Il Canto 23 del Purgatorio rappresenta uno dei momenti più toccanti e significativi del secondo regno dantesco, dove il poeta affronta la purificazione del peccato della gola nella sesta cornice purgatoriale della Divina Commedia. Le anime dei golosi, ridotte a una magrezza estrema e tormentate dalla fame e dalla sete di fronte a frutti irraggiungibili, espiano il loro peccato attraverso un contrappasso che rispecchia la loro eccessiva indulgenza terrena verso i piaceri della tavola.
In questo contesto di sofferenza purificatrice, Dante vive uno degli incontri più commoventi dell’intero poema quando riconosce tra le ombre il suo vecchio amico Forese Donati, la cui presenza nel Purgatorio e non all’Inferno rivelerà l’importanza salvifica della preghiera e dell’intercessione dei vivi per i defunti.
Indice:
- Canto 23 Purgatorio della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 23 Purgatorio della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 23 Purgatorio della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 23 del Purgatorio: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 23 Purgatorio della Divina Commedia
- Temi principali del Canto 23 del Purgatorio della Divina Commedia
- Il Canto 23 del Purgatorio in pillole
Canto 23 Purgatorio della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
| Testo Originale | Parafrasi |
|---|---|
| Mentre che li occhi per la fronda verde ficcava io sì come far suole chi dietro a li uccellin sua vita perde, | Mentre io fissavo lo sguardo tra le foglie verdi dell’albero, così come è solito fare chi spreca la propria vita andando a caccia di uccellini, |
| lo più che padre mi dicea: «Figliuole, vienne oramai, ché ‘l tempo che n’è imposto più utilmente compartir si vuole». | colui che per me era più che un padre, Virgilio, mi diceva: «Figliolo, vieni adesso, perché è bene impiegare in modo più utile il tempo che ci è concesso». |
| Io volsi ‘l viso, e ‘l passo non men tosto, appresso i savi, che parlavan sìe, che l’andar mi facean di nullo costo. | Io voltai il viso e altrettanto velocemente il passo, seguendo i saggi (Virgilio e Stazio), che discorrevano in modo tale che il camminare non mi costava alcuna fatica. |
| Ed ecco piangere e cantar s’udìe «Labïa mëa, Domine» per modo tal, che diletto e doglia parturìe. | Ed ecco che si sentì piangere e cantare il salmo «Labia mea, Domine» (Signore, apri le mie labbra) in modo tale da suscitare insieme piacere e dolore. |
| «O dolce padre, che è quel ch’i’ odo?», comincia’ io; ed elli: «Ombre che vanno forse di lor dover solvendo il nodo». | «O dolce padre, che cosa è quello che io odo?», cominciai io; ed egli: «Sono ombre che procedono, sciogliendo forse il nodo del loro dovere (espiando la loro pena)». |
| Sì come i peregrin pensosi fanno, giugnendo per cammin gente non nota, che si volgono ad essa e non restanno, | Come fanno i pellegrini pensierosi che, incontrando per strada gente sconosciuta, si voltano a guardarla ma non si fermano, |
| così di retro a noi, più tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava d’anime turba tacita e devota. | così dietro a noi, muovendosi più velocemente, venendo e sorpassandoci, ci osservava con meraviglia una schiera di anime silenziose e devote. |
| Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, palida ne la faccia, e tanto scema che da l’ossa la pelle s’informava. | Ciascuna aveva gli occhi infossati e cavi, il volto pallido, ed era tanto magra che la pelle prendeva la forma delle ossa. |
| Non credo che così a buccia strema Erisittone fosse fatto secco, per digiunar, quando più n’ebbe tema. | Non credo che Erisittone fosse ridotto così a pelle e ossa per il digiuno, nemmeno nel momento in cui temette maggiormente la fame. |
| Io dicea fra me stesso pensando: «Ecco la gente che perdé Ierusalemme, quando Maria nel figlio diè di becco!». | Io dicevo tra me pensando: «Ecco la gente che perse Gerusalemme, quando Maria si cibò del proprio figlio!». |
| Parean l’occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge ‘omo’ ben avria quivi conosciuta l’emme. | Le orbite degli occhi sembravano anelli senza gemme: chi legge la parola ‘omo’ nel viso degli uomini (le due ‘o’ degli occhi e la ‘m’ formata dal naso con le sopracciglia) avrebbe ben riconosciuto in quelle facce la lettera ‘m’. |
