Divina Commedia, Canto 22 Inferno: testo, parafrasi e commento

Divina Commedia, Canto 22 Inferno: testo, parafrasi e figure retoriche

Il Canto 22 dell’Inferno della Divina Commedia prosegue la rappresentazione dei barattieri, ovvero coloro che hanno fatto commercio delle cariche pubbliche, già iniziata nel canto precedente. La peculiarità di questo canto risiede nel suo tono quasi comico-satirico, insolito all’interno del severo impianto teologico e morale dell’opera dantesca. Questo canto rappresenta quindi un esempio perfetto di come il Sommo Poeta sappia calibrare registri linguistici differenti per veicolare messaggi morali complessi.

Indice:

Canto 22 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi

Testo originaleParafrasi
Io vidi già cavalier muover campo,Ho già visto i cavalieri muoversi sul campo di battaglia,
e cominciare stormo e far lor mostra,e iniziare l’assalto e fare la rassegna delle truppe,
e talvolta partir per loro scampo;e talvolta ritirarsi per mettersi in salvo;
corridor vidi per la terra vostra,ho visto corridori nella vostra terra (Arezzo),
o Aretini, e vidi gir gualdane,o Aretini, e ho visto scorrerie,
fedir torneamenti e correr giostra;colpi di tornei e giostre;
quando con trombe, e quando con campane,alcune volte con trombe, altre con campane,
con tamburi e con cenni di castella,con tamburi e con segnali dalle fortezze,
e con cose nostrali e con istrane;e con strumenti nostrani e stranieri;
né già con sì diversa cennamellama mai con una tromba così strana
cavalier vidi muover né pedoni,vidi muovere cavalieri né fanti,
né nave a segno di terra o di stella.né nave in risposta a segnali da terra o dalle stelle.
Noi andavam con li diece demoni.Noi procedevamo insieme ai dieci demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesaAh, che feroce compagnia! Ma in chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.si sta con i santi, e in taverna con i ghiottoni.
Pure a la pegola era la mia ‘ntesa,La mia attenzione era comunque rivolta alla pece,
per veder de la bolgia ogne contegnoper osservare ogni caratteristica della bolgia
e de la gente ch’entro v’era incesa.e delle persone che dentro vi erano bruciate.
Come i dalfini, quando fanno segnoCome i delfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schienaai marinai con l’arco della schiena
che s’argomentin di campar lor legno,che si preparino a salvare la loro nave,
talor così, ad alleggiar la pena,talvolta così, per alleviare la pena,
mostrav’ alcun de’ peccatori ‘l dossoqualcuno dei peccatori mostrava il dorso
e nascondea in men che non balena.e lo nascondeva in meno tempo di un lampo.
E come a l’orlo de l’acqua d’un fossoE come al bordo dell’acqua di un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,stanno le rane con il solo muso fuori,
sì che celano i piedi e l’altro grosso,così che nascondono i piedi e il resto del corpo,
sì stavan d’ogne parte i peccatori;così stavano da ogni parte i peccatori;
ma come s’appressava Barbariccia,ma quando si avvicinava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.così si ritiravano sotto la pece bollente.
I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,Io vidi, e ancora il cuore me ne rabbrividisce,
uno aspettar così, com’ elli ‘ncontrauno aspettare così, come accade
ch’una rana rimane e l’altra spiccia;che una rana rimane e l’altra salta via;
e Graffiacan, che li era più di contra,e Graffiacane, che gli era più vicino,
li arruncigliò le ‘mpegolate chiomegli uncinò i capelli impiastrati di pece
e trassel sù, che mi parve una lontra.e lo tirò su, così che mi sembrò una lontra.
I’ sapea già di tutti quanti ‘l nome,Io sapevo già di tutti quanti il nome,
sì li notai quando fuorono eletti,avendoli annotati quando furono scelti,
e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.e quando si chiamarono, prestai attenzione al modo.
“O Rubicante, fa che tu li metti“O Rubicante, fa’ in modo di mettere
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!”,gli unghioni addosso, così che tu lo scuoi!”
gridavan tutti insieme i maladetti.gridavano tutti insieme i maledetti.
E io: “Maestro mio, fa, se tu puoi,E io: “Maestro mio, fa’ in modo, se puoi,
che tu sappi chi è lo sciaguratodi sapere chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi”.venuto in mano dei suoi avversari”.
Lo duca mio li s’accostò allato;La mia guida gli si accostò al fianco;
domandollo ond’ ei fosse, e quei rispuose:gli domandò di dove fosse, e quegli rispose:
“I’ fui del regno di Navarra nato.“Io nacqui nel regno di Navarra.
