Divina Commedia, Canto 24 Inferno: testo, parafrasi e commento

Divina Commedia, Canto 24 Inferno: testo, parafrasi e figure retoriche

Il Canto 24 dell’Inferno della Divina Commedia si distingue per la sua struttura narrativa complessa e per l’intenso valore allegorico che pervade ogni elemento del racconto. Il poeta fiorentino, nel suo immenso viaggio ultraterreno, ci conduce attraverso un paesaggio infernale dove i dannati, in questo caso i ladri, subiscono una punizione divina perfettamente calibrata alla natura delle loro colpe terrene.

Indice:

Canto 24 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi

Testo OriginaleParafrasi
In quella parte del giovinetto annoIn quella stagione dell’anno giovane
che ‘l sole i crin sotto l’Aquario temprain cui il sole riscalda i suoi raggi nella costellazione dell’Acquario
e già le notti al mezzo dì sen vanno,e le notti durano quanto la metà del giorno,
quando la brina in su la terra assempraquando la brina riproduce sulla terra
l’imagine di sua sorella bianca,l’immagine della sua sorella bianca (la neve),
ma poco dura a la sua penna tempra,ma la sua consistenza dura poco,
lo villanello a cui la roba manca,il contadino a cui mancano le provviste,
si leva, e guarda, e vede la campagnasi alza, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca,tutta bianca; per cui si batte il fianco,
ritorna in casa, e qua e là si lagna,ritorna a casa, e qua e là si lamenta,
come ‘l tapin che non sa che si faccia;come il poveretto che non sa cosa fare;
poi riede, e la speranza ringavagna,poi torna fuori, e riprende speranza,
veggendo ‘l mondo aver cangiata facciavedendo che il mondo ha cambiato aspetto
in poco d’ora, e prende suo vincastroin poco tempo, e prende il suo bastone
e fuor le pecorelle a pascer caccia.e spinge fuori le pecorelle a pascolare.
Così mi fece sbigottir lo mastroCosì mi fece spaventare il maestro (Virgilio)
quand’io il vidi sì turbar la fronte,quando lo vidi corrugare la fronte,
e così tosto al mal giunse lo ‘mpiastro;e così rapidamente al male arrivò il rimedio;
ché, come noi venimmo al guasto ponte,perché, quando arrivammo al ponte crollato,
lo duca a me si volse con quel pigliola mia guida si rivolse a me con quell’espressione
dolce ch’io vidi prima a piè del monte.dolce che gli avevo visto all’inizio del viaggio ai piedi del monte.
Le braccia aperse, dopo alcun consiglioAprì le braccia, dopo aver riflettuto un po’
eletto seco riguardando primae aver esaminato attentamente
ben la ruina, e diedemi di piglio.la frana, e mi afferrò.
E come quei ch’adopera ed estima,E come colui che opera e valuta,
che sempre par che ‘nnanzi si probeggia,che sembra sempre che preveda in anticipo cosa fare,
così, levando me sù ver’ la cimacosì, sollevandomi verso la cima
d’un ronchione, avvisava un’altra scheggiadi uno spuntone di roccia, individuava un’altra sporgenza
dicendo: «Sovra quella poi t’aggrappa;dicendo: «Poi aggrappati a quella;
ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia».ma prova prima se è in grado di reggerti».
Non era via da vestito di cappa,Non era un percorso adatto per chi indossa un mantello,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,perché noi a fatica, lui agile e io spinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa.potevamo salire di sporgenza in sporgenza.
E se non fosse che da quel precintoE se non fosse che da quella parete
più che da l’altro era la costa corta,la pendenza era più breve che dall’altro lato,
non so di lui, ma io sarei ben vinto.non so di lui, ma io sarei stato sicuramente sconfitto.
Ma perché Malebolge inver’ la portaMa poiché Malebolge verso la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,del pozzo più profondo è tutta in pendenza,
lo sito di ciascuna valle portala conformazione di ciascuna bolgia comporta
che l’una costa surge e l’altra scende;che una parete sale e l’altra scende;
noi pur venimmo al fine in su la puntanoi comunque giungemmo infine sulla cima
onde l’ultima pietra si scoscende.da cui si stacca l’ultima pietra.
La lena m’era del polmon sì muntaIl fiato mi era così esausto nei polmoni
quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre,quando fui in cima, che non potevo proseguire,