| Chi crederebbe che l’odor d’un pomo sì governasse, generando brama, e quel d’un’acqua, non sappiendo como? | Chi crederebbe che l’odore di un frutto e quello dell’acqua potessero produrre questo effetto, generando un tale desiderio, senza sapere come? |
| Già era in ammirar che sì li affama, per la cagione ancor non manifesta di lor magrezza e di lor trista squama, | Io ero già meravigliato per ciò che li affamava, per la causa ancora non evidente della loro magrezza e del loro triste aspetto, |
| ed ecco del profondo de la testa volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso; poi gridò forte: «Qual grazia m’è questa?». | quando ecco che dal profondo della sua testa un’ombra volse gli occhi verso di me e mi guardò fissamente; poi gridò forte: «Quale grazia è questa che mi è concessa?». |
| Mai non l’avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese ciò che l’aspetto in sé avea conquiso. | Non l’avrei mai riconosciuta dall’aspetto; ma nella sua voce mi fu chiaro ciò che l’apparenza aveva nascosto. |
| Questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese. | Questa scintilla riaccese completamente la mia conoscenza del volto trasformato, e riconobbi il viso di Forese Donati. |
| «Deh, non contendere a l’asciutta scabbia che mi scolora», pregava, «la pelle, né a difetto di carne ch’io abbia; | «Deh, non badare alla secca scabbia che mi scolora la pelle», mi pregava, «né alla mancanza di carne che ho; |
| ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle due anime che là ti fanno scorta; non rimaner che tu non mi favelle!». | ma dimmi la verità su di te, dimmi chi sono quelle due anime che là ti fanno da guida; non trattenerti dal parlarmi!». |
| «La faccia tua, ch’io lagrimai già morta, mi dà di pianger mo non minor doglia», rispuos’ io lui, «veggendola sì torta. | «Il tuo volto, che io già piansi da morto, non mi dà ora minor dolore nel vederlo così deformato», gli risposi, |
| Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia; non mi far dir mentr’ io mi maraviglio, ché mal può dir chi è pien d’altra voglia». | «perciò dimmi, per Dio, cosa vi consuma così; non farmi parlare mentre sono pieno di meraviglia, perché non può parlare bene chi è occupato da un altro desiderio». |
| Ed elli a me: «De l’etterno consiglio cade vertù ne l’acqua e ne la pianta rimasa dietro, ond’ io sì m’assottiglio. | Ed egli a me: «Dalla volontà divina proviene una virtù che cade nell’acqua e nella pianta rimasta indietro, per cui io divento così magro. |
| Tutta esta gente che piangendo canta per seguitar la gola oltra misura, in fame e ‘n sete qui si rifà santa. | Tutta questa gente che piange cantando per aver seguito la gola oltre misura, qui si rende santa attraverso la fame e la sete. |
| Di bere e di mangiar n’accende cura l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo che si distende su per sua verdura. | L’odore che esce dal frutto e dalla pioggia che si spande sulla sua vegetazione ci accende il desiderio di bere e di mangiare. |
| E non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena: io dico pena, e dovria dir sollazzo, | E non solo una volta, girando questo spazio, si rinnova la nostra pena: dico pena, ma dovrei dire sollievo, |
| ché quella voglia a li alberi ci mena che menò Cristo lieto a dire ‘Elì’, quando ne liberò con la sua vena». | perché quel desiderio ci conduce agli alberi che spinse Cristo a dire lietamente ‘Elì’ (Dio mio), quando ci liberò con il suo sangue». |
| E io a lui: «Forese, da quel dì nel qual mutasti mondo a miglior vita, cinqu’ anni non son vòlti infino a qui. | E io a lui: «Forese, da quel giorno in cui lasciasti il mondo per una vita migliore, non sono passati ancora cinque anni fino ad ora. |
| Se prima fu la possa in te finita di peccar più, che sovvenisse l’ora del buon dolor ch’a Dio ne rimarita, | Se terminò in te la possibilità di peccare ancora prima che giungesse l’ora del pentimento sincero che ci riconcilia con Dio, |
| come se’ tu qua sù venuto ancora? Io ti credea trovar là giù di sotto, dove tempo per tempo si ristora». | come sei già arrivato quassù? Io credevo di trovarti laggiù nell’Antipurgatorio, dove si compensa il periodo di attesa con un periodo equivalente di espiazione». |
| Ond’ elli a me: «Sì tosto m’ha condotto a ber lo dolce assenzo d’i martìri la Nella mia con suo pianger dirotto. | Ed egli a me: «La mia Nella, con il suo pianto dirotto, mi ha condotto così presto a bere il dolce assenzio dei martiri. |
