza che “vincono” la volontà divina. Non si tratta di una contraddizione, ma di una conciliazione: la grazia divina opera attraverso il libero consenso dell’anima umana.
Sul piano narrativo, il canto è costruito con una sapiente alternanza di momenti didattici e visivi. La prima parte è dominata dalla visione dell’aquila parlante, mentre la seconda si concentra sulla spiegazione teologica dei casi eccezionali di salvezza. Questa struttura riflette il metodo didattico di Dante: prima mostrare, poi spiegare, coinvolgendo il lettore in un processo di apprendimento che unisce esperienza estetica e comprensione intellettuale.
Nella transizione dal Canto XIX al XX, si nota un’evoluzione importante: mentre nel canto precedente l’aquila affrontava il problema della salvezza dei pagani virtuosi in termini generali, qui Dante concretizza la questione attraverso esempi specifici. Questo movimento dal generale al particolare, dall’astratto al concreto, è tipico del metodo dantesco e consente al lettore di comprendere concetti teologici complessi attraverso storie individuali.
Significativo è anche il contrasto tra le figure di Costantino e Guglielmo II: il primo rappresenta un’azione buona nelle intenzioni (la donazione) ma dannosa negli effetti (secondo Dante); il secondo incarna invece il modello del sovrano giusto, in opposizione alla corruzione dei suoi successori. Questo confronto sottolinea come il giudizio divino consideri l’intenzione più che il risultato esteriore degli atti umani.
Il canto culmina con l’invocazione alla predestinazione: “O predestinazion, quanto remota è la radice tua da quelli aspetti che la prima cagion non veggion tota!”. Questo verso sintetizza magnificamente il messaggio centrale: la predestinazione ha radici troppo profonde per essere compresa da chi non vede completamente la causa prima, cioè Dio. L’umiltà intellettuale diventa così la virtù necessaria per accostarsi ai misteri divini.
Figure retoriche nel Canto 20 del Paradiso della Divina Commedia
Il Canto 20 del Paradiso mostra la straordinaria abilità retorica di Dante nell’intrecciare forma e contenuto, creando un tessuto poetico che riflette la complessità teologica del testo. La ricchezza stilistica del canto contribuisce alla costruzione di significati profondi che arricchiscono l’esperienza del lettore.
La figura retorica dominante del canto è la metafora dell’aquila parlante, simbolo imperiale per eccellenza che qui rappresenta l’unità perfetta della giustizia divina. L’aquila, pur composta da molteplici anime beate, parla con una voce unica – metafora potente dell’armonia tra il molteplice e l’uno, tra le diverse manifestazioni della giustizia e il suo principio unificante. Questa immagine allegorica costituisce l’architettura simbolica dell’intero canto.
Particolarmente efficaci sono le similitudini che Dante utilizza per rendere comprensibili realtà ultraterrene attraverso esperienze terrene. Nei versi iniziali, il poeta paragona il silenzio delle anime dell’aquila all’allodola che, dopo aver cantato in volo, tace appagata dall’ultima dolcezza:
Quale allodetta che ‘n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l’ultima dolcezza che la sazia
Questa similitudine non solo descrive un evento celeste, ma evoca anche la sensazione di pienezza spirituale che caratterizza le anime beate.
I paradossi abbondano nel canto, riflettendo l’ineffabilità dell’esperienza paradisiaca e il mistero della predestinazione. Il paradosso più evidente è la presenza in Paradiso di due pagani come Traiano e Rifeo, apparentemente in contraddizione con la dottrina della salvezza. Questi paradossi teologici servono a Dante per illustrare come la giustizia divina trascenda le categorie umane di comprensione.
Le apostrofi conferiscono pathos ed enfasi ai momenti di maggiore intensità emotiva. L’invocazione alla predestinazione è particolarmente significativa:
O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota!
Questa apostrofe sottolinea la distanza incolmabile tra la limitata comprensione umana e i misteri del disegno divino, creando un momento di sospensione lirica nella narrazione.
Le sinestesie, fusioni di percezioni sensoriali diverse, caratterizzano lo stile paradisiaco di Dante. Nel Canto 20, la luce che diventa voce e il canto che si traduce in immagini visive testimoniano l’integrazione dei sensi nell’esperienza mistica. Queste sinestesie riflettono la natura trascendente dell’esperienza paradisiaca, dove i confini sensoriali terreni vengono superati.
L’anafora viene impiegata per creare effetti ritmici e enfatizzare concetti importanti. La ripetizione di strutture sintattiche simili nel descrivere le sei anime dell’occhio dell’aquila conferisce solennità alla presentazione e aiuta il lettore a memorizzare la sequenza dei personaggi.
Notevole è anche l’uso dell’iperbole, soprattutto nella descrizione della luce emanata dalle anime beate, rappresentata come incomparabilmente più intensa di qualsiasi fenomeno terreno. Questa figura amplifica la natura sovrumana dell’esperienza paradisiaca.