Mia madre a servo d’un segnor mi puose,Mia madre mi mise a servizio di un signore,
che m’avea generato d’un ribaldo,che mi aveva generato da un malfattore,
distruggitor di sé e di sue cose.che aveva distrutto sé stesso e i suoi beni.
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;Poi fui al servizio del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria;lì mi misi a praticare la baratteria;
di ch’io rendo ragione in questo caldo”.della qual cosa rendo conto in questo calore”.
E Cirïatto, a cui di bocca usciaE Ciriatto, dalla cui bocca usciva
d’ogne parte una sanna come a porco,da ogni parte una zanna come a un porco,
li fé sentir come l’una sdruscia.gli fece sentire come una delle due squarcia.
Tra male gatte era venuto ‘l sorco;Tra cattivi gatti era finito il topo;
ma Barbariccia il chiuse con le bracciama Barbariccia lo afferrò con le braccia
e disse: “State in là, mentr’ io lo ‘nforco”.e disse: “State indietro, mentre lo prendo”.
E al maestro mio volse la faccia;E al mio maestro volse la faccia;
“Domanda”, disse, “ancor, se più disii“Domanda”, disse, “ancora, se desideri sapere altro
saper da lui, prima ch’altri ‘l disfaccia”.da lui, prima che altri lo distruggano”.
Lo duca dunque: “Or dì: de li altri riiLa guida dunque: “Ora dimmi: degli altri malvagi
conosci tu alcun che sia latinoconosci tu qualcuno che sia italiano
sotto la pece?”. E quelli: “I’ mi partii,sotto la pece?”. E quegli: “Mi separai,
poco è, da un che fu di là vicino.poco fa, da uno che fu di là vicino.
Così foss’ io ancor con lui coperto,Così fossi io ancora nascosto insieme a lui,
ch’i’ non temerei unghia né uncino!”.che non temerei unghia né uncino!”.
E Libicocco “Troppo avem sofferto”,E Libicocco: “Troppo abbiamo sopportato”,
disse; e preseli ‘l braccio col runciglio,disse; e lo prese per il braccio con l’uncino,
sì che, stracciando, ne portò via un lacerto.così che, strappandolo, ne portò via un pezzo.
Draghignazzo anco i volle dar di piglioDraghignazzo anche voleva afferrarlo
giuso a le gambe; onde ‘l decurio lorogiù alle gambe; per cui il loro capo
si volse intorno intorno con mal piglio.si volse tutt’intorno con cattiva espressione.
Quand’ elli un poco rappaciati fuoro,Quando essi si furono un po’ calmati,
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,a lui, che ancora guardava la sua ferita,
domandò ‘l duca mio sanza dimoro:la mia guida domandò senza indugio:
“Chi fu colui da cui mala partita“Chi fu colui dal quale dici
di’ che facesti per venire a proda?”.di esserti separato malamente per venire a riva?”.
Ed ei rispuose: “Fu frate Gomita,Ed egli rispose: “Fu frate Gomita,
quel di Gallura, vasel d’ogne froda,quello di Gallura, vaso d’ogni frode,
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,che ebbe i nemici del suo signore in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.e fece loro in modo tale che ciascuno se ne loda.
Danar si tolse e lasciolli di piano,Prese denaro e li lasciò liberamente,
sì com’ e’ dice; e ne li altri offici anchecosì come egli stesso dice; e anche negli altri incarichi
barattier fu non picciol, ma sovrano.fu barattiere non di poco conto, ma eccellente.
Usa con esso donno Michel ZancheFrequenta con lui il signor Michele Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardignadi Logudoro; e nel parlare della Sardegna
le lingue lor non si sentono stanche.le loro lingue non si sentono stanche.
Omè, vedete l’altro che digrigna;Ohimè, vedete l’altro che digrigna i denti;
i’ direi anche, ma i’ temo ch’elloparlerei ancora, ma temo che quello
non s’apparecchi a grattarmi la tigna”.si prepari a grattarmi la tigna”.
E ‘l gran proposto, vòlto a FarfarelloE il gran capo, rivolto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,che stralunava gli occhi per colpire,
disse: “Fatti ‘n costà, malvagio uccello!”.disse: “Allontanati, malvagio uccello!”.
“Se voi volete vedere o udire”,“Se voi volete vedere o udire”,
ricominciò lo spaürato appresso,ricominciò lo spaventato subito dopo,
“Toschi o Lombardi, io ne farò venire;“Toscani o Lombardi, io ne farò venire;
ma stieno i Malebranche un poco in cesso,ma stiano i Malebranche un po’ in disparte,
sì ch’ei non teman de le lor vendette;così che quelli non temano le loro vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso,e io, sedendo in questo stesso luogo,
per un ch’io son, ne farò venir setteper uno che io sono, ne farò venire sette
quand’ io suffolerò, com’ è nostro usoquando io fischierò, com’è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette”.di fare quando qualcuno si mette fuori”.