| Con suoi prieghi devoti e con sospiri tratto m’ha de la costa ove s’aspetta, e liberato m’ha de li altri giri. | Con le sue preghiere devote e con sospiri mi ha tratto dal pendio dove si attende, e mi ha liberato dagli altri cerchi. |
| Tanto è a Dio più cara e più diletta la vedovella mia, che molto amai, quanto in bene operare è più soletta; | Tanto è più cara e gradita a Dio la mia vedovella, che molto amai, quanto più è sola nel fare il bene; |
| ché la Barbagia di Sardigna assai ne le femmine sue più è pudica che la Barbagia dov’ io la lasciai. | poiché la Barbagia di Sardegna è molto più pudica nelle sue donne che la Barbagia (cioè Firenze) dove io la lasciai. |
| O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica? Tempo futuro m’è già nel cospetto, cui non sarà quest’ora molto antica, | O dolce fratello, che vuoi che io dica? Vedo già davanti a me un tempo futuro, rispetto al quale quest’ora non sarà molto lontana, |
| nel qual sarà in pergamo interdetto a le sfacciate donne fiorentine l’andar mostrando con le poppe il petto. | nel quale sarà vietato dal pulpito alle sfacciate donne fiorentine di andare mostrando il petto con le mammelle. |
| Quai barbare fuor mai, quai saracine, cui bisognasse, per farle ir coverte, o spiritali o altre discipline? | Quali donne barbare mai, quali saracine, ebbero bisogno, per farle andare coperte, di ammonizioni spirituali o di altre punizioni? |
| Ma se le svergognate fosser certe di quel che ‘l ciel veloce loro ammanna, già per urlare avrian le bocche aperte; | Ma se le svergognate fossero certe di ciò che il cielo veloce prepara loro, già avrebbero le bocche aperte per urlare; |
| ché, se l’antiveder qui non m’inganna, prima fien triste che le guance impeli colui che mo si consola con nanna. | poiché, se la previsione qui non m’inganna, saranno tristi prima che metta la barba colui che ora si consola con la ninna nanna. |
| Deh, frate, or fa che più non mi ti celi! vedi che non pur io, ma questa gente tutta rimira là dove ‘l sol veli». | Deh, fratello, fa’ che non ti nasconda più a me! vedi che non solo io, ma tutta questa gente guarda là dove tu veli il sole (cioè, guarda il tuo corpo vivo che fa ombra)». |
| Per ch’io a lui: «Se tu riduci a mente qual fosti meco, e qual io teco fui, ancor fia grave il memorar presente. | Perciò io a lui: «Se tu riporti alla memoria quale fosti con me, e quale io fui con te, ancora sarà doloroso il presente ricordo. |
| Di quella vita mi volse costui che mi va innanzi, l’altr’ ier, quando tonda vi si mostrò la suora di colui», | Da quella vita mi distolse costui che mi precede (Virgilio), l’altro ieri, quando piena vi si mostrò la sorella di quello (la luna, sorella del sole)», |
| e ‘l sol mostrai; «costui per la profonda notte menato m’ha d’i veri morti con questa vera carne che ‘l seconda. | e indicai il sole; «costui mi ha condotto attraverso la profonda notte dei veri morti, con questa vera carne che lo segue. |
| Indi m’han tratto sù li suoi conforti, salendo e rigirando la montagna che drizza voi che ‘l mondo fece torti. | Da lì mi hanno condotto su i suoi incoraggiamenti, salendo e girando la montagna che raddrizza voi che il mondo ha reso contorti. |
| Tanto dice di farmi sua compagna, che io sarò là dove fia Beatrice; quivi convien che sanza lui rimagna. | Egli dice che mi farà sua compagnia finché io sarò laddove si trova Beatrice; là bisogna che io rimanga senza di lui. |
| Virgilio è questi che così mi dice», e addita’lo; «e quest’altro è quell’ombra per cui scosse dianzi ogne pendice | Virgilio è questi che così mi parla», e lo indicai; «e quest’altro è quell’ombra per cui poco fa tremò ogni pendice |
| lo vostro regno, che da sé lo sgombra». | del vostro regno, che lo allontana da sé (lo libera dalla sua presenza)». |
Canto 23 Purgatorio della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il Canto 23 del Purgatorio si svolge nella sesta cornice, dove si espiano i peccati di gola. La narrazione si apre con Dante che, seguendo attentamente Virgilio, procede come un cacciatore che fissa lo sguardo tra le fronde in cerca della sua preda. Improvvisamente, i due poeti odono un grido doloroso: “Labia mea, Domine”, parole tratte dal Salmo 50, invocazione appropriata per chi espia il peccato della gola.
