Il canto 23 dell’Inferno della Divina Commedia è collocato nella sesta bolgia dell’ottavo cerchio, e introduce i lettori alla punizione degli ipocriti, dannati costretti a camminare eternamente sotto il peso di cappe dorate all’esterno ma internamente di piombo. Tale contrappasso rispecchia perfettamente la natura del loro peccato: bella e virtuosa in apparenza, ma gravosa e falsa nella sostanza.
Indice:
- Canto 23 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 23 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 23 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 23 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 23 dell’Inferno della Divina Commedia
- Temi principali del 23 canto dell’Inferno della Divina Commedia
- Il Canto 23 dell’Inferno in pillole
Canto 23 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
Testo Originale | Parafrasi |
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Taciti, soli, sanza compagnia / n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo, / come frati minor vanno per via. | Silenziosi, soli, senza compagnia, camminavamo l’uno davanti e l’altro dietro, come i frati francescani camminano per strada. |
Vòlt’ era in su la favola d’Isopo / lo mio pensier per la presente rissa, / dov’ el parlò de la rana e del topo; | Il mio pensiero era rivolto alla favola di Esopo a causa della recente lite (tra i diavoli), nella quale egli parlò della rana e del topo; |
ché più non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’ / che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia / principio e fine con la mente fissa. | perché le parole ‘mo’ (adesso) e ‘issa’ (ora) non si assomigliano più di quanto si assomiglino quella battaglia tra Malebranche e il loro comportamento con noi, se si confrontano attentamente l’inizio e la fine della situazione. |
E come l’un pensier de l’altro scoppia, / così nacque di quello un altro poi, / che la prima paura mi fé doppia. | E come un pensiero scaturisce da un altro, così da quello ne nacque poi un altro, che raddoppiò il mio primo timore. |
Io pensava così: ‘Questi per noi / sono scherniti con danno e con beffa / sì fatta, ch’assai credo che lor nòi. | Io pensavo così: ‘Questi diavoli sono stati scherniti a causa nostra con danno e con una beffa così grande, che credo li faccia molto arrabbiare. |
Se l’ira sovra ‘l mal voler s’aggueffa, / ei ne verranno dietro più crudeli / che ‘l cane a quella lievre ch’elli acceffa’. | Se la rabbia si aggiunge alla loro malvagità, ci verranno dietro più crudeli del cane che azzanna la lepre che ha catturato’. |
Già mi sentia tutti arricciar li peli / de la paura e stava in dietro intento, / quand’ io dissi: ‘Maestro, se non celi | Già sentivo tutti i peli rizzarsi per la paura e stavo attento, guardando indietro, quando dissi: ‘Maestro, se non nascondi |
te e me tostamente, i’ ho pavento / d’i Malebranche. Noi li avem già dietro; / io li ‘magino sì, che già li sento’. | te e me velocemente, io ho paura dei Malebranche. Ce li abbiamo già alle spalle; io me li immagino in modo così vivo che già li sento’. |
E quei: ‘S’i’ fossi di piombato vetro, / l’imagine di fuor tua non trarrei / più tosto a me, che quella dentro impetro. | Ed egli rispose: ‘Se io fossi uno specchio di vetro piombato, non ritrarrei la tua immagine esterna più rapidamente di quanto io colga quella che ora si forma nella tua mente. |
Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ‘ miei, / con simile atto e con simile faccia, / sì che d’intrambi un sol consiglio fei; | Proprio ora i tuoi pensieri venivano a unirsi ai miei, con simile atteggiamento e con simile aspetto, così che da entrambi trassi un’unica decisione; |
s’elli è che sì la destra costa giaccia, / che noi possiam ne l’altra bolgia scendere, / noi fuggirem l’imaginata caccia’. | se è vero che la parete destra (dell’argine) è così inclinata da permetterci di scendere nell’altra bolgia, sfuggiremo all’inseguimento che immaginiamo’. |
Già non compié di tal consiglio rendere, / ch’io li vidi venir con l’ali tese / non molto lungi, per volerne prendere. | Non aveva ancora finito di dare questo consiglio, che io li vidi venire con le ali tese non molto lontano, per volerci catturare. |