Canto 22 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione

Il Canto 22 dell’Inferno della Divina Commedia continua la narrazione della quinta bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i barattieri, ovvero coloro che hanno fatto commercio delle cariche pubbliche. La bolgia è riempita di pece bollente nella quale i dannati sono completamente immersi, sorvegliati dai demoni Malebranche che, con uncini e raffi, impediscono loro di emergere per alleviare le proprie sofferenze.

Il canto si apre con una similitudine militare: Dante paragona la marcia dei Malebranche alle mosse di schiere armate che ha visto in battaglia. Questa immagine introduce il tono quasi epico che contrasta con la natura comico-satirica degli eventi che seguiranno. La struttura narrativa si sviluppa in tre momenti fondamentali che creano un’unità drammatica di grande efficacia.

Nella prima parte (vv. 1-30), Dante e Virgilio osservano lo spettacolo terrificante della bolgia, con i dannati che raramente emergono dalla pece, simili a delfini che mostrano il dorso ai marinai o a rane che spuntano dall’acqua con il muso fuori mentre nascondono i piedi. I due poeti procedono in compagnia dei diavoli lungo l’argine della bolgia.

Nella seconda sequenza (vv. 31-123), assistiamo all’incontro con Ciampolo di Navarra, un dannato che viene catturato dai Malebranche. Virgilio ottiene il permesso di interrogarlo e Ciampolo racconta la sua storia: era stato al servizio del re Tebaldo di Navarra, dove praticava la baratteria. Il dannato rivela anche altri nomi di peccatori che condividono la sua pena: frate Gomita, corrotto funzionario della Gallura in Sardegna, e Michel Zanche, governatore del Logudoro, anch’esso sardo, entrambi celebri per la loro disonestà amministrativa.

La scena raggiunge il culmine quando Ciampolo, con astuzia, propone ai demoni di far emergere dalla pece altri dannati toscani e lombardi affinché possano tormentarli. Ottenuto un momento di tregua e vedendo i diavoli arretrare, Ciampolo coglie l’opportunità per tuffarsi nuovamente nella pece, sfuggendo così ai suoi tormentatori.

Nella terza parte (vv. 124-150), la fuga di Ciampolo scatena il caos tra i Malebranche. Il demone Alichino, che aveva garantito per il dannato, si lancia all’inseguimento ma non riesce a catturarlo. Calcabrina, altro diavolo, si scaglia contro Alichino accusandolo di aver permesso la fuga, e i due finiscono per azzuffarsi, precipitando entrambi nella pece bollente. I loro compagni devono intervenire per salvarli con gli uncini, mentre Dante e Virgilio colgono l’occasione per allontanarsi inosservati.

La struttura metrica del canto mantiene il consueto schema della terzina dantesca (ABA BCB CDC…), ma il linguaggio presenta particolarità significative. Dante alterna registri diversi: utilizza termini tecnici militareschi, voci dialettali, espressioni colloquiali e onomatopee come “issa” (adesso) che riproduce il parlare dei marinai. La sintassi è più paratattica e meno solenne rispetto ad altri canti, con un ritmo narrativo rapido che ben si adatta all’azione concitata.

