Il Canto 24 del Purgatorio rappresenta un momento fondamentale nel percorso di purificazione che Dante affronta nella seconda cantica della Divina Commedia. Ambientato nella sesta cornice, dove le anime dei golosi si purificano attraverso fame e sete, questo canto si distingue per l’importante incontro con il poeta Bonagiunta Orbicciani e per la celebre definizione del “dolce stil novo” che segna un passaggio cruciale nell’evoluzione poetica e spirituale di Dante.
Indice:
- Canto 24 Purgatorio della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 24 Purgatorio della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 24 Purgatorio della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 24 Purgatorio: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 24 Purgatorio della Divina Commedia
- Temi principali del 24 Canto del Purgatorio della Divina Commedia
- Il Canto 24 del Purgatorio in pillole
Canto 24 Purgatorio della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
| Testo originale | Parafrasi |
|---|---|
| Né ‘l dir l’andar, né l’andar lui più lento / facea, ma ragionando andavam forte, / sì come nave pinta da buon vento; | Né il parlare rallentava il camminare, né il camminare rallentava il parlare, ma procedevamo velocemente discorrendo, come una nave spinta da un vento favorevole; |
| e l’ombre, che parean cose rimorte, / per le fosse degli occhi ammirazione / traean di me, di mio vivere accorte. | e le anime, che sembravano quasi morte una seconda volta tanto erano magre, mostravano stupore attraverso le cavità dei loro occhi, essendosi accorte che ero vivo. |
| E io, continuando al mio sermone, / dissi: «Ella sen va sù forse più tarda / che non farebbe, per altrui cagione. | E io, continuando il mio discorso, dissi: «Forse ella (Beatrice) sale verso l’alto più lentamente di quanto farebbe, per causa di qualcun altro. |
| Ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda; / dimmi s’io veggio da notar persona / tra questa gente che sì mi riguarda». | Ma dimmi, se lo sai, dove si trova Piccarda; dimmi se vedo qualche persona degna di nota tra questa gente che mi osserva così attentamente». |
| «La mia sorella, che tra bella e buona / non so qual fosse più, triunfa lieta / ne l’alto Olimpo già di sua corona». | «Mia sorella, della quale non so dire se fosse più bella o buona, trionfa già felice nell’alto Paradiso con la sua corona di gloria». |
| Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta / di nominar ciascun, da ch’è sì munta / nostra sembianza via per la dieta. | Così disse prima; e poi aggiunse: «Qui non è proibito nominare ciascuno, poiché il nostro aspetto è così emaciato a causa del digiuno. |
| Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta, / Bonagiunta da Lucca; e quella faccia / di là da lui più che l’altre trapunta, | Questi», e indicò col dito, «è Bonagiunta, Bonagiunta da Lucca; e quel volto oltre lui, più scavato degli altri, |
| ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: / dal Torso fu, e purga per digiuno / l’anguille di Bolsena e la vernaccia». | tenne la Santa Chiesa tra le sue braccia: fu originario di Tours, e purga col digiuno le anguille del lago di Bolsena cucinate nella vernaccia (un tipo di vino)». |
| Molti altri mi nomò ad uno ad uno; / e del nomar parean tutti contenti, / sì ch’io però non vidi un atto bruno. | Mi nominò molti altri uno per uno; e tutti sembravano contenti di essere nominati, tanto che non vidi alcun segno di disappunto. |
| Vidi per fame a vòto usar li denti / Ubaldin da la Pila e Bonifazio / che pasturò col rocco molte genti. | Vidi per la fame masticare a vuoto Ubaldino della Pila e Bonifazio (vescovo di Ravenna) che guidò col pastorale molte persone. |
| Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio / già di bere a Forlì con men secchezza, / e sì fu tal, che non si sentì sazio. | Vidi messer Marchese, che un tempo a Forlì poté bere con meno arsura, e fu tale che non si sentì mai sazio. |
| Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza / più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca, / che più parea di me aver contezza. | Ma come fa chi osserva e poi apprezza uno più di un altro, io feci con quel lucchese (Bonagiunta), che sembrava avere maggiore conoscenza di me. |
| El mormorava; e non so che «Gentucca» / sentiv’io là, ov’el sentia la piaga / de la giustizia che sì li pilucca. | Egli mormorava; e non so che «Gentucca» sentivo io là, dove egli percepiva la piaga della giustizia divina che così lo tormentava. |