Lo duca mio di sùbito mi prese, / come la madre ch’al romore è desta / e vede presso a sé le fiamme accese, | La mia guida subito mi afferrò, come la madre che si sveglia per un rumore e vede vicino a sé le fiamme accese, |
che prende il figlio e fugge e non s’arresta, / avendo più di lui che di sé cura, / tanto che solo una camiscia vesta; | che prende il figlio e fugge senza fermarsi, preoccupandosi più di lui che di sé stessa, tanto che indossa solo una camicia da notte; |
e giù dal collo de la ripa dura / supin si diede a la pendente roccia, / che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura. | e giù dall’orlo della ripa scoscesa si lasciò cadere supino sulla roccia pendente, che chiude uno dei lati dell’altra bolgia. |
Non corse mai sì tosto acqua per doccia / a volger ruota di molin terragno, / quand’ ella più verso le pale approccia, | Mai l’acqua corse così veloce in un canale per far girare la ruota di un mulino costruito sulla terra, quando essa si avvicina maggiormente alle pale, |
come ‘l maestro mio per quel vivagno, / portandosene me sovra ‘l suo petto, / come suo figlio, non come compagno. | come il mio maestro lungo quel margine, portandomi sul suo petto come un figlio, non come un compagno. |
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto / del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle / sovresso noi; ma non lì era sospetto: | Appena i suoi piedi giunsero al fondo della bolgia, i diavoli furono sulla sommità del colle sopra di noi, ma non c’era più motivo di preoccupazione: |
ché l’alta provedenza che lor volle / porre ministri de la fossa quinta, / poder di partirs’ indi a tutti tolle. | perché l’alta provvidenza divina che volle porli come guardiani della quinta bolgia, toglie a tutti loro il potere di allontanarsi da lì. |
Là giù trovammo una gente dipinta / che giva intorno assai con lenti passi, / piangendo e nel sembiante stanca e vinta. | Laggiù trovammo una schiera di anime dipinte che andava in giro con passi molto lenti, piangendo e con l’aspetto stanco e abbattuto. |
Elli avean cappe con cappucci bassi / dinanzi a li occhi, fatte de la taglia / che in Clugnì per li monaci fassi. | Essi indossavano cappe con cappucci bassi davanti agli occhi, fatte della stessa foggia di quelle che si confezionano a Cluny per i monaci. |
Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia; / ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, / che Federigo le mettea di paglia. | All’esterno sono dorate, tanto che abbagliano; ma dentro sono tutte di piombo e così pesanti che quelle di paglia che Federico II faceva indossare (agli eretici condannati al rogo) erano un peso da nulla al confronto. |
Oh in etterno faticoso manto! / Noi ci volgemmo ancor pur a man manca / con loro insieme, intenti al tristo pianto; | Oh mantello pesante in eterno! Noi ci volgemmo ancora verso sinistra insieme a loro, attenti al loro triste pianto; |
ma per lo peso quella gente stanca / venìa sì pian, che noi eravam nuovi / di compagnia ad ogne mover d’anca. | ma a causa del peso quella gente stanca procedeva così lentamente che ad ogni movimento di fianco ci trovavamo in compagnia di anime diverse. |
Per ch’io al duca mio: ‘Fa che tu trovi / alcun ch’al fatto o al nome si conosca, / e li occhi, sì andando, intorno movi’. | Perciò dissi alla mia guida: ‘Fa’ in modo di trovare qualcuno che sia riconoscibile per le sue azioni o per il nome, e mentre camminiamo, muovi gli occhi intorno’. |
E un che ‘ntese la parola tosca, / diretro a noi gridò: ‘Tenete i piedi, / voi che correte sì per l’aura fosca! | E uno che intese le mie parole in toscano, gridò dietro di noi: ‘Trattenete i vostri passi, voi che correte così nell’aria oscura! |
Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi’. / Onde ‘l duca si volse e disse: ‘Aspetta, / e poi secondo il suo passo procedi’. | Forse potrai avere da me quello che chiedi’. Perciò la mia guida si voltò e disse: ‘Aspetta, e poi cammina secondo il suo passo’. |