Il canto presenta inoltre diversi esempi di chiasmo, figura di costruzione che crea un’armoniosa simmetria nella disposizione degli elementi sintattici. Questa figura riflette l’ordine perfetto del Paradiso e il principio di armonia che governa il cosmo dantesco.
Lo stile elevato del canto è arricchito da frequenti latinismi e perifrasi, che contribuiscono alla solennità del discorso teologico e sottolineano la natura sacra dei temi trattati. La complessità sintattica dei periodi, con ampie subordinazioni, riproduce la profondità del pensiero teologico.
Le figure retoriche del Canto 20 non sono quindi meri ornamenti stilistici, ma strumenti essenziali attraverso cui Dante rende percepibile l’impercettibile, dice l’indicibile e avvicina il lettore al mistero divino, integrando perfettamente forma e contenuto nella costruzione del suo universo poetico e teologico.
Temi principali del 20 canto del Paradiso
Il ventesimo canto del Paradiso esplora diversi temi teologici e morali di straordinaria profondità, costituendo un momento chiave nella riflessione dantesca sui misteri divini.
Il tema dominante è l’imperscrutabilità della giustizia divina. L’aquila ammonisce Dante con parole severe: “E voi, mortali, tenetevi stretti a giudicar: ché noi, che Dio vedemo, non conosciamo ancor tutti li eletti”. Questo avvertimento evidenzia un principio fondamentale: se nemmeno i beati, che contemplano direttamente Dio, possono comprendere pienamente il piano divino, quanto più dovrebbero essere cauti gli esseri umani nei loro giudizi! La limitatezza dell’intelletto umano di fronte ai misteri divini è rappresentata efficacemente dall’esclamazione: “O predestinazion, quanto remota è la radice tua da quelli aspetti che la prima cagion non veggion tota!”
Strettamente collegato è il tema della predestinazione, che Dante affronta con straordinaria audacia teologica. I casi di Traiano e Rifeo illustrano come la salvezza possa raggiungere anche chi, secondo i criteri umani, sembrerebbe escluso dal piano divino. Rifeo, pagano troiano, viene salvato grazie a una grazia speciale che gli permette di credere nelle virtù teologali prima ancora della venuta di Cristo, mentre Traiano beneficia di un ritorno temporaneo alla vita grazie alle preghiere di San Gregorio. Questi esempi dimostrano come la predestinazione superi ogni logica terrena, rivelando la complessità del disegno salvifico di Dio.
Il rapporto tra fede e battesimo costituisce un altro tema centrale. Dante propone una concezione inclusiva della salvezza attraverso il concetto di “battesimo di desiderio”, che permette di accogliere in Paradiso anime virtuose vissute prima di Cristo o al di fuori della Chiesa visibile. Questa visione, pur rimanendo all’interno dell’ortodossia medievale, rivela una notevole apertura teologica: la fede autentica e il desiderio di giustizia possono costituire una forma di battesimo implicito. Come l’aquila spiega riguardo a Rifeo: “Di profonda notte a li occhi de’ mortali, con quei raggi faceva amor che fosse del ciel degno”.
La fusione tra giustizia terrena e divina è rappresentata simbolicamente dalla stessa figura dell’aquila. Il fatto che anime di diversa provenienza e condizione si uniscano a formare un’unica voce e un’unica immagine simboleggia l’armonia perfetta tra l’ordine terreno e quello celeste. L’aquila, simbolo imperiale per eccellenza, diventa emblema di come la giustizia terrena, quando ispirata da principi divini, possa riflettere l’ordine cosmico voluto da Dio.
Infine, il canto esplora il tema dell’umiltà intellettuale. Di fronte ai misteri della predestinazione e della grazia, Dante suggerisce un atteggiamento di rispettosa accettazione dei limiti della comprensione umana. Quest’umiltà non è rassegnazione passiva, ma riconoscimento attivo della trascendenza divina, unica via per avvicinarsi alla contemplazione dei misteri celesti.
Il Canto 20 del Paradiso in pillole
| Aspetto Analizzato | Dettagli Essenziali |
|---|---|
| Collocazione | Cielo di Giove, sede degli spiriti giusti |
| Figura centrale | L’aquila parlante, simbolo dell’unità della giustizia divina |
| Personaggi principali | Re Davide (pupilla dell’occhio), Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II, Rifeo Troiano |
| Tema teologico centrale | L’imperscrutabilità della predestinazione divina |
| Argomento controverso | La salvezza di pagani come Traiano e Rifeo Troiano |
| Concetto teologico | “Battesimo di desiderio” che permette la salvezza a chi non ha ricevuto il sacramento |
| Messaggio morale | Invito all’umiltà intellettuale di fronte ai misteri divini |
| Elemento narrativo | L’aquila rivela i misteri della giustizia divina parlando come un’unica voce |
| Aspetto stilistico | Elevazione del linguaggio con termini teologici e metafore luminose |
| Significato simbolico | L’occhio dell’aquila rappresenta la perfetta visione divina della giustizia |