anzi m’assisi ne la prima giunta.anzi mi sedetti appena arrivato.
«Omai convien che tu così ti spoltre»,«Ormai conviene che tu ti liberi dalla pigrizia in questo modo»,
disse ‘l maestro; «ché, seggendo in piuma,disse il maestro; «perché, stando seduto su piume,
in fama non si vien, né sotto coltre;non si ottiene la fama, né standosene sotto le coperte;
sanza la qual chi sua vita consuma,senza la quale chi consuma la propria vita,
cotal vestigio in terra di sé lascia,lascia di sé sulla terra una traccia
qual fummo in aere e in acqua la schiuma.come il fumo nell’aria e la schiuma nell’acqua.
E però leva sù; vinci l’ambasciaE perciò alzati; vinci l’affanno
con l’animo che vince ogne battaglia,con lo spirito che vince ogni battaglia,
se col suo grave corpo non s’accascia.se non si abbatte sotto il peso del corpo.
Più lunga scala convien che si saglia;Una scala più lunga conviene che si salga;
non basta da costoro esser partito.non basta essere partiti da costoro (i dannati).
Se tu mi ‘ntendi, or fa sì che ti vaglia».Se mi capisci, fa’ in modo che ciò ti sia utile».
Leva’mi allor, mostrandomi fornitoMi alzai allora, mostrandomi dotato
meglio di lena ch’i’ non mi sentia,di più forza di quanta ne sentissi,
e dissi: «Va, ch’i’ son forte e ardito».e dissi: «Va’, ché sono forte e coraggioso».
Su per lo scoglio prendemmo la via,Su per lo scoglio prendemmo la via,
ch’era ronchioso, stretto e malagevole,che era scosceso, stretto e difficile,
ed erto più assai che quel di pria.e molto più ripido di quello precedente.
Parlando andava per non parer fievole;Andavo parlando per non sembrare debole;
onde una voce uscì de l’altro fosso,quando una voce uscì dall’altra bolgia,
a parole formar disconvenevole.inadeguata a formare parole comprensibili.
Non so che disse, ancor che sovra ‘l dossoNon so cosa disse, anche se ero sopra il dorso
fossi de l’arco già che varca quivi;dell’arco che attraversa quel punto;
ma chi parlava ad ire parea mosso.ma chi parlava sembrava mosso dall’ira.
Io era vòlto in giù, ma li occhi viviIo ero rivolto in giù, ma gli occhi attenti
non poteano ire al fondo per lo scuro;non potevano arrivare al fondo per l’oscurità;
per ch’io: «Maestro, fa che tu arriviperciò io dissi: «Maestro, fa’ in modo che tu giunga
da l’altro cinghio e dismontiam lo muro;sull’altro argine e scendiamo il muro;
ché, com’i’ odo quinci e non intendo,perché, come sento di qui e non capisco,
così giù veggio e neente affiguro».così vedo giù ma non distinguo nulla».
«Altra risposta», disse, «non ti rendo«Altra risposta», disse, «non ti do
se non lo far; ché la dimanda onestase non l’esecuzione; perché la richiesta giusta
si de’ seguir con l’opera tacendo».si deve seguire con l’azione tacendo».
Noi discendemmo il ponte da la testaNoi scendemmo il ponte dalla sommità
dove s’aggiugne con l’ottava ripa,dove si congiunge con l’ottava bolgia,
e poi mi fu la bolgia manifesta:e poi mi fu chiara la bolgia:
e vidivi entro terribile stipae vi vidi dentro un terribile ammasso
di serpenti, e di sì diversa menadi serpenti, e di così diversa specie
che la memoria il sangue ancor mi scipa.che il ricordo ancora mi agghiaccia il sangue.
Più non si vanti Libia con sua rena;Non si vanti più la Libia con la sua sabbia;
ché se chelidri, iaculi e fareeperché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,produce, e cencri con anfisbena,
né tante pestilenzie né sì reenon tante pestilenze né così malvagie
mostrò già mai con tutta l’Etiopiamostrò mai con tutta l’Etiopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.né con ciò che si trova sopra il Mar Rosso.
Tra questa cruda e tristissima copiaIn mezzo a questa crudele e tristissima quantità
corrìen genti nude e spaventate,correvano genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:senza sperare in un nascondiglio o nella pietra elitropia:
con serpi le man dietro avean legate;avevano le mani legate dietro con serpenti;
quelle ficcavan per le ren la codaquesti infilavano la coda attraverso i reni
e ‘l capo, ed eran dinanzi aggroppate.e il capo, ed erano annodati davanti.
Ed ecco a un ch’era da nostra proda,Ed ecco a uno che era dalla nostra parte,
s’avventò un serpente che ‘l trafissesi avventò un serpente che lo trafisse