La scelta della pece come elemento punitivo ha un forte valore simbolico: la sua viscosità rappresenta l’attaccamento al denaro illecito, la sua oscurità simboleggia la natura nascosta delle transazioni corrotte, mentre il bollore evoca l’ardore della cupidigia che ha mosso i barattieri in vita. I diavoli con uncini richiamano visivamente le mani adunche pronte a ricevere tangenti.

Questo canto si distingue per il suo tono quasi novellistico e per la vivace rappresentazione dell’astuzia umana che, persino nell’Inferno, riesce a ingannare i demoni stessi. La beffa ordita da Ciampolo dimostra come l’inganno si ritorca contro gli ingannatori, creando un’efficace lezione morale all’interno di una scena quasi comica. L’episodio, con la sua tensione tra toni alti e bassi, rappresenta uno dei momenti più dinamici e teatrali dell’intero Inferno, testimoniando la straordinaria versatilità stilistica di Dante.

Canto 22 Inferno della Divina Commedia: i personaggi

Il canto 22 dell’Inferno della Divina Commedia si distingue per la vivacità dei suoi personaggi, figure memorabili che animano una delle scene più dinamiche della prima cantica. Questo microcosmo di dannati e demoni rappresenta un affresco della corruzione politica e dell’inganno, temi centrali nell’universo morale dantesco.

Ciampolo di Navarra: l’ingannatore ingannato

Protagonista indiscusso del canto è Ciampolo di Navarra, figura la cui identità storica rimane parzialmente avvolta nel mistero. Probabilmente si tratta di un funzionario al servizio di Tebaldo II di Navarra, colpevole di baratteria, ovvero di aver venduto favori e decisioni pubbliche per denaro.

La caratterizzazione di Ciampolo è particolarmente riuscita: Dante lo dipinge come un personaggio dotato di straordinaria astuzia, capace di ingannare persino i diavoli che lo tormentano. La sua apparizione è descritta con un’efficace similitudine: “come talvolta stanno a riva i ranocchi / col muso fuor dell’acqua”. L’immagine evoca immediatamente la condizione precaria del dannato, momentaneamente emerso dalla pece bollente.

Ciampolo si rivela un personaggio picaresco, che accetta di rivelare informazioni sui compagni di pena solo per guadagnare un attimo di respiro dai tormenti. La sua astuzia culmina nell’inganno finale, quando riesce a sfuggire ai diavoli tuffandosi nuovamente nella pece. Questo stratagemma trasforma il tormentato in beffatore, invertendo momentaneamente la gerarchia infernale e creando un momento di sovversione che è emblematico della complessità narrativa dantesca.

I Malebranche: demoni grotteschi

La squadra di diavoli conosciuta come Malebranche (artigli malvagi) costituisce uno dei gruppi di personaggi più caratteristici dell’Inferno. Dante li presenta con nomi evocativi che riflettono la loro natura o funzione, creando figure dai tratti grotteschi ma distintivi:

  • Barbariccia, il capo della squadra, contraddistinto dalla barba irta
  • Alichino, forse derivato da “ali chine”, pronto a piombare sui dannati
  • Calcabrina, che cammina sulla brina con leggerezza
  • Cagnazzo, dal volto canino e dall’atteggiamento aggressivo
  • Libicocco, il cui nome richiama forse il vento impetuoso di libeccio
  • Draghignazzo, dall’aspetto di drago
  • Ciriatto, dalle zanne porcine
  • Graffiacane, che graffia come un cane
  • Farfarello, nome che evoca caos e confusione
  • Rubicante, arrossato dall’ira

Questa caratterizzazione onomastica non è casuale: i nomi creano un bestiario demoniaco che riflette la natura perversa dei guardiani infernali. I Malebranche, armati di uncini e raffi, rappresentano la perversione della giustizia: invece di essere imparziali ministri della punizione divina, si compiacciono nel tormento e finiscono per cadere vittime dell’astuzia di un dannato.

Particolarmente significativa è la zuffa finale tra Alichino e Calcabrina, che precipitano nella pece bollente dopo il tuffo di Ciampolo. Questo episodio, che trasforma i tormentatori in tormentati, costituisce un raro momento di giustizia poetica all’interno dell’Inferno.