Proseguendo, Dante osserva un albero carico di frutti profumati, attorno al quale si affollano anime estremamente magre che protendono le mani verso i rami senza poterli raggiungere. L’aspetto di queste anime è descritto con dettagli di straordinaria potenza visiva: sono così emaciati che la loro pelle si tende sulle ossa, rendendo visibile lo scheletro. Il poeta paragona le loro orbite oculari ad anelli senza gemme e osserva che chi sa leggere la parola “omo” nel volto umano (dove le due “o” sono rappresentate dagli occhi e la “m” dalle linee del naso e sopracciglia) avrebbe facilmente riconosciuto la lettera “m” nei volti scavati dei penitenti.
Tra queste anime, una riconosce Dante e lo chiama per nome. È Forese Donati, amico di gioventù del poeta, che questi stenta a riconoscere per la sua estrema magrezza. L’incontro è carico di emozione e rappresenta un momento di riconciliazione tra i due amici che in vita avevano avuto rapporti complessi, testimoniati da una tenzone poetica dai toni aspri.
Forese spiega a Dante la logica del contrappasso che governa la pena: i golosi, che in vita si abbandonarono all’eccesso di cibo e bevande, ora sono tormentati da una fame e una sete perpetue che li ha ridotti a scheletri viventi. Nonostante la sofferenza, la loro pena ha uno scopo purificatore:
“Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e ‘n sete qui si rifà santa”.
(Tutta questa gente che canta piangendo, per aver seguito la gola oltre misura, qui si purifica nella fame e nella sete).
Il contrappasso si manifesta anche nella presenza dell’albero irraggiungibile, che stimola continuamente il desiderio delle anime senza mai soddisfarlo, invertendo la dinamica del peccato. La fame e la sete non sono solo punizioni, ma strumenti di redenzione che purificano lo spirito attraverso la sofferenza fisica.
Questo meccanismo penitenziale riflette la concezione dantesca della giustizia divina: nel Purgatorio, a differenza dell’Inferno, la sofferenza ha un fine positivo ed è accettata volontariamente dalle anime nel loro percorso verso la beatitudine. Il canto oscilla così tra la cruda descrizione fisica della sofferenza e la sua interpretazione spirituale, offrendo uno dei momenti più intensi di riflessione sul significato del dolore come strumento di purificazione.
Canto 23 Purgatorio della Divina Commedia: i personaggi
Tra le figure che popolano la sesta cornice del Purgatorio, dedicate ai golosi, emerge con particolare intensità Forese Donati, personaggio di grande rilevanza nella vita personale di Dante. Fratello di Corso Donati (capo della fazione dei Neri) e di Piccarda (che il poeta incontrerà nel Paradiso), Forese rappresenta una delle presenze più toccanti dell’intero poema.
Il loro incontro è carico di emozione: Dante fatica a riconoscere l’amico, tanto è trasfigurato dalla penitenza. L’aspetto di Forese è descritto con dettagli di crudo realismo: “Parean l’occhiaie anella sanza gemme” (v. 31), le orbite oculari sembrano anelli senza pietre preziose. La magrezza estrema ha reso il suo volto irriconoscibile, eppure la voce rimane quella familiare che permette il riconoscimento.
La figura di Forese si carica di molteplici significati:
- Figura di redenzione: In vita fu compagno di sregolatezze di Dante, come testimoniano i sonetti della cosiddetta “tenzone” in cui i due si scambiavano accuse e insulti riguardanti proprio eccessi alimentari e comportamenti licenziosi. La sua presenza in Purgatorio anziché all’Inferno sorprende lo stesso Dante, che gli chiede come sia possibile questa trasformazione.