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta / de l’animo, col viso, d’esser meco; / ma tardavali ‘l carco e la via stretta. | Mi fermai e vidi due anime mostrare grande fretta nel volto di essere con me; ma li rallentavano il peso e lo stretto sentiero. |
Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco / mi rimiraron sanza far parola; / poi si volsero in sé, e dicean seco: | Quando furono giunti, mi guardarono a lungo con occhio torvo senza dire parola; poi si voltarono l’uno verso l’altro, e dicevano tra loro: |
‘Costui par vivo a l’atto de la gola; / e s’e’ son morti, per qual privilegio / vanno scoperti de la grave stola?’. | ‘Costui sembra vivo dal movimento della gola; e se sono morti (Dante e Virgilio), per quale privilegio vanno scoperti del pesante mantello?’. |
Poi disser me: ‘O Tosco, ch’al collegio / de l’ipocriti tristi se’ venuto, / dir chi tu se’ non avere in dispregio’. | Poi mi dissero: ‘O Toscano, che sei venuto al gruppo dei tristi ipocriti, non disdegnare di dirci chi sei’. |
E io a loro: ‘I’ fui nato e cresciuto / sovra ‘l bel fiume d’Arno a la gran villa, / e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto. | E io risposi loro: ‘Sono nato e cresciuto presso il bel fiume Arno nella grande città (Firenze), e sono qui con il corpo che ho sempre avuto. |
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla / quant’ i’ veggio dolor giù per le guance? / e che pena è in voi che sì sfavilla?’. | Ma voi chi siete, dai cui volti vedo scorrere tanto dolore lungo le guance? E che pena è la vostra che così risplende?’. |
E l’un rispuose a me: ‘Le cappe rance / son di piombo sì grosse, che li pesi / fan così cigolar le lor bilance. | E uno mi rispose: ‘Le cappe gialle sono di piombo così spesso, che i pesi fanno cigolare le nostre bilance (i nostri corpi). |
Frati godenti fummo, e bolognesi; / io Catalano e questi Loderingo / nomati, e da tua terra insieme presi | Fummo frati gaudenti e bolognesi; io chiamato Catalano e questi Loderingo, e fummo scelti insieme dalla tua città |
come suole esser tolto un uom solingo, / per conservar sua pace; e fummo tali, / ch’ancor si pare intorno dal Gardingo’. | come si suole scegliere un uomo imparziale, per mantenere la sua pace; e fummo tali (nel nostro operato) che ancora se ne vedono le conseguenze intorno al Gardingo (quartiere di Firenze)’. |
Io cominciai: ‘O frati, i vostri mali . . .’; / ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse / un, crucifisso in terra con tre pali. | Io cominciai: ‘O frati, i vostri mali…’; ma non dissi altro, perché mi cadde l’occhio su uno, crocifisso in terra con tre pali. |
Quando mi vide, tutto si distorse, / soffiando ne la barba con sospiri; / e ‘l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse, | Quando mi vide, si contorse tutto, soffiando nella barba con sospiri; e frate Catalano, che se ne accorse, |
mi disse: ‘Quel confitto che tu miri, / consigliò i Farisei che convenia / porre un uom per lo popolo a’ martìri. | mi disse: ‘Quel crocifisso che tu osservi è colui che consigliò ai Farisei che conveniva far morire un uomo per il popolo. |
Attraversato è, nudo, ne la via, / come tu vedi, ed è mestier ch’el senta / qualunque passa, come pesa, pria. | È disteso nudo attraverso la via, come tu vedi, ed è necessario che senta prima quanto pesa chiunque gli passa sopra. |
E a tal modo il socero si stenta / in questa fossa, e li altri dal concilio / che fu per li Giudei mala sementa’. | E allo stesso modo soffre in questa bolgia il suocero (Anna), e gli altri membri del sinedrio che fu per i Giudei cattiva semenza’. |
Allor vid’ io maravigliar Virgilio / sovra colui ch’era disteso in croce / tanto vilmente ne l’etterno essilio. | Allora vidi Virgilio meravigliarsi su colui che era disteso in croce così vilmente nell’eterno esilio. |
Poscia drizzò al frate cotal voce: / ‘Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci / s’a la man destra giace alcuna foce | Poi rivolse al frate tali parole: ‘Non vi dispiaccia, se vi è consentito, dirci se sulla destra c’è qualche apertura |
onde noi amendue possiamo uscirci, / sanza costrigner de li angeli neri / che vegnan d’esto fondo a dipartirci’. | attraverso la quale noi due possiamo uscire, senza costringere gli angeli neri a venire da questo fondo per farci uscire’. |