Altri personaggi: i compagni di pena

Attraverso il racconto di Ciampolo, Dante introduce altri barattieri dannati nella pece:

  • Frate Gomita, funzionario corrotto della Gallura in Sardegna, sotto il governo dei Visconti. Di lui Ciampolo dice che “tenne in mano ogni froda”, evidenziando come avesse trasformato la corruzione in sistema.
  • Michel Zanche, governatore del Logudoro in Sardegna, anch’egli dedito alla baratteria. La sua menzione crea un collegamento con il Canto XXXIII, dove comparirà il suo assassino, Branca Doria.
  • Altri barattieri toscani e lombardi non meglio identificati, che rappresentano l’universalità del fenomeno corruttivo.

Questa galleria di personaggi secondari permette a Dante di ampliare lo spettro della critica politica, estendendola oltre i confini fiorentini per abbracciare la corruzione come fenomeno panitaliano ed europeo.

I personaggi del Canto 22, con la loro vivacità e complessità, contribuiscono in modo determinante alla creazione di uno degli episodi più drammaticamente efficaci dell’Inferno. Attraverso di essi, Dante non si limita a condannare la corruzione politica, ma crea un teatro morale dove l’inganno e l’astuzia si scontrano in un gioco di specchi che riflette la natura contraddittoria del male.

Analisi del Canto 22 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi

Il Canto 22 dell’Inferno della Divina Commedia presenta una ricca tessitura di elementi tematici e narrativi che lo rendono uno dei passaggi più dinamici e complessi della prima cantica. Situato nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio, questo canto esplora diversi temi fondamentali attraverso una struttura narrativa che alterna momenti di tensione a episodi quasi comici.

Il tema dominante è indubbiamente quello della corruzione politica e amministrativa. I barattieri, ovvero coloro che hanno fatto commercio delle cariche pubbliche, rappresentano una categoria di peccatori particolarmente odiosa per Dante, che aveva personalmente sperimentato gli effetti nefasti della corruzione nella sua Firenze. La pece bollente in cui sono immersi i dannati simboleggia efficacemente la natura viscosa e oscura del loro peccato: come la pece si attacca e contamina, così la corruzione si diffonde nel tessuto sociale, contaminando le istituzioni.

Il contrappasso, principio cardine della giustizia dantesca, trova qui una delle sue rappresentazioni più efficaci. Chi in vita ha operato nell’ombra con mezzi illeciti è ora immerso in un liquido nero che impedisce ogni visibilità; chi ha agito con mani “appiccicose” pronte a ricevere tangenti, ora è invischiato nella pece. I diavoli con uncini rappresentano la giustizia divina che porta alla luce ciò che si voleva nascondere, in un rovesciamento simbolico della situazione terrena.

Altrettanto centrale è il tema dell’inganno, che si manifesta a diversi livelli. I barattieri sono ingannatori per definizione, avendo tradito la fiducia pubblica, ma nel canto assistiamo a una sorta di “controinganno”: Ciampolo di Navarra riesce a beffare i diavoli stessi, trasformandosi da ingannatore ingannato (punito nell’Inferno) a nuovo ingannatore. Questa struttura circolare dell’inganno suggerisce come il vizio sia una trappola che finisce per imprigionare chi lo pratica.

La beffa finale di Ciampolo, che promette di far emergere altri dannati per poi tuffarsi nuovamente nella pece, rappresenta un momento narrativo cruciale. Questa scena non è solo un espediente per creare tensione drammatica, ma diventa allegoria della natura stessa del peccato della frode: anche nell’aldilà, il barattiere non può fare a meno di ricorrere all’inganno, rivelando quanto profondamente il vizio abbia corrotto la sua anima.

Dal punto di vista della struttura narrativa, il canto presenta un’organizzazione tripartita che riflette un crescendo di tensione e dinamismo:

  1. L’introduzione con toni quasi militareschi che descrive la marcia dei diavoli
  2. Il dialogo centrale con l’interrogatorio di Ciampolo
  3. La conclusione con la zuffa tra i diavoli e la fuga del dannato

Questa progressione permette a Dante di sviluppare una narrazione che, pur mantenendo la tensione, alterna registri diversi e crea un effetto di sorpresa nel lettore. L’uso della narrazione in prima persona (“Io vidi già cavalier muover campo”) coinvolge direttamente il lettore, trasformandolo in testimone degli eventi.