là dove ‘l collo a le spalle s’annoda.là dove il collo si congiunge alle spalle.
Né O sì tosto mai né I si scrisse,Né O così rapidamente né I si scrisse,
com’el s’accese e arse, e cener tuttocome egli s’accese e arse, e completamente cenere
convenne che cascando divenisse;fu necessario che diventasse cadendo;
e poi che fu a terra sì distrutto,e dopo che fu a terra così distrutto,
la polver si raccolse per sé stessala polvere si raccolse spontaneamente
e ‘n quel medesmo ritornò di butto.e immediatamente tornò nella sua forma originaria.
Così per li gran savi si confessaCosì dai grandi sapienti si afferma
che la fenice more e poi rinasce,che la fenice muore e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;quando si avvicina al cinquecentesimo anno;
erba né biado in sua vita non pasce,erbe né grano in vita sua non mangia,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,ma solo lacrime d’incenso e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce.e nardo e mirra sono le sue ultime fasce.
E qual è quel che cade, e non sa como,E come colui che cade, e non sa come,
per forza di demon ch’a terra il tira,per forza di demonio che lo attira a terra,
o d’altra oppilazion che lega l’omo,o di altro blocco che impedisce all’uomo di muoversi,
quando si leva, che ‘ntorno si miraquando si alza, che si guarda intorno
tutto smarrito de la grande angosciacompletamente smarrito dalla grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:che ha sofferto, e guardando sospira:
tal era il peccator levato poscia.tale era il peccatore alzatosi poi.
Oh potenza di Dio, quant’è severa,Oh potenza di Dio, quanto è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!che simili colpi per vendetta abbatte!
Lo duca il domandò poi chi ello era;La guida gli domandò poi chi egli fosse;
per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,ed egli rispose: «Io caddi dalla Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.poco tempo fa, in questa feroce gola.
Vita bestial mi piacque e non umana,La vita bestiale mi piacque e non quella umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucciproprio come la mula che fui; sono Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana».bestia, e Pistoia fu una tana degna di me».
E io al duca: «Dilli che non mucci,E io alla guida: «Digli che non scappi,
e domanda che colpa qua giù ‘l pinse;e domandagli quale colpa lo spinse quaggiù;
ch’io ‘l vidi uomo di sangue e di crucci».che io lo vidi uomo sanguinario e iracondo».
E ‘l peccator, che ‘ntese, non s’infinse,E il peccatore, che capì, non finse,
ma drizzò verso me l’animo e ‘l volto,ma rivolse verso di me l’animo e il volto,
e di trista vergogna si dipinse;e di triste vergogna si colorò;
poi disse: «Più mi duol che tu m’hai coltopoi disse: «Più mi duole che tu mi abbia trovato
ne la miseria dove tu mi vedi,nella miseria in cui mi vedi,
che quando fui de l’altra vita tolto.che quando fui strappato dall’altra vita.
Io non posso negar quel che tu chiedi;Io non posso negare ciò che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’io fuisono messo così in basso perché fui
ladro a la sagrestia d’i belli arredi,ladro nella sagrestia dei bei paramenti,
e falsamente già fu apposto altrui.e falsamente fu già imputato ad altri.
Ma perché di tal vista tu non godi,Ma perché tu non goda di tale vista,
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,se mai uscirai dai luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi.apri le orecchie al mio annuncio, e ascolta.
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;Pistoia prima si spopola dei Neri;
poi Fiorenza rinova gente e modi.poi Firenze rinnova abitanti e costumi.
Tragge Marte vapor di Val di MagraMarte trae un vapore dalla Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto;che è avvolto da torbide nubi;
e con tempesta impetuosa e agrae con tempesta impetuosa e aspra
sovra Campo Picen fia combattuto;sarà combattuto sopra Campo Piceno;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,per cui improvvisamente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.così che ogni Bianco ne sarà ferito.
E detto l’ho perché doler ti debbia!».E l’ho detto perché tu ne debba soffrire!».