Rispuose adunque: ‘Più che tu non speri / s’appressa un sasso che da la gran cerchia / si move e varca tutt’ i vallon feri, | Rispose dunque: ‘Più vicino di quanto tu speri c’è un ponte di pietra che dalla grande circonferenza si stacca e attraversa tutte le valli crudeli, |
salvo che ‘n questo è rotto e nol coperchia; / montar potrete su per la ruina, / che giace in costa e nel fondo soperchia’. | eccetto che in questa è rotto e non la copre; potrete salire su per le rovine, che giacciono sul pendio e si accumulano sul fondo’. |
Lo duca stette un poco a testa china; / poi disse: ‘Mal contava la bisogna / colui che i peccator di qua uncina’. | La mia guida stette un poco a testa china; poi disse: ‘Male mi raccontava la situazione colui che aggancia i peccatori di là (Malacoda)’. |
E ‘l frate: ‘Io udi’ già dire a Bologna / del diavol vizi assai, tra ‘ quali udi’ / ch’elli è bugiardo e padre di menzogna’. | E il frate: ‘Io udii già dire a Bologna molti vizi del diavolo, tra i quali udii che egli è bugiardo e padre della menzogna’. |
Appresso il duca a gran passi sen gì, / turbato un poco d’ira nel sembiante; / ond’ io da li ‘ncarcati mi parti’ | Poi la mia guida se ne andò a gran passi, un po’ turbato nell’aspetto per l’ira; perciò io mi allontanai da quelli carichi (dal peso) |
dietro a le poste de le care piante. | seguendo le orme dei suoi cari piedi. |
Canto 23 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il canto 23 dell’Inferno della Divina Commedia si apre con Dante e Virgilio che procedono in silenzio, simili a frati minori in fila, dopo essere fuggiti dai demoni Malebranche. Questa similitudine anticipa sottilmente l’incontro imminente con gli ipocriti, creando un collegamento tematico significativo. Il poeta è ancora turbato dalla fuga precipitosa dalla bolgia precedente e teme che i diavoli possano inseguirli per vendicarsi dell’inganno subito.
Virgilio, percependo l’ansia di Dante, lo rassicura affermando che conosce i suoi pensieri e condivide le sue preoccupazioni. Improvvisamente, il maestro scorge i Malebranche in lontananza e, con prontezza straordinaria, afferra Dante come una madre che, svegliata dal rumore di un incendio vicino, prende il figlio e fugge senza preoccuparsi di coprirsi. In un gesto di protezione immediata, Virgilio scivola con Dante lungo la pendenza che conduce alla sesta bolgia, proteggendolo dalla minaccia dei demoni.
Giunti nella nuova bolgia, i due poeti osservano una processione lenta e angosciante: una fila di anime vestite con cappe che all’esterno appaiono dorate e splendenti, ma all’interno sono fatte di pesantissimo piombo. Questo è il contrappasso degli ipocriti, condannati a camminare eternamente piegati sotto il peso di un abito che riflette perfettamente la natura del loro peccato: all’apparenza virtuosi e splendenti, ma interiormente gravati dalla loro falsità.
Dante nota come questi dannati procedano lentamente, affaticati e piangenti, con il volto segnato da una profonda stanchezza. Le cappe sono descritte come simili a quelle dei monaci di Cluny, ma infinitamente più pesanti delle cappe di piombo usate dall’imperatore Federico II come strumento di tortura per i traditori. Il poeta sottolinea l’eternità della pena con la potente esclamazione “O manto di fatica eterna!”.
Durante il cammino, Dante viene notato da due anime che, riconoscendo il suo essere vivo dal movimento della gola, lo chiamano. Il poeta si volta e osserva queste anime vestite di cappe dorate. I due dannati rivelano di essere Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò, entrambi bolognesi e frati gaudenti che nel 1266 furono nominati podestà congiunti di Firenze con il compito di pacificare la città travagliata dalle lotte tra guelfi e ghibellini.
I due frati spiegano di aver fallito nella loro missione perché, anziché agire imparzialmente, favorirono la parte guelfa, contribuendo alla distruzione delle case della famiglia ghibellina degli Uberti nel quartiere del Gardingo. Questo comportamento ipocrita, che tradiva il loro ruolo super partes, è la ragione della loro dannazione.