Particolarmente significativo è l’uso del dialogo, che occupa gran parte del canto e permette a Dante di caratterizzare i personaggi attraverso il loro modo di esprimersi. Il linguaggio dei diavoli è crudo e volgare, quello di Ciampolo astuto e calcolatore, mentre Virgilio mantiene sempre un tono dignitoso e autorevole. Questa polifonia linguistica riflette la complessità morale del canto e arricchisce il tessuto narrativo.

Il ritmo narrativo merita un’attenzione particolare: Dante alterna sapientemente momenti di tensione statica (come l’introduzione con le similitudini militari) a passaggi di grande dinamismo (la fuga di Ciampolo, la rissa tra i diavoli). Questa variazione ritmica non è casuale, ma riflette la natura caotica e imprevedibile del male rappresentato dai barattieri e dai loro guardiani infernali.

Il canto si collega organicamente alla struttura complessiva dell’Inferno, creando un ponte narrativo tra il Canto 21 (dove vengono introdotti i Malebranche) e il Canto 23 (dove Dante e Virgilio fuggiranno dai diavoli infuriati). Questa continuità narrativa, rara nella struttura generalmente episodica dell’Inferno, sottolinea l’importanza che Dante attribuisce al tema della corruzione politica.

L’elemento più innovativo del Canto 22 è forse la sua natura quasi teatrale, con personaggi ben caratterizzati che agiscono su una scena chiaramente definita. Alcuni critici hanno visto in questo episodio un precursore della commedia dell’arte italiana, con i diavoli che assumono ruoli quasi stereotipati e Ciampolo che interpreta la parte dello scaltro servitore che inganna i padroni.

L’aspetto satirico non deve far dimenticare, tuttavia, la serietà del messaggio morale sottostante. Attraverso la rappresentazione vivace e a tratti comica dei barattieri, Dante intende condannare un sistema politico corrotto che tradisce il bene comune per l’interesse personale. La condanna è tanto più efficace quanto più la rappresentazione risulta realistica e riconoscibile ai contemporanei del poeta.

Figure retoriche nel Canto 22 dell’Inferno della Divina Commedia

Il Canto 22 dell’Inferno della Divina Commedia è caratterizzato da una straordinaria ricchezza retorica che contribuisce a creare quel tono comico-satirico tipico della rappresentazione dei barattieri. Dante utilizza sapientemente diverse figure retoriche per enfatizzare sia la brutalità della punizione che l’astuzia dei dannati.

Le similitudini rappresentano uno degli strumenti espressivi più potenti del canto. Nei versi iniziali, Dante paragona i movimenti dei diavoli a quelli degli eserciti medievali: “Io vidi già cavalier muover campo, / e cominciare stormo, e far lor mostra, / e talvolta partir per loro scampo” (vv. 1-3). Questa similitudine militare introduce immediatamente un tono quasi epico che contrasta con la natura comica dell’episodio. Particolarmente efficace è anche il paragone dei dannati che emergono dalla pece con i delfini: “Come i delfini, quando fanno segno / ai marinar con l’arco de la schiena / che s’argomentin di campar lor legno” (vv. 19-21), un’immagine che rende plasticamente l’idea del movimento furtivo dei peccatori.

Le metafore abbondano nel tessuto poetico del canto. La pece bollente non è solo uno strumento di tortura, ma diventa metafora dell’oscurità morale dei barattieri, della natura appiccicosa e contaminante della corruzione. Quando Dante definisce la pece “lo studio dei barattieri” (v. 48), trasforma il luogo di punizione in un’accademia perversa della frode politica.

Particolarmente pregnanti sono le onomatopee e le espressioni fonosimboliche. Il verso “issa issa” (v. 88), che riproduce il parlare dei marinai, conferisce immediatezza alla scena e contribuisce al realismo della narrazione. Allo stesso modo, i nomi stessi dei diavoli (Barbariccia, Calcabrina, Draghignazzo) hanno un valore onomatopeico che evoca la loro natura bestiale e caotica.