- Testimone del potere dell’intercessione: La spiegazione che Forese fornisce è emblematica della teologia dantesca sulla comunione dei santi. La sua salvezza è attribuita alle preghiere della moglie Nella, le cui lacrime e suppliche hanno abbreviato il suo tempo di attesa nell’Antipurgatorio. “La Nella mia con suo pianger dirotto” (v. 87) diventa così simbolo della potenza redentrice dell’amore coniugale e della preghiera.
- Voce critica della società contemporanea: Attraverso Forese, Dante condanna i costumi dissoluti delle donne fiorentine, contrapponendoli alla virtù di Nella. Questa dimensione profetica e morale si integra con quella personale e affettiva.
Accanto a Forese, compaiono le altre anime dei golosi, la cui condizione collettiva è rappresentata con immagini di straordinaria efficacia. Le loro caratteristiche principali sono:
- Magrezza estrema: “la gente che perde il sangue per Gerusalemme” (v. 28), paragonati ai crociati morenti o ai martiri cristiani.
- Desiderio inappagato: Pur avendo davanti alberi carichi di frutti profumati e acqua, non possono soddisfare la loro fame e sete.
- Canto penitenziale: Intonano il Salmo 50, invocando la purificazione delle labbra, strumento del loro peccato.
Figura solamente accennata ma di grande importanza simbolica è Nella, moglie di Forese, che pur non comparendo fisicamente nel canto, ne diventa uno dei personaggi moralmente più significativi. La sua devozione e fedeltà la rendono esempio di virtù femminile, contrapposto alla decadenza morale che Dante denuncia nelle “sfacciate donne fiorentine” (v. 101).
La rappresentazione di questi personaggi trascende la dimensione narrativa per acquisire un valore paradigmatico: nelle loro figure si incarna il percorso cristiano di caduta, pentimento e redenzione. Il riconoscimento tra Dante e Forese diventa così metafora della riconciliazione dell’anima con Dio attraverso il dolore purificatore e l’amore salvifico.
Analisi del Canto 23 del Purgatorio: elementi tematici e narrativi
Il Canto 23 del Purgatorio rappresenta un importante snodo tematico e narrativo nell’opera dantesca, in cui si intrecciano elementi teologici, psicologici e morali di grande profondità. La cornice dei golosi è caratterizzata da un contrappasso che rispecchia perfettamente la natura del peccato: chi in vita ha indulto eccessivamente nei piaceri della tavola, ora soffre una fame e una sete che lo consumano fino a renderlo quasi irriconoscibile.
Questo contrappasso non è meramente punitivo, come nell’Inferno, ma assume una funzione purificatrice e redentrice. Le anime dei penitenti abbracciano volontariamente la loro sofferenza, consapevoli che attraverso essa potranno completare il loro percorso di purificazione. La fame paradossale che provano davanti a frutti irraggiungibili diventa così metafora della necessaria rinuncia ai beni terreni per raggiungere la beatitudine eterna.
L’albero carico di frutti rappresenta un elemento simbolico centrale, richiamando l’albero della conoscenza dell’Eden e stabilendo un collegamento tra il peccato della gola e la colpa originaria. La sua forma rovesciata, con la chioma verso il basso, sottolinea l’inversione dei valori terreni nella dimensione purgatoriale: ciò che in vita rappresentava un piacere immediato, ora diventa strumento di purificazione.
Sul piano narrativo, l’incontro con Forese Donati permette a Dante di esplorare il tema della trasformazione personale e della redenzione. La scardinante magrezza di Forese, descritta con impressionante realismo, non è solo un elemento descrittivo, ma rivela la metamorfosi interiore dell’anima che si libera dal peso del peccato.
Particolarmente significativo è il ruolo della preghiera intercessoria nella struttura narrativa del canto. Le preghiere di Nella, moglie virtuosa di Forese, hanno accelerato il suo percorso purgatoriale, illustrando la dottrina della comunione dei santi e il legame tra i vivi e i defunti. Questo elemento narrativo sottolinea come le azioni dei viventi possano influenzare il destino delle anime, introducendo una dimensione comunitaria nella salvezza individuale.
Il contrasto tra la condotta virtuosa di Nella e la dissolutezza delle donne fiorentine contemporanee introduce una critica sociale che amplia la portata del canto oltre la dimensione puramente teologica. Dante utilizza l’exemplum di Nella per articolare una critica ai costumi della società fiorentina, creando un ponte tra la dimensione ultraterrena e quella terrena.