Canto 24 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione

Il Canto 24 dell’Inferno si apre con una delle similitudini più estese e complesse dell’intera Divina Commedia. Dante paragona il cambiamento dell’espressione di Virgilio – da corrucciata a benevola – al contadino che, dopo aver temuto per il gelo invernale che minaccia le sue coltivazioni, vede con sollievo i primi segni della primavera. Questa similitudine stagionale serve da preambolo al difficile percorso che i due poeti devono affrontare.

Dopo aver lasciato la sesta bolgia, dove sono puniti gli ipocriti, Dante e Virgilio si trovano di fronte a un’ardua scalata per raggiungere il ponte sulla settima bolgia. Il cammino è impervio, tanto che Dante confessa di non poter procedere senza l’aiuto della sua guida. Virgilio lo incoraggia con parole severe ma motivanti, ricordandogli che “non con lo stare, ma col perseverare si consegue la fama” – un concetto centrale nel percorso di redenzione morale rappresentato dal viaggio infernale.

Superato il ponte, i due poeti si affacciano sulla settima bolgia, riservata ai ladri. Il paesaggio infernale che si presenta ai loro occhi è terrificante: una valle oscura brulicante di serpenti di ogni specie e forma. Dante impiega una potente iperbole per descrivere questa visione, affermando che neppure i deserti della Libia o dell’Etiopia, famosi per la pericolosità dei loro rettili, possono vantare una simile concentrazione di “pestilenze”.

In questo scenario angosciante, i dannati corrono nudi e terrorizzati, senza speranza di trovare rifugio o scampo dai morsi velenosi. Il contrappasso è evidente: coloro che in vita si sono insinuati furtivamente nelle proprietà altrui per rubare, nell’eternità sono privi di qualsiasi riparo e costantemente esposti all’attacco dei serpenti, che simboleggiano la natura subdola e nascosta del loro peccato.

La punizione divina si manifesta in forma ancora più drammatica quando Dante assiste alla trasformazione di un dannato: morso da un serpente, questi si incendia, si riduce in cenere e poi miracolosamente risorge nella sua forma originaria. Come la fenice che rinasce dalle proprie ceneri, il ladro è condannato a un ciclo infinito di distruzione e rinascita, simboleggiando l’annientamento dell’identità che il furto comporta.

L’attenzione si concentra poi su una figura specifica: un dannato che, dopo essere stato colpito da un serpente alla gola, si incendia e crolla a terra ridotto in cenere, per poi riformarsi rapidamente. Dante riconosce in lui Vanni Fucci, noto come “bestia” per la sua indole violenta, originario di Pistoia. Con riluttanza, Vanni confessa di essere stato condannato per aver rubato gli arredi sacri dalla sagrestia del Duomo di Pistoia, crimine per il quale era stato ingiustamente accusato un altro.

Il canto si conclude con Vanni Fucci che, amareggiato per essere stato riconosciuto in tale condizione di vergogna, preannuncia a Dante funeste profezie politiche riguardanti l’espulsione dei Bianchi (la fazione di Dante) da Firenze, terminando con un gesto blasfemo contro Dio.

Questa struttura narrativa, che unisce descrizioni vivide, incontri drammatici e profezie politiche, esemplifica perfettamente il metodo compositivo di Dante: trasformare l’esperienza personale e politica in un viaggio allegorico con valenza universale, dove la giustizia divina punisce i peccati secondo l’infallibile legge del contrappasso.