Il canto è arricchito da numerose allitterazioni che ne accentuano la dimensione sonora. Ad esempio, nei versi “s’ei fu sì bel com’elli è ora brutto” (v. 25) la ripetizione del suono “b” sottolinea il contrasto tra la bellezza perduta e la bruttezza presente del dannato. Allo stesso modo, l’espressione “gorgoglion le gole” (v. 32) riproduce foneticamente il gorgoglio della pece bollente.

Le iperboli servono a evidenziare la violenza della scena. Quando Dante afferma che i dannati “la pece che di lor coverchia l’anche / non sarien sta cheti” (vv. 58-59), amplifica l’intensità del tormento per sottolineare la gravità della colpa.

L’ironia permea l’intero canto, culminando nella beffa finale ordita da Ciampolo. Questo procedimento retorico consente al poeta di costruire un episodio in cui i tormentatori diventano vittime, rovesciando la dinamica punitiva in una sorta di giustizia poetica: “e Graffiacan, che li era più di contra, / li arruncigliò le ‘mpegolate chiome / e trassel sù, che mi parve una lontra” (vv. 40-42).

L’anafora è utilizzata per aumentare la tensione narrativa, come nei versi “Ed ei: ‘Tosco, se tu non ti scosti, / ed ei: ‘Perch’io non fugga via’” (vv. 112-113), dove la ripetizione di “ed ei” scandisce il ritmo concitato dell’azione.

Il chiasmo appare in costruzioni come “tutti stavan sospesi a riguardare / prima Virgilio e poi quel barattieri” (vv. 125-126), creando un effetto di simmetria invertita che amplifica l’attenzione drammatica della scena.

L’uso sapiente dell’enjambement contribuisce a creare suspense e a mantenere alta l’attenzione del lettore: “del ponte a la ripa discarcammo / quivi” (vv. 4-5) illustra come Dante utilizzi la rottura del verso per sottolineare momenti di particolare importanza narrativa.

Queste figure retoriche, integrate in una struttura metrica rigorosa di terzine incatenate, rendono il Canto 22 un esempio perfetto della versatilità stilistica dantesca. La varietà dei registri linguistici – dall’epico al comico, dal tecnico al popolaresco – riflette la complessità morale della bolgia dei barattieri e trasforma un episodio di corruzione e inganno in una potente lezione di etica politica e sociale.

Temi principali del 22 canto della Inferno della Divina Commedia

Il Canto 22 dell’Inferno della Divina Commedia offre uno spaccato tematico particolarmente ricco, in cui Dante intreccia elementi morali, politici e stilistici che arricchiscono la narrazione e ne costituiscono l’impalcatura concettuale.

La corruzione politica

Il tema dominante di questo canto è indubbiamente la corruzione politica e amministrativa. I barattieri puniti nella quinta bolgia rappresentano l’emblema del malcostume che pervadeva le istituzioni medievali. Dante, attraverso la figura di Ciampolo di Navarra e i riferimenti a Frate Gomita e Michel Zanche, denuncia chi ha fatto mercimonio della propria funzione pubblica.

La pece bollente in cui sono immersi questi dannati simboleggia perfettamente la natura del loro peccato: come la pece è nera, vischiosa e avvolgente, così la corruzione oscura l’animo, rende difficile liberarsi dalla colpa e coinvolge progressivamente tutto il tessuto sociale circostante. Il fatto che i dannati cerchino continuamente di emergere dalla pece, solo per essere rispinti dai diavoli con gli uncini, rappresenta il ciclo perpetuo della corruzione, che cerca sempre nuovi spazi di manifestazione.

La giustizia divina e il contrappasso

Un altro tema fondamentale è il contrappasso, ovvero la corrispondenza tra pena e colpa. Nel caso dei barattieri, questa corrispondenza è particolarmente efficace:

  • Chi ha operato nascostamente è ora immerso in un liquido nero che lo nasconde
  • Chi ha reso “viscose” le proprie mani con tangenti è ora invischiato nella pece
  • Chi ha agito nell’ombra delle istituzioni è punito nell’oscurità della bolgia

È significativo come la giustizia divina operi anche attraverso la zuffa tra i diavoli: i tormentatori finiscono per tormentarsi a vicenda, dimostrando che il male si autodistrugge. Questo tema riflette la convinzione dantesca che l’ordine divino sia ineluttabile e che il caos generato dal peccato contenga in sé i semi della propria punizione.