| «O anima», diss’io, «che par sì vaga / di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda, / e te e me col tuo parlare appaga». | «O anima», dissi io, «che sembri così desiderosa di parlare con me, fa’ in modo che io ti comprenda, e soddisfa te e me col tuo parlare». |
| «Femmina è nata, e non porta ancor benda», / cominciò el, «che ti farà piacere / la mia città, come ch’om la riprenda. | «È nata una donna, e non porta ancora il velo da sposa», iniziò egli, «che ti farà apprezzare la mia città (Lucca), per quanto possa essere biasimata. |
| Tu te n’andrai con questo antivedere: / se nel mio mormorar prendesti errore, / dichiareranti ancor le cose vere. | Te ne andrai con questa premonizione: se nelle mie parole sussurrate coglierai un errore, gli eventi veri te lo renderanno chiaro. |
| Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’». | Ma dimmi se vedo qui colui che compose le nove rime, iniziando con ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’». |
| E io a lui: «I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando». | E io a lui: «Io sono uno che, quando Amore mi ispira, prende nota, e in quel modo esprime ciò che egli desta dentro di me». |
| «O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo / che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo! | «O fratello, ora vedo», disse egli, «il nodo che trattenne me, il Notaio (Jacopo da Lentini) e Guittone, lontani dal dolce stil novo che ora ascolto! |
| Io veggio ben come le vostre penne / di retro al dittator sen vanno strette, / che de le nostre certo non avvenne; | Vedo bene come le vostre penne, seguendo fedelmente ciò che detta il cuore, non abbiano fatto come le nostre; |
| e qual più a gradire oltre si mette, / non vede più da l’uno a l’altro stilo»; / e, quasi contentato, si tacette. | e chi si spinge a giudicare oltre, non vede la differenza tra l’uno e l’altro stile»; e, come soddisfatto, tacque. |
| Come li augei che vernan lungo ‘l Nilo, / alcuna volta in aere fanno schiera, / poi volan più a fretta e vanno in filo, | Come gli uccelli che svernano lungo il Nilo, a volte formano uno schieramento in aria, poi volano più velocemente e procedono in fila, |
| così tutta la gente che lì era, / volgendo ‘l viso, raffrettò suo passo, / e per magrezza e per voler leggera. | così tutta la gente presente, volgendo il viso, accelerò il passo, resa leggera dalla magrezza e dalla volontà. |
| E come l’uom che di trottare è lasso, / lascia andar li compagni, e sì passeggia / fin che si sfoghi l’affollar del casso, | E come l’uomo stanco di correre lascia andare i compagni e cammina piano finché l’ansia del petto si placa, |
| sì lasciò trapassar la santa greggia / Forese, e dietro meco sen veniva, / dicendo: «Quando fia ch’io ti riveggia?». | così Forese lasciò passare la santa schiera e veniva dietro di me, dicendo: «Quando sarà che ti rivedrò?». |
| «Non so», rispuos’io lui, «quant’io mi viva; / ma già non fia il tornar mio tantosto, / ch’io non sia col voler prima a la riva; | «Non so», gli risposi, «per quanto tempo vivrò; ma il mio ritorno (la mia morte) non sarà tanto vicino da non essere spinto, prima dal desiderio, ad essere sulla riva; |
| però che ‘l loco u’ fui a viver posto, / di giorno in giorno più di ben si spolpa, / e a trista ruina par disposto». | perché il luogo dove fui posto (Firenze) ogni giorno si spoglia sempre più del bene, e sembra destinato a una triste rovina». |
| «Or va», diss’el; «che quei che più n’ha colpa, / vegg’io a coda d’una bestia tratto / inver’ la valle ove mai non si scolpa. | «Ora va’», disse egli; «poiché colui che ha il maggior debito lo vedo trascinato alla coda di una bestia, verso la valle (dell’Inferno) dove non c’è mai assoluzione. |
| La bestia ad ogne passo va più ratto, / crescendo sempre, fin ch’ella il percuote, / e lascia il corpo vilmente desfatto. | La bestia ad ogni passo accelera, crescendo sempre, fino a colpire, lasciando il corpo vilmente disfatto. |
| Non hanno molto a volger quelle ruote», / e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiaro / ciò che ‘l mio dir più dichiarar non puote. | Non hanno molta rotazione quelle ruote», e alzò gli occhi al cielo, «prima che ti sia chiaro ciò che il mio dire non può spiegare ulteriormente. |
| Tu ti rimani omai; ché ‘l tempo è caro / in questo regno, sì ch’io perdo troppo / venendo teco sì a paro a paro». | Tu resta pure qui; perché il tempo è prezioso in questo regno, tanto che io perdo troppo nel venirti accanto, passo dopo passo». |
| Qual esce alcuna volta di gualoppo / lo cavalier di schiera che cavalchi, / e va per farsi onor del primo intoppo, | Come talvolta esce in galoppo il cavaliere dalla schiera, per guadagnarsi onore al primo scontro, |
| tal si partì da noi con maggior valchi; / e io rimasi in via con esso i due / che fuor del mondo sì gran marescalchi. | così si allontanò da noi con passi più larghi; e io rimasi in cammino con quei due (Virgilio e Stazio) che furono nel mondo così grandi maestri. |
| E quando innanzi a noi intrato fue, / che li occhi miei si fero a lui seguaci, / come la mente a le parole sue, | E quando egli fu avanzato davanti a noi, tanto che i miei occhi divennero suoi seguaci, come la mente alle sue parole, |
| parvermi i rami gravidi e vivaci / d’un altro pomo, e non molto lontani / per esser pur allora vòlto in laci. | mi apparvero i rami carichi e rigogliosi di un altro albero, e non molto distanti, essendo proprio in quella direzione. |
| Vidi gent’under l’ombra alzar le mani / e gridar non so che verso le fronde, / quasi bramosi fantolini e vani, | Vidi gente sotto l’ombra alzare le mani e gridare in modo indefinito verso le fronde, come bambini affamati e vanagloriosi, |
| che pregano, e ‘l pregato non risponde, / ma, per fare esser ben la voglia acuta, / tien alto lor disio e nol nasconde. | che pregano e chi è pregato non risponde, ma, per rendere il desiderio più vivo, tiene alto l’oggetto del loro anelito e non lo nasconde. |
| Poi si partì sì come ricreduta; / e noi venimmo al grande arbore adesso, / che tanti prieghi e lagrime rifiuta. | Poi se ne andò come se avesse cambiato idea; e noi giungemmo immediatamente al grande albero, che rifiuta tante suppliche e lacrime. |
| «Trapassate oltre sanza farvi presso: / legno è più sù che fu morso da Eva, / e questa pianta si levò da esso». | «Passate oltre senza avvicinarvi: c’è un albero più in alto, che fu morso da Eva, e da esso questa pianta ha avuto origine». |
| Sì tra le frasche non so chi diceva; / per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, / oltre andavam dal lato che si leva. | Così, tra le frasche, qualcuno diceva; per cui Virgilio, Stazio ed io, ristretti, procedevamo oltre dal lato che s’innalza. |
| «Ricordivi», dicea, «d’i maladetti / nei nuvoli formati, che, satolli, / Teseo combatter co’ doppi petti; | «Ricordatevi», diceva, «dei maledetti formati nelle nuvole, che, sazi, combatterono contro Teseo con i loro doppi petti; |
| e de li Ebrei ch’al ber si mostrar molli, / per che no i wolle Gedeon compagni, / quando ver’ Madïan discese i colli». | e degli Ebrei che, nel bere, si mostrarono remissivi, per cui Gedeone non li volle come compagni, quando sui colli discese verso Madian». |
| Sì accostati a l’un d’i due vivagni / passammo, udendo colpe de la gola / seguite già da miseri guadagni. | Così, avvicinandoci a uno dei due margini, continuammo il cammino, udivo le pene della gola seguite da misere ricompense. |
| Poi, rallargati per la strada sola, / ben mille passi e più ci portar oltre, / contemplando ciascun sanza parola. | Poi, allargandoci lungo la strada solitaria, percorremmo ben mille passi o più, contemplando ciascuno in silenzio. |
| «Che andate pensando sì voi sol tre?». / súbita voce disse; ond’io mi scossi / come fan bestie spaventate e poltre. | «A cosa state pensando, voi tre soli?», disse improvvisamente una voce; e io mi scossi come una bestia spaventata e impaurita. |
| Drizzai la testa per veder chi fossi; / e già mai non si videro in fornace / vetri o metalli sì lucenti e rossi, | Alzai la testa per vedere chi parlava; e mai non si videro in una fornace vetri o metalli così lucenti e rossi, |
| com’io vidi un che dicea: «S’a voi piace / montare in sù, qui si convien dar volta; / quinci si va chi vuole andar per pace». | come vidi uno che diceva: «Se vi piace salire, qui conviene girare; da qui va chi desidera proseguire verso la pace». |
| L’aspetto suo m’avea la vista tolta; / per ch’io mi volsi dietro a’ miei dottori, / com’om che va secondo ch’elli ascolta. | Il suo aspetto mi aveva stregato la vista; perciò mi voltai verso le mie guide, come un uomo che cammina seguendo chi gli parla. |
| E quale, annunziatrice de l’albore, / l’aura di maggio movesi e olezza, / tutta impregnata da l’erba e da’ fiori; | E come l’annunciatrice dell’alba, l’aria di maggio si muove e profuma, impregnata interamente dall’erba e dai fiori; |
| tal mi senti’ un vento dar per mezza / la fronte, e ben senti’ mover la piuma, / che fé sentir d’ambrosia l’orezza. | così percepii un vento colpirmi in mezzo alla fronte, e sentii chiaramente muovere la piuma, che fece percepire l’ambrosia della brezza. |
| E senti’ dir: «Beati cui alluma / tanto di grazia, che l’amor del gusto / nel petto lor troppo disir non fuma, | E udii dire: «Beati coloro che sono illuminati da tanta grazia, che l’amore per il cibo non infiamma eccessivamente il loro petto, |
| esurïendo sempre quanto è giusto!». | ma hanno sempre fame di ciò che è giusto!». |
Canto 24 Purgatorio della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il ventiquattresimo canto del Purgatorio si svolge nella sesta cornice, dove le anime dei golosi espiano il loro peccato attraverso fame e sete intense. Mentre Dante, Virgilio e Forese Donati proseguono il cammino, il poeta fiorentino nota le figure scheletriche dei penitenti, che appaiono emaciati con «occhi oscuri e cavi» e pelle che «s’informava dall’ossa» – una rappresentazione fisica che incarna perfettamente il contrappasso: chi in vita ha indulto nell’eccesso di cibo, ora soffre una fame straziante.
Il canto si sviluppa in tre momenti principali: l’incontro con Forese e altri golosi (versi 1-99), il celebre dialogo con Bonagiunta Orbicciani (versi 100-120), e infine l’apparizione dell’angelo della temperanza (versi 121-154).
Durante il percorso, Forese Donati indica a Dante un’anima che si rivela essere Bonagiunta Orbicciani, poeta lucchese della generazione precedente. Questo incontro rappresenta uno dei momenti più significativi dell’intero Purgatorio, poiché fornisce a Dante l’occasione per definire la propria poetica del “dolce stil novo”.
Bonagiunta chiede a Dante se sia veramente l’autore delle nuove rime che iniziano con «Donne ch’avete intelletto d’amore», e Dante risponde con i celebri versi che diventano manifesto della sua poesia: «I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando». In questo passaggio, Dante afferma che la vera poesia nasce dall’ispirazione amorosa autentica e dalla capacità del poeta di esprimerla fedelmente.
Successivamente, il pellegrino incontra altre anime di golosi illustri, tra cui Papa Martino IV (noto per il suo amore per le anguille del lago di Bolsena), Ubaldino della Pila, Bonifazio dei Fieschi (arcivescovo di Ravenna) e Messer Marchese degli Argogliosi.
La cornice è caratterizzata dalla presenza di un albero carico di frutti profumati ma irraggiungibili, una chiara allusione all’albero del bene e del male dell’Eden. Le anime circondano questo albero desiderandone ardentemente i frutti, ma non possono soddisfare la loro fame – punizione appropriata per chi ha indulto nella gola durante la vita terrena.
Il canto si conclude con l’apparizione dell’angelo della temperanza che indica ai poeti la via per salire alla cornice successiva e cancella una delle sette P (peccati capitali) dalla fronte di Dante, segnalando che il poeta ha superato questa prova nel suo percorso di purificazione. La beatitudine proclamata dall’angelo («Beati qui esuriunt iustitiam») celebra coloro che hanno fame e sete di giustizia, sottolineando il passaggio da un desiderio materiale a un’aspirazione spirituale.
La sesta cornice rappresenta quindi un momento cruciale nel processo di purificazione dell’anima, dove il distacco dai piaceri materiali diventa condizione necessaria per l’elevazione spirituale verso Dio.
Canto 24 Purgatorio della Divina Commedia: i personaggi
Nel ventiquattresimo canto del Purgatorio dantesco troviamo diversi personaggi che contribuiscono in modo significativo allo sviluppo tematico e narrativo dell’opera. Dante pellegrino e Virgilio, presenze costanti del viaggio ultraterreno, sono accompagnati in questa cornice da figure che incarnano il peccato della gola e rappresentano un momento cruciale nella riflessione poetica dell’autore.
Dante è qui presentato in una duplice veste: come personaggio in cammino verso la purificazione e come poeta che riflette sulla propria arte. Questo sdoppiamento emerge chiaramente durante l’incontro con Bonagiunta, quando definisce la propria poetica con i celebri versi «I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando». Attraverso questa autodefinizione, Dante non solo chiarisce la propria posizione letteraria, ma integra l’esperienza poetica nel più ampio percorso di elevazione spirituale.
Virgilio mantiene il suo ruolo di guida razionale, rappresentando la ragione umana che accompagna il pellegrino nel suo cammino di redenzione. Nel canto 24, sebbene la sua presenza sia più discreta rispetto ad altri momenti del poema, continua a incarnare la sapienza classica che prepara l’anima all’incontro con la verità rivelata.
Forese Donati, già incontrato nel canto precedente, riveste un ruolo particolarmente significativo. Amico di gioventù di Dante e membro della potente famiglia fiorentina dei Donati, Forese rappresenta la possibilità di redenzione anche per chi in vita si è abbandonato ai piaceri materiali. Il suo aspetto, segnato dalla magrezza estrema, illustra visivamente il contrappasso che colpisce i golosi. Nel dialogo con Dante, Forese menziona anche la sorella Piccarda, che il poeta incontrerà nel Paradiso, creando così un collegamento tra le cantiche attraverso i legami familiari.
Bonagiunta Orbicciani è forse il personaggio più emblematico di questo canto. Poeta lucchese della generazione precedente a quella di Dante, rappresenta la vecchia scuola poetica che viene superata dal “dolce stil novo”. Nel riconoscere la superiorità della nuova poesia dantesca, Bonagiunta ammette che lui stesso e altri poeti come Giacomo da Lentini (il “Notaro”) e Guittone d’Arezzo sono stati trattenuti da un “nodo” che ha impedito loro di raggiungere l’autenticità espressiva del nuovo stile. Questo incontro assume quindi una valenza meta-letteraria fondamentale, offrendo a Dante l’opportunità di definire la propria poetica e di sancirne la novità rispetto alla tradizione.
Tra le altre anime di golosi incontrate nel canto figurano:
Papa Martino IV (pontificato 1281-1285), ricordato per la sua predilezione per le anguille del lago di Bolsena “affogate” nella vernaccia. La presenza di un pontefice tra i golosi sottolinea come il peccato possa colpire anche i più alti rappresentanti della gerarchia ecclesiastica.
Ubaldino della Pila, nobile ghibellino della famiglia degli Ubaldini, e Bonifazio dei Fieschi, arcivescovo di Ravenna, rappresentano figure dell’aristocrazia e del clero macchiatesi dello stesso peccato, dimostrando la trasversalità sociale della colpa.
Messer Marchese degli Argogliosi, nobile faentino, completa questa galleria di personaggi storici che Dante colloca nella cornice dei golosi, creando un affresco sociale che unisce figure di diversa estrazione e provenienza geografica, unite dalla comune espiazione.
Analisi del Canto 24 Purgatorio: elementi tematici e narrativi
Il ventiquattresimo canto del Purgatorio si caratterizza per una struttura narrativa ricca e complessa che si articola in tre momenti principali: il dialogo tra Dante e Forese Donati, l’incontro con Bonagiunta Orbicciani e il passaggio verso la cornice successiva. Questa struttura non è casuale, ma funzionale alla progressione spirituale che caratterizza il percorso purgatoriale.
Il dialogo sulla poesia rappresenta uno degli elementi narrativi più significativi. L’incontro con Bonagiunta offre a Dante l’opportunità di definire la propria poetica attraverso i celebri versi: “I’ mi son un che, quando/Amor mi spira, noto, e a quel modo/ch’e’ ditta dentro vo significando”. Questa dichiarazione poetica non è un semplice manifesto letterario, ma un’affermazione che collega l’ispirazione poetica all’influenza diretta dell’amore come forza spirituale.
Il poeta diventa così un tramite, un interprete fedele di un messaggio superiore.
Parallela alla riflessione poetica si sviluppa la rappresentazione del contrappasso, elemento strutturale fondamentale dell’intero Purgatorio. Le anime dei golosi appaiono come figure emaciate con “li occhi… oscuri e cavi” e la pelle che “s’informava dall’ossa”. La punizione consiste proprio nell’essere affamati dinanzi a frutti appetitosi che non possono raggiungere, in opposizione all’eccesso che caratterizzò la loro vita terrena. Questo meccanismo punitivo non è fine a se stesso, ma diventa strumento di purificazione e crescita spirituale.
La dimensione allegorica del canto si esprime anche attraverso il simbolismo dell’albero proibito, che richiama l’albero della conoscenza dell’Eden. Le anime affamate che tendono le mani verso i frutti irraggiungibili rappresentano la condizione dell’uomo che deve imparare a dominare i propri desideri materiali per elevare lo spirito. In questo senso, la fame fisica diventa metafora della fame spirituale che solo la grazia divina può