Infine, il percorso ascensionale lungo la montagna del Purgatorio simboleggia il graduale alleggerimento dell’anima, che si libera dal peso del peccato attraverso la sofferenza volontariamente accettata, preparandosi all’incontro con la beatitudine paradisiaca.
Figure retoriche nel Canto 23 Purgatorio della Divina Commedia
Il Canto 23 del Purgatorio si distingue per la ricchezza e varietà di figure retoriche che Dante impiega con straordinaria maestria per intensificare l’impatto emotivo e il significato allegorico della narrazione.
Le similitudini giocano un ruolo fondamentale nel rendere vivida l’esperienza del poeta. Nei versi iniziali, Dante paragona la sua attenzione concentrata a quella del cacciatore: “Come fa chi dietro a li uccellin sua vita perde” (v.3). Questa immagine comunica efficacemente la tensione e la curiosità del poeta verso ciò che sta per scoprire. Più avanti, la condizione fisica dei golosi viene illustrata attraverso potenti similitudini: “Parean l’occhiaie anella sanza gemme” (v.31), dove le orbite oculari incavate vengono assimilate ad anelli privi di pietre preziose, evocando un’immagine di vuoto e privazione.
Particolarmente significativo è l’uso degli ossimori, che riflettono la natura paradossale della purificazione purgatoriale. L’espressione “dolce assenzo d’i martìri” (v.86) unisce la dolcezza spirituale all’amarezza fisica del pentimento, evidenziando come la sofferenza purificatrice sia contemporaneamente dolorosa e desiderabile. Analogamente, la “fame onde convien che talor si mora” (v.44) rappresenta la necessaria morte del peccato attraverso la privazione.
Le metafore arricchiscono il tessuto simbolico del canto: la magrezza estrema delle anime diventa metafora visibile della privazione necessaria alla purificazione spirituale. Quando Dante scrive che nei volti delle anime si potrebbe facilmente riconoscere la lettera “emme” (v.33), utilizza un’immagine derivata dalla fisiognomica medievale per rappresentare concretamente la trasformazione fisica che riflette il processo interiore.
L’anafora compare in diversi passaggi, come nei versi in cui Forese descrive le preghiere della moglie Nella: “Con suoi prieghi devoti e con sospiri / tratto m’ha de la costa ove s’aspetta, / e liberato m’ha de li altri giri” (vv.88-90). La ripetizione di strutture sintattiche parallele intensifica il valore salvifico dell’intercessione.
Il linguaggio figurato si manifesta anche attraverso perifrasi ed epiteti, come quando Dante si riferisce indirettamente ai golosi come coloro che “di trottare è lasso” (v.7), suggerendo la fatica del percorso di purificazione. Il testo è inoltre arricchito da iperboli che enfatizzano la condizione estrema delle anime: “Già eran li occhi miei rifissi al volto / de la mia donna, e l’animo con essi, / e da ogne altro intento s’era tolto” (vv.34-36).
L’intertestualità biblica emerge nell’uso di citazioni latine, come “Labia mea, Domine” dal Salmo 50, che collega la condizione dei golosi alla tradizione penitenziale cristiana e arricchisce il significato teologico del canto.
Infine, Dante impiega interrogative retoriche (“Chi crederebbe che l’odor d’un pomo / sì governasse, generando brama…?” vv.34-35) per coinvolgere il lettore in una riflessione sul significato profondo della condizione dei purganti e sulla natura del contrappasso come strumento divino di giustizia e misericordia.
Temi principali del Canto 23 del Purgatorio della Divina Commedia
Nel Canto 23 del Purgatorio, Dante sviluppa temi teologici e morali di straordinaria profondità, costruendo un tessuto simbolico che collega la purificazione fisica alla redenzione spirituale. Il tema centrale è indubbiamente la purificazione dal vizio della gola, rappresentata attraverso un contrappasso che inverte la logica del peccato: chi in vita ha ecceduto nei piaceri della tavola, ora è costretto a una fame e una sete perpetue davanti a cibi e bevande irraggiungibili.
Questa condizione di privazione si trasforma in strumento di purificazione attiva, non mera punizione. Le anime dei golosi accettano volontariamente la loro sofferenza, consapevoli del suo valore redentivo: la fame che consuma i loro corpi fino a renderli irriconoscibili diventa metafora del desiderio di Dio che gradualmente sostituisce i desideri terreni. In questa dinamica si esprime la concezione dantesca della giustizia divina come manifestazione d’amore, non di vendetta.