L’inganno e l’astuzia

L’inganno rappresenta un tema centrale del canto, non solo come oggetto di condanna morale, ma anche come elemento narrativo. Ciampolo inganna i diavoli promettendo di far emergere altri dannati, solo per poi tuffarsi nuovamente nella pece e sfuggire alla tortura. Questo gioco di astuzie contrappone un dannato singolo a un’intera schiera di diavoli, rovesciando momentaneamente i ruoli tra tormentato e tormentatori.

Particolarmente interessante è come Dante sembri nutrire una sorta di ammirazione per l’intelligenza di Ciampolo, pur condannandone la colpa. Questo atteggiamento ambivalente riflette la complessità del giudizio dantesco, che sa riconoscere le qualità umane anche nei peccatori.

La degradazione morale

La degradazione morale dei barattieri si riflette nel tono comico-grottesco che pervade il canto. La rappresentazione dei diavoli con nomi caricaturali (Barbariccia, Cagnazzo, Libicocco) e comportamenti quasi farseschi delinea un ambiente infernale in cui la dignità umana è completamente perduta.

I gesti osceni, il linguaggio basso e le scene di violenza gratuita contribuiscono a creare un’atmosfera di degradazione che corrisponde alla bassezza morale dei dannati. È significativo che questo sia uno dei pochi canti in cui Dante utilizza termini volgari e immagini grottesche, a testimonianza della gravità con cui considera la corruzione politica.

La critica sociale e politica

Attraverso questo canto, Dante sviluppa una potente critica sociale rivolta alle istituzioni del suo tempo. La menzione di personaggi specifici come Frate Gomita (della corte pisana) e Michel Zanche (governatore del Logudoro) dimostra come il poeta intenda denunciare situazioni concrete di malgoverno sia in Italia che all’estero.

La baratteria viene presentata come un male endemico che colpisce indistintamente regni, comuni e signorie, suggerendo che la corruzione è un problema strutturale delle istituzioni umane. La denuncia dantesca assume così una dimensione universale che trascende il contesto storico specifico e parla ancora oggi al lettore moderno.

La bolgia dei barattieri diventa quindi un microcosmo in cui si riflettono le dinamiche perverse del potere e dell’amministrazione pubblica, offrendo una riflessione ancora attuale sui pericoli della corruzione e sull’importanza dell’integrità morale nella gestione della res publica.

Il Canto 22 dell’Inferno in pillole

ElementoDescrizione
AmbientazioneQuinta bolgia dell’ottavo cerchio, riservata ai barattieri immersi nella pece bollente
Struttura narrativaDivisa in tre sequenze: l’arrivo dei Malebranche, l’interrogatorio di Ciampolo, la zuffa finale tra i diavoli
Protagonista dannatoCiampolo di Navarra, funzionario corrotto che con astuzia inganna i diavoli
Altri dannati citatiFrate Gomita (consigliere di Nino Visconti), Michel Zanche (governatore sardo)
Guardiani infernaliI Malebranche: Barbariccia (capo), Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Rubicante e altri diavoli dai nomi evocativi
Peccato punitoBaratteria: corruzione amministrativa e vendita di cariche pubbliche
ContrappassoImmersione nella pece nera e vischiosa, simbolo dell’oscurità morale e della viscosità delle tangenti
Tono narrativoAlternanza tra registro militaresco, similitudini epiche e elementi comico-satirici
Tecniche stilisticheSimilitudini estese (cavalieri, delfini), metafore (pece come simbolo del peccato), iperboli, anafore
Particolarità linguisticheOnomatopee, gergo militare, lessico marinaresco, espressioni colloquiali
Eventi principaliApparizione di Ciampolo, suoi racconti sui compagni di pena, inganno ai diavoli, rissa tra Alichino e Calcabrina
Significato allegoricoCritica alla corruzione politica e alla degradazione morale delle istituzioni
CollegamentiIl canto è parte di una sequenza narrativa che include i Canti 21 e 23, formando una sorta di “commedia degli inganni”

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