Canto 24 Inferno della Divina Commedia: i personaggi

Nel canto 24 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante presenta una galleria di personaggi che incarnano diversi aspetti della condizione umana e della giustizia divina. Questi personaggi si muovono nell’ambiente della settima bolgia, dove vengono puniti i ladri attraverso un contrappasso che riflette la natura del loro peccato.

Vanni Fucci: il ladro bestiale

Il protagonista indiscusso del canto è Vanni Fucci, figura storica che Dante conosceva personalmente. Pistoiese di nascita e di nobile origine, Vanni si autodefinisce “bestia” e confessa che in vita gli piacque “la vita bestial”. Questa autopresentazione rivela la degradazione morale di un uomo ridotto alla condizione animale dal proprio peccato.

Vanni Fucci rappresenta il prototipo del ladro sacrilego, colpevole di aver sottratto gli arredi sacri dalla sagrestia del Duomo di San Zeno a Pistoia. La gravità del suo crimine è accentuata dal fatto che del furto fu accusato ingiustamente un altro uomo. Questa dimensione di menzogna e ingiustizia aggrava ulteriormente la sua colpa agli occhi di Dante.

Particolarmente significativa è la reazione di Vanni all’essere riconosciuto dal poeta: la vergogna si mescola all’orgoglio irredento. Costretto a confessare il proprio peccato, Vanni cerca vendetta preannunciando a Dante le sventure politiche che colpiranno la sua parte, i Bianchi, con una profezia amara:

“Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui […]
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.”

Questa profezia, intrisa di rancore, rivela come il peccatore mantenga nella dannazione lo stesso orgoglio e la stessa malignità che ne caratterizzavano la vita terrena. Il canto successivo mostrerà anche un gesto blasfemo contro Dio, a conferma della sua impenitenza.

Dante personaggio

Il Dante personaggio si presenta in questo canto con tratti di vulnerabilità e umanità. Lo vediamo inizialmente affaticato dalla difficile salita, poi timoroso dei serpenti infernali. La sua reazione all’incontro con Vanni Fucci è particolarmente significativa: prova vergogna nel riconoscere un concittadino toscano in quella condizione degradata.

Significativo è anche il fatto che Dante non conoscesse la vera natura criminale di Vanni, avendolo considerato “uom di sangue e di crucci” (uomo violento e irascibile) ma non ladro. Questo dettaglio sottolinea come l’apparenza possa ingannare e come il giudizio divino riveli la vera natura degli individui.

Virgilio

Virgilio appare in questo canto come guida paziente e incoraggiante. Il suo ruolo è particolarmente evidente all’inizio, quando sprona Dante a superare la fatica della salita con parole memorabili:

“Omai convien che tu così ti spoltre […]
ché seggendo in piuma
in fama non si vien, né sotto coltre.”

Questa esortazione rivela la funzione pedagogica di Virgilio, che rappresenta la ragione umana capace di guidare l’anima verso la comprensione morale. Il suo atteggiamento passa dall’iniziale severità a una benevola soddisfazione quando Dante riesce a superare l’ostacolo.

È significativo come Virgilio protegga Dante dai pericoli della bolgia, aiutandolo a osservare le punizioni senza esserne coinvolto. Questo atteggiamento protettivo simboleggia il ruolo della ragione nel permettere l’osservazione del male senza esserne contaminati.

I dannati anonimi

Oltre a Vanni Fucci, il canto presenta una moltitudine di dannati anonimi che popolano la settima bolgia. Questi ladri corrono nudi e terrorizzati, inseguiti da serpenti che, mordendoli, provocano la loro disintegrazione in cenere e successiva ricomposizione in un ciclo eterno di morte e rinascita perversa. La loro condizione riflette perfettamente la natura del peccato di furto: come in vita si appropriarono indebitamente di ciò che apparteneva ad altri, così nell’eternità sono privati persino della propria forma umana, in un perenne stato di terrore e vulnerabilità.

Analisi del Canto 24 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi

Il canto 24 dell’Inferno della Divina Commedia si distingue per la sua struttura allegorica complessa e per la profondità dei suoi elementi tematici. Al centro dell’impianto narrativo si colloca il contrappasso, principio cardine della giustizia divina, che si manifesta in modo particolarmente emblematico nella punizione dei ladri.

Il contrappasso che regola la settima bolgia presenta una straordinaria corrispondenza tra colpa e pena: i ladri, che in vita si appropriarono indebitamente di beni altrui, nell’aldilà sono privati della propria identità fisica e personale. Le continue metamorfosi provocate dai morsi dei serpenti rappresentano simbolicamente la dissoluzione dell’individuo che, appropriandosi dell’altrui, finisce per perdere se stesso. Questa trasformazione non è solo fisica ma ontologica: il ladro che viola i confini proprietari altrui subisce la violazione dei propri confini corporei.

La progressione drammatica del canto è sapientemente costruita da Dante, che modula il ritmo narrativo attraverso sequenze chiaramente distinguibili:

  • L’apertura contemplativa con la similitudine stagionale, che introduce una riflessione sul valore della perseveranza
  • La faticosa salita, simbolo del percorso di elevazione morale
  • Lo spettacolo terrificante dei serpenti e dei dannati in fuga
  • L’incontro drammatico con Vanni Fucci, punto culminante del canto
  • La profezia politica che prelude alla blasfemia finale

Questa struttura narrativa riflette il percorso di comprensione morale che il pellegrino compie, espressione letteraria del cammino spirituale dell’uomo verso la verità.

Il tema dell’identità perduta attraversa l’intero canto. I ladri, nudi e terrorizzati, hanno perso non solo gli averi terreni, ma ogni tratto distintivo umano. La nudità rappresenta sia l’esposizione totale alla punizione, sia la perdita di quell’identità sociale che in vita avevano cercato di acquisire attraverso i beni rubati. I serpenti, che causano la trasformazione, simboleggiano sia il peccato originale sia la natura stessa del furto: furtivo, sinuoso, capace di contaminare irreversibilmente.

Particolarmente significativo è l’aspetto teologico della rappresentazione. Il furto viene presentato da Dante come una colpa che sovverte l’ordine divino. Nella visione tomistica che permea la Commedia, ogni violazione della proprietà altrui rappresenta un’offesa al progetto divino di giustizia distributiva. Non è casuale che Vanni Fucci sia colpevole di un furto sacrilego, che unisce l’offesa alla proprietà e quella alla sfera sacra.

Al livello narrativo, la figura di Virgilio assume in questo canto un valore paradigmatico. La sua esortazione alla perseveranza (“Ormai convien che tu così ti spoltre”) anticipa il tema del libero arbitrio che sarà centrale nel Purgatorio. La guida razionale rappresentata dal poeta latino mostra i suoi limiti ma anche la sua indispensabile funzione nel percorso di redenzione.

La tensione tra elevatezza morale e caduta peccaminosa viene ulteriormente enfatizzata dalla struttura stessa della bolgia: una valle profonda che richiede una discesa e poi una faticosa risalita, metafora perfetta del percorso spirituale che richiede la consapevolezza del peccato per potersene allontanare. Questo gioco di salite e discese, presente in tutto l’Inferno, raggiunge qui uno dei suoi momenti più espliciti e simbolicamente connotati.

Figure retoriche nel Canto 24 dell’Inferno della Divina Commedia

Il Canto 24 dell’Inferno della Divina Commedia è un capolavoro retorico in cui Dante dispiega un’ampia gamma di figure stilistiche per intensificare l’impatto emotivo e simbolico della narrazione. L’apertura del canto presenta una delle similitudini più elaborate dell’intera opera, estesa per ben ventuno versi, dove il poeta paragona il mutamento d’umore di Virgilio alle trasformazioni stagionali:

“In quella parte del giovinetto anno / che ‘l sole i crin sotto l’Aquario tempra / e già le notti al mezzo dì sen vanno”, dove troviamo personificazione (“giovinetto anno”), metonimia (“crin” per i raggi solari) e una delicata metafora astronomica.

Le similitudini sono le figure retoriche predominanti. Particolarmente efficace è il paragone tra il dannato che si trasforma in cenere e rinasce e la leggendaria fenice: “Così per li gran savi si confessa / che la fenice more e poi rinasce, / quando al cinquecentesimo anno appressa”. Questa similitudine amplifica il carattere soprannaturale della punizione divina, trasformando un mito di rinascita in simbolo di eterna dannazione.

Altrettanto potente è la similitudine del ramarro: “Come ‘l ramarro sotto la gran fersa / dei dì canicular, cangiando siepe, / folgore par se la via attraversa”, dove il movimento fulmineo del rettile evoca la disperata fuga dei dannati.

Dante impiega magistralmente l’iperbole per accentuare l’orrore della bolgia dei serpenti: “Più non si vanti Libia con sua rena”, affermando che nemmeno i deserti più pericolosi della Terra possono competere con l’infestazione di rettili della settima bolgia.

L’enumerazione erudita delle specie di serpenti (“ché se chelidri, iaculi e faree / produce, e cencri con anfisibena”) non è mero sfoggio di cultura ma intensifica l’atmosfera opprimente attraverso l’accumulo lessicale.

L’allitterazione appare in passaggi cruciali come “li occhi mi sciolse e disse: ‘Or drizza il nerbo / del viso su per quella schiuma antica’”, dove la ripetizione delle consonanti “s” e “c” crea un effetto fonico che richiama il sibilo dei serpenti.

Particolarmente significativo è l’uso dell’enjambement, che frammenta il verso creando tensione ritmica: “Io non posso negar quel che tu chiedi; / in giù son messo tanto perch’io fui / ladro a la sacrestia d’i belli arredi”. Questa spezzatura sintattica riproduce efficacemente l’angoscia e l’esitazione di Vanni Fucci.

Le antitesi punteggiano il canto evidenziando contrasti morali: “e falsamente già fu apposto altrui” contrappone verità e menzogna, mentre l’ossimoro implicito nella condizione dei dannati (morti viventi che continuamente muoiono e rinascono) sottolinea la natura paradossale della punizione eterna.

Le perifrasi arricchiscono il tessuto poetico: “in giù son messo tanto” per indicare la collocazione infernale, e “se mai sarai di fuor da’ luoghi bui” per alludere all’eventuale uscita di Dante dall’Inferno.

Le metafore di trasformazione, come quella della cenere che si ricompone in uomo (“poi riassemblato comminciai a scampar via”), evocano visivamente il contrappasso che colpisce i ladri, privati persino della stabilità della loro forma corporea.

Queste figure retoriche non sono meri ornamenti stilistici, ma strumenti essenziali attraverso cui Dante concretizza l’astratto, rende visibile l’invisibile e trasforma concetti teologici in potenti immagini poetiche. La loro funzione è duplice: intensificare l’esperienza emotiva del lettore e veicolare il messaggio morale con maggiore efficacia, rendendo tangibile l’orrore della punizione divina e la gravità del peccato di furto.

Temi principali del 24 canto dell’Inferno della Divina Commedia

Nel canto 24 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante elabora diversi temi fondamentali che si intrecciano con la struttura morale dell’intero poema. La rappresentazione della settima bolgia offre uno spaccato significativo della visione dantesca del peccato e della giustizia divina.

Il tema del furto come violazione dell’ordine morale si manifesta in tutta la sua gravità. Dante concepisce il furto non semplicemente come appropriazione indebita di beni materiali, ma come una trasgressione che sovverte l’ordine naturale e sociale stabilito da Dio. Il ladro viola i confini che determinano l’identità individuale e collettiva, appropriandosi di ciò che non gli appartiene e perturbando così l’armonia della comunità. Particolarmente emblematico è il caso di Vanni Fucci, colpevole di furto sacrilego, che rappresenta la massima espressione di questa violazione: non solo ha sottratto beni altrui, ma ha profanato il sacro, aggravando ulteriormente la sua colpa.

Strettamente legato a questo è il tema della degradazione dell’uomo attraverso il peccato. I ladri, correndo nudi e terrorizzati, mostrano una condizione di abbrutimento che cancella i tratti di umanità e dignità. La metamorfosi provocata dal morso dei serpenti simboleggia la perdita dell’identità umana causata dal peccato: chi in vita ha violato l’identità altrui appropriandosi dei suoi beni, nell’eternità perde la propria forma e il proprio essere. Questo processo di disumanizzazione raggiunge il culmine nel personaggio di Vanni Fucci, che si autodefinisce “bestia”, rivelando la regressione a uno stato sub-umano.

Centrale è anche il tema della giustizia divina manifestata attraverso il contrappasso. La punizione dei ladri rispecchia perfettamente la natura del loro peccato: come in vita si sono insinuati furtivamente per rubare, così nell’Inferno sono inseguiti dai serpenti che si insinuano nei loro corpi; come hanno sottratto l’altrui, così viene loro sottratta la forma umana. Il ciclo continuo di dissoluzione e ricomposizione del corpo rappresenta la ripetizione ossessiva del peccato e la perpetua instabilità che il ladro ha creato nell’ordine sociale.

Il canto elabora anche il tema della profezia come strumento di verità. L’annuncio di sventura che Vanni Fucci rivolge a Dante non è solo un elemento narrativo che collega la finzione poetica alla realtà storica, ma rappresenta anche la manifestazione della verità divina che si impone anche attraverso i dannati, costretti a riconoscere e rivelare ciò che vorrebbero celare. La profezia diventa così uno strumento di rivelazione morale che collega il destino individuale alle dinamiche storiche collettive.

Infine, emerge il tema della perseveranza nel cammino spirituale, simboleggiata dalla difficile salita che Dante e Virgilio devono affrontare all’inizio del canto. Questa fatica fisica è metafora dello sforzo morale necessario per comprendere e superare il peccato. L’esortazione di Virgilio a non arrendersi di fronte alle difficoltà rappresenta il valore della costanza nel percorso di purificazione spirituale, anticipando tematiche che troveranno pieno sviluppo nel Purgatorio.

Il Canto 24 dell’Inferno in pillole

ElementoDescrizione
RiassuntoDante e Virgilio affrontano una difficile salita verso la settima bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i ladri. Questi dannati corrono nudi, terrorizzati da serpenti che li mordono trasformandoli in cenere, da cui rinascono ciclicamente. Incontrano Vanni Fucci, nobile pistoiese colpevole del furto degli arredi sacri nella sagrestia di San Zeno, che profetizza sventure politiche per Dante e i Guelfi Bianchi.
PersonaggiDante: pellegrino in cammino attraverso l’oltretomba, guidato dalla ragione e dal desiderio di redenzione.
Virgilio: guida razionale che incita Dante alla perseveranza e lo aiuta a superare le difficoltà del percorso.
Vanni Fucci: ladro sacrilego pistoiese, orgoglioso anche nella dannazione, che confessa controvoglia il proprio peccato e annuncia profezie negative per ferire Dante.
Elementi narrativiLa narrazione segue una progressione drammatica che parte dalla similitudine contemplativa iniziale, attraversa la difficile salita e il terrore dei serpenti, fino a culminare nell’incontro con Vanni Fucci e nella sua profezia minacciosa. La tensione narrativa cresce gradualmente, sostenuta da vivide descrizioni e da un ritmo incalzante.
Figure retoricheSimilitudini: contadino e brina (vv. 1-21), ramarro che attraversa il sentiero (vv. 79-84).
Metafore: la fenice per la rinascita dei dannati, la “penna tempra” della brina.
Iperboli: l’esagerazione dei serpenti infernali rispetto a quelli terrestri.
Allitterazioni: nei versi che descrivono i movimenti frenetici dei dannati.
Enjambement: frequenti, per riprodurre il movimento convulso dei dannati.
TemiContrappasso: i ladri, che si appropriarono dei beni altrui, sono privati persino della loro identità fisica.
Giustizia divina: la punizione perfettamente calibrata alla natura del peccato.
Perdita dell’identità: conseguenza simbolica del furto, che viola i confini naturali e morali.
Metamorfosi: simbolo della degradazione umana causata dal peccato.
Perseveranza: necessaria nel cammino di purificazione spirituale, come insegna Virgilio.

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