Quando Dante inizia a rispondere, la sua attenzione viene catturata da una figura straordinaria: Caifa, il sommo sacerdote ebreo che, secondo il Vangelo di Giovanni, consigliò di sacrificare Gesù per salvare l’intero popolo. Caifa è crocifisso a terra, nudo, e tutti gli altri ipocriti sono costretti a calpestarlo durante il loro eterno cammino. Vicino a lui giace nella stessa condizione Anna, suo suocero e complice nella condanna di Cristo.
Frate Catalano spiega che questa punizione esemplare rappresenta il contrappasso perfetto per chi usò un consiglio apparentemente saggio per mascherare la propria malvagità: chi sacrificò un innocente con il pretesto del bene comune è ora eternamente sacrificato al passaggio di tutti gli altri dannati.
Il canto si conclude con Virgilio che, colpito da ciò che ha visto, interroga frate Catalano su come proseguire il cammino per uscire dalla bolgia. Il frate indica un ponte che, contrariamente a quanto affermato dal diavolo Malacoda nel canto precedente, non è crollato. Virgilio si rende conto di essere stato ingannato e si adira per l’inganno subito, mentre i due poeti si allontanano dalla triste processione degli ipocriti.
Questo canto si distingue per la sua capacità di intrecciare elementi narrativi drammatici, come la fuga dai demoni, con profonde riflessioni teologiche sulla natura dell’ipocrisia. La rappresentazione delle cappe dorate ma piene di piombo costituisce una delle più efficaci immagini dell’intera Divina Commedia, simboleggiando in modo tangibile il contrasto tra apparenza e realtà che caratterizza il peccato dell’ipocrisia.
Canto 23 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
Nel canto 23 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante incontra figure significative che incarnano il peccato dell’ipocrisia, ciascuna con un proprio bagaglio storico e simbolico. Questi personaggi non sono semplici comparse, ma rappresentano esempi concreti della critica dantesca alle istituzioni del suo tempo.
I protagonisti principali di questo canto sono i frati Gaudenti – Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò – e Caifa, il sommo sacerdote ebreo responsabile della condanna di Gesù. La loro presenza nella sesta bolgia dell’ottavo cerchio non è casuale, ma riflette una precisa scelta poetica e morale di Dante.
I frati Gaudenti
Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò appartengono all’ordine cavalleresco-religioso di Santa Maria (detto dei frati Gaudenti), fondato a Bologna nel 1261 con lo scopo dichiarato di pacificare le fazioni in lotta e difendere i deboli. Il termine “Gaudenti” era originariamente un soprannome ironico, poiché questi frati, pur avendo preso i voti, continuavano a godere dei piaceri della vita secolare.
Nel 1266, i due frati furono chiamati insieme a Firenze come podestà congiunti per pacificare la città divisa tra guelfi e ghibellini. Catalano era di parte guelfa, mentre Loderingo apparteneva alla fazione ghibellina – una scelta che doveva garantire imparzialità. Tuttavia, secondo Dante, i due tradirono la loro missione super partes, favorendo la parte guelfa e contribuendo alla distruzione delle case della famiglia ghibellina degli Uberti nel quartiere del Gardingo.
Nel dialogo con Dante, Catalano rivela una certa ironia amara, consapevole della propria colpa e del fallimento della sua missione. Questo atteggiamento sottolinea un aspetto importante dell’ipocrisia: la discrepanza tra l’apparente nobiltà dell’incarico ricevuto e la realtà corrotta del suo adempimento.
Caifa e i sacerdoti del Sinedrio
La figura più significativa del canto è Caifa, sommo sacerdote del Sinedrio che, secondo i Vangeli, consigliò di sacrificare Gesù “per il bene del popolo” (Giovanni 11:50). Dante lo descrive in una posizione di punizione emblematica: crocifisso a terra, nudo, in modo che tutti gli altri ipocriti siano costretti a calpestarlo nel loro eterno cammino circolare.
Accanto a lui giacciono nella stessa condizione Anna, suo suocero e precedente sommo sacerdote, e “tutti gli altri del concilio che fu per li Giudei mala sementa” (v. 126). Il riferimento è agli altri membri del Sinedrio che parteciparono alla condanna di Cristo.
La punizione di Caifa rappresenta uno dei contrappasso più efficaci dell’Inferno dantesco: colui che consigliò la crocifissione di un innocente è ora lui stesso crocifisso; colui che sacrificò Cristo per il presunto bene comune è ora eternamente sacrificato al passaggio degli altri dannati. Il peso degli ipocriti che lo calpestano simboleggia il peso morale della sua decisione.
Virgilio: la guida razionale
Sebbene non sia un dannato, Virgilio assume in questo canto un ruolo particolarmente significativo. Quando si trova davanti a Caifa, mostra stupore per la sua punizione, evidenziando che questo è uno dei pochi momenti in cui la guida manifesta sorpresa di fronte a una pena infernale. Questo dettaglio suggerisce l’eccezionale gravità attribuita da Dante all’ipocrisia religiosa.
Inoltre, in questo canto Virgilio mostra un momento di incertezza sul percorso da seguire, ammettendo di essere stato ingannato da un diavolo nella bolgia precedente. Questa momentanea esitazione della ragione umana (rappresentata da Virgilio) sottolinea la pericolosità dell’inganno e prepara il terreno tematico per l’incontro con gli ipocriti.
I personaggi del ventitreesimo canto incarnano dunque non solo esempi storici di ipocrisia, ma anche una critica alle istituzioni corrotte del tempo di Dante, anticipando temi che diventeranno centrali nella successiva letteratura di denuncia sociale e religiosa.
Analisi del Canto 23 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
Il Canto 23 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta uno snodo cruciale nel viaggio dantesco attraverso l’ottavo cerchio, offrendo una ricca tessitura di elementi narrativi e allegorici che meritano un’analisi approfondita. Strutturalmente, il canto si articola in tre sequenze principali: la fuga dai Malebranche, la discesa nella sesta bolgia e l’incontro con gli ipocriti, creando un’architettura narrativa che intreccia tensione drammatica e riflessione morale.
La transizione dalla quinta alla sesta bolgia è caratterizzata da un cambiamento di ritmo narrativo: dall’azione concitata della fuga si passa alla lenta e faticosa processione degli ipocriti. Questa variazione ritmica non è casuale, ma riflette la natura stessa del peccato punito: l’ipocrisia è un peccato di immobilismo morale, di stagnazione spirituale che si traduce nell’oppressione delle cappe di piombo.
L’attenta costruzione narrativa di Dante si rivela anche nell’uso sapiente dell’intertestualità. Il riferimento alla favola esopica della rana e del topo nei versi iniziali stabilisce un collegamento tra l’inganno subito dai protagonisti e quello perpetrato dagli ipocriti. Questa corrispondenza strutturale rafforza il messaggio morale del canto, suggerendo come l’inganno, in tutte le sue forme, rappresenti una perversione della natura umana.
Particolarmente significativa è la rappresentazione dello spazio infernale. La sesta bolgia appare come un labirinto di ponti crollati e passaggi difficoltosi, simboleggiando la complessità ingannevole dell’ipocrisia, un peccato che confonde e disorienta. Non a caso, persino Virgilio, simbolo della ragione umana, mostra momentanea incertezza di fronte a questo labirinto morale (“O virtù somma, (…) perché non sali / il dilettoso monte”, vv. 115-117).
Il contrappasso degli ipocriti costituisce uno degli esempi più emblematici della giustizia poetica dantesca. Le cappe dorate all’esterno ma di piombo all’interno rappresentano perfettamente la discrepanza tra apparenza e realtà che definisce l’ipocrisia. L’aspetto processionale della punizione, con i dannati che procedono a passo lentissimo, accentua la dimensione ecclesiale della critica dantesca, alludendo alle processioni religiose e alla corruzione delle istituzioni ecclesiastiche.
L’incontro con i frati gaudenti Catalano e Loderingo introduce nella narrazione una dimensione storico-politica. Questi personaggi non sono semplici exempla di peccato, ma rappresentanti di un’ipocrisia istituzionale che Dante conosceva bene e che aveva contribuito alle tensioni politiche di Firenze. Il dialogo con essi permette al poeta di sviluppare una critica all’intreccio tra potere religioso e politico, tema ricorrente nell’intera Commedia.
Il culmine allegorico del canto è rappresentato dalla figura di Caifa, il sommo sacerdote che consigliò di sacrificare Cristo “per il bene del popolo”. La sua punizione esemplare – crocifisso a terra e calpestato eternamente dagli altri ipocriti – realizza una perfetta inversione simbolica: colui che utilizzò il proprio ruolo sacerdotale per condannare l’innocente è ora condannato a una crocifissione eterna. Questa immagine potente collega il canto alla tradizione cristiana, elevando la critica all’ipocrisia dal piano sociale e politico a quello teologico.
La reazione emotiva di Dante personaggio all’incontro con gli ipocriti aggiunge un’ulteriore dimensione narrativa. Il suo stupore di fronte alle cappe dorate e la sua indignazione nel dialogo con i frati gaudenti riflettono il percorso di maturazione morale del pellegrino. Attraverso gli occhi di Dante, il lettore è invitato a riconoscere l’orrore dell’ipocrisia e a comprendere la gravità di un peccato che corrompe non solo il singolo, ma l’intero tessuto sociale.
La complessità narrativa del Canto 23 dell’inferno della Divina Commedia si manifesta anche nell’intreccio tra dimensione personale e universale. La condanna degli ipocriti non è solo un giudizio astratto, ma si incarna in figure storiche precise, creando un ponte tra la visione escatologica e la realtà storica contemporanea a Dante. Questa concretezza narrativa è uno dei tratti distintivi dell’intera Commedia, che trasforma la riflessione teologica in un viaggio umano attraverso esempi tangibili di virtù e vizio.
Figure retoriche nel Canto 23 dell’Inferno della Divina Commedia
Il canto 23 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta un capolavoro di eloquenza retorica, dove Dante impiega numerosi artifici stilistici per intensificare l’impatto emotivo e concettuale del suo messaggio. Attraverso un uso sapiente delle figure retoriche, il poeta riesce a rendere visivamente percepibile l’orrore della punizione degli ipocriti e a trasmettere la sua condanna morale verso questo peccato.
La similitudine è una delle figure predominanti del canto. Nei versi iniziali (vv. 1-3), Dante paragona il procedere silenzioso suo e di Virgilio a quello dei frati minori: “Taciti, soli, sanza compagnia / n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo, / come frati minor vanno per via“. Questo paragone non solo descrive efficacemente il loro incedere, ma anticipa ironicamente il tema religioso che dominerà l’intero canto.
Particolarmente efficace è la similitudine della favola esopica (vv. 4-9), dove Dante richiama la storia della rana e del topo per rappresentare il timore di un inganno da parte dei Malebranche: un modo per legare il canto precedente all’attuale attraverso un’immagine familiare ai lettori medievali.
La descrizione dello stato d’animo turbato di Dante si avvale di un’altra potente similitudine (vv. 25-27), quando il poeta paragona la sua paura a quella del contadino che, vedendo un lucertolone, trema di spavento.
La metafora più incisiva del canto è sicuramente quella delle cappe degli ipocriti: “di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia; / ma dentro tutte piombo“. Questa immagine rende visivamente il contrasto tra apparenza e realtà che definisce l’ipocrisia stessa. La doratura esterna simboleggia la falsa virtù ostentata, mentre il piombo interno rappresenta il peso morale della falsità.
L’uso dell’antitesi è fondamentale in questo contesto, evidenziando continuamente l’opposizione tra “fuori” e “dentro”, tra “luce” e “peso”, tra “apparenza” e “sostanza”.
L’iperbole arricchisce la descrizione del peso delle cappe quando Dante afferma che di fronte ad esse le cappe di piombo di Federico II “sarebbero state di paglia” (v. 65), enfatizzando così l’entità della punizione.
Significativa è anche l’apostrofe “O in etterno faticoso manto!” (v. 67), che interrompe la narrazione con un’esclamazione diretta e accentua la perpetuità della pena infernale.
La figura retorica dell’ironia pervade l’intero episodio di Caifa, crocifisso nudo a terra e calpestato dagli altri ipocriti: colui che consigliò di crocifiggere Cristo è ora lui stesso in una posizione simile, in un perfetto contrappasso di natura retorica.
Il linguaggio di Dante è inoltre impreziosito da numerose allitterazioni, come nella descrizione delle cappe “gravi tanto, che Federigo le metteva di paglia” (vv. 64-65), dove la ripetizione del suono “g” rende foneticamente l’idea del peso.
La sapiente orchestrazione di queste figure retoriche non è mai fine a se stessa, ma serve a veicolare il messaggio morale del canto, rendendo indimenticabile la condanna dantesca dell’ipocrisia e amplificando la potenza espressiva dei versi.
Temi principali del 23 canto dell’Inferno della Divina Commedia
Il canto 23 dell’Inferno della Divina Commedia affronta diversi temi di grande rilevanza morale e sociale, intrecciati in una complessa rete di significati allegorici che arricchiscono la narrazione dantesca.
Il tema centrale è indubbiamente l’ipocrisia, esplorata nelle sue diverse sfaccettature. Dante presenta l’ipocrita come colui che nasconde la propria vera natura dietro una falsa apparenza di virtù, utilizzando deliberatamente l’intelletto per ingannare. La gravità di questo peccato è evidenziata dalla sua collocazione nell’ottavo cerchio, tra i fraudolenti, considerati più colpevoli rispetto ai peccatori incontinenti o violenti. Le cappe dorate all’esterno ma di piombo all’interno rappresentano perfettamente questo contrasto tra apparenza e realtà: la bella facciata nasconde una verità oscura e opprimente.
Particolarmente incisiva è la critica alle istituzioni religiose corrotte. Attraverso i frati gaudenti Catalano e Loderingo, Dante denuncia la commistione tra potere religioso e politico, che nel suo tempo aveva portato a una degenerazione morale. L’ordine dei Gaudenti, nato con nobili ideali di pacificazione sociale, si era trasformato in uno strumento di interessi particolari. La figura di Caifa, poi, rappresenta l’apice dell’ipocrisia religiosa: colui che, fingendo di agire per il bene comune, condannò Cristo alla crocifissione.
Altrettanto rilevante è il tema della giustizia divina, manifestata attraverso il principio del contrappasso. Gli ipocriti, che in vita hanno nascosto la loro vera natura sotto una maschera di falsa virtù, sono ora costretti a indossare cappe che rivelano esteriormente, con la loro doratura, la falsità interiore. Il peso del piombo, che li costringe a un’andatura lenta e faticosa, simboleggia perfettamente l’oppressione morale causata dalla falsità.
Un ulteriore tema è quello del rapporto tra politica e religione. I frati gaudenti, chiamati a Firenze come pacificatori super partes, rappresentano il fallimento di un modello di intervento religioso nelle questioni civili. La loro presenza nell’Inferno sottolinea la condanna dantesca verso chi usa la religione come strumento di potere temporale, tema che attraversa l’intera Divina Commedia e riflette le tensioni dell’Italia medievale tra autorità papale e imperiale.
Infine, emerge il tema della paura e vulnerabilità di Dante personaggio, che teme l’inseguimento dei Malebranche e cerca protezione in Virgilio. Questo aspetto umano del protagonista crea un contrasto con la fermezza morale del giudizio verso gli ipocriti, rivelando la complessità psicologica del viaggio dantesco come percorso di purificazione interiore.
Il Canto 23 dell’Inferno in pillole
Aspetto | Descrizione |
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Posizione nell’opera | Sesta bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno |
Peccato punito | Ipocrisia |
Contrappasso | I dannati indossano cappe dorate all’esterno ma di piombo pesantissimo all’interno, simbolo dell’apparenza virtuosa che nasconde un’intima falsità |
Personaggi principali | • Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò: frati gaudenti, podestà di Firenze nel 1266 • Caifa: sommo sacerdote ebreo che consigliò di sacrificare Gesù |
Punizione di Caifa | Crocifisso nudo a terra, calpestato eternamente dagli altri ipocriti |
Struttura narrativa | • Fuga di Dante e Virgilio dai Malebranche • Entrata nella sesta bolgia • Incontro con gli ipocriti • Dialogo con i frati gaudenti • Visione di Caifa |
Figure retoriche principali | • Similitudine dei frati minori • Richiamo alla favola della rana e del topo • Similitudine del contadino spaventato • Metafora delle cappe come simbolo dell’ipocrisia |
Temi centrali | • Contrasto tra apparenza e realtà • Critica all’ipocrisia religiosa e politica • Falsità delle istituzioni • Strumentalizzazione della religione per fini personali |
Riferimenti storici | • Ordine dei frati gaudenti • Situazione politica di Firenze del 1266 • Conflitto tra guelfi e ghibellini • Distruzione delle case degli Uberti nel Gardingo |
Riferimenti biblici | • Caifa e il suo ruolo nel processo a Gesù • Giovanni 11:50: “È meglio che un uomo solo muoia per il popolo” |
Significato allegorico | L’ipocrisia come perversione dell’intelletto che usa la ragione per ingannare il prossimo anziché per cercare la verità |