Un secondo tema fondamentale è il valore salvifico della preghiera e dell’intercessione. Attraverso la figura di Forese, salvato dall’Inferno e accelerato nel suo percorso purgatoriale grazie alle preghiere della moglie Nella, Dante illustra la dottrina della comunione dei santi. Le lacrime e le suppliche dei vivi possono alleviare le pene dei defunti, creando un ponte d’amore tra i due mondi:
“Sì tosto m’ha condotto / a ber lo dolce assenzo d’i martìri / la Nella mia con suo pianger dirotto” (vv. 85-87).
L’ossimoro “dolce assenzo” (dolce assenzio) racchiude perfettamente questa tensione tra sofferenza e redenzione, tra l’amarezza della penitenza e la dolcezza della salvezza.
Il tema della critica ai costumi contemporanei emerge con forza nella condanna delle “sfacciate donne fiorentine” (v. 101), contrapposte alla virtù e alla modestia di Nella. Dante utilizza la voce di Forese per denunciare la decadenza morale della sua Firenze, in particolare la vanità e l’impudicizia femminile, preannunciando una futura punizione divina.
Questa critica si inserisce nella più ampia visione dantesca di una società corrotta che ha smarrito i valori cristiani, tema ricorrente nell’intera Commedia. L’austerità e la devozione di Nella rappresentano l’ideale morale contrapposto alla degenerazione dei costumi, dimostrando come la virtù individuale possa resistere anche in un contesto sociale decadente.
Infine, il canto esplora il tema della trasformazione interiore attraverso la sofferenza. Il corpo emaciato dei golosi diventa segno visibile di un processo invisibile: la progressiva liberazione dell’anima dai suoi attaccamenti terreni. La descrizione quasi anatomica della loro condizione fisica (“Parean l’occhiaie anella sanza gemme“, v. 31) non è mero esercizio retorico, ma rappresentazione allegorica del cammino spirituale verso la perfezione.
L’incontro tra Dante e Forese, segnato inizialmente dalla difficoltà del riconoscimento, simboleggia anche la trasformazione che la morte e la penitenza operano sull’identità umana: ciò che permane non è l’apparenza esteriore, ma l’essenza spirituale che si rivela attraverso la voce e il dialogo.
Il Canto 23 del Purgatorio in pillole
| Punto Chiave | Descrizione | Versi Chiave/Parafrasi | Significato |
|---|---|---|---|
| Ambientazione | Sesta cornice del Purgatorio dove si espiano i peccati di gola | “Mentre per la fronda verde miravo” (vv. 1-3) | Rappresenta il penultimo peccato legato all’incontinenza, precedente alla lussuria |
| Contrappasso | Le anime sono ridotte a scheletri consumati da fame e sete inestinguibili | “Parean l’occhiaie anella sanza gemme” (vv. 31-33) | La privazione fisica riflette l’eccesso corporale commesso in vita |
| Albero irraggiungibile | Albero carico di frutti che le anime non possono toccare | “Un alber che trovammo in mezza strada, con pomi a odorar soavi e buoni” (vv. 31-33) | Simboleggia la tentazione perpetua e richiama l’Albero del Paradiso Terrestre |
| Incontro con Forese | Dante riconosce l’amico ridotto a uno scheletro | “Questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia” (vv. 46-48) | L’amicizia terrena si trasforma in occasione di riflessione spirituale |
| Potere dell’intercessione | Le preghiere della moglie Nella hanno accelerato l’ingresso di Forese in Purgatorio | “Sì tosto m’ha condotto a ber lo dolce assenzo d’i martìri la Nella mia con suo pianger dirotto” (vv. 85-87) | Dimostra l’efficacia delle preghiere dei vivi per i defunti |
| Critica ai costumi | Forese condanna l’immodestia delle donne fiorentine | “Tempo futuro m’è già nel cospetto… l’andar mostrando con le poppe il petto” (vv. 98-102) | Evidenzia la decadenza morale di Firenze in contrasto con la virtù di Nella |
| Figure retoriche | Uso di ossimori, metafore e similitudini per rappresentare la condizione delle anime | “Dolce assenzo” (v. 86); “Chi nel viso degli uomini legge ‘omo’ ben avria quivi conosciuta l’emme” (vv. 32-33) | Mostrano la maestria linguistica di Dante nel fondere sofferenza fisica e significato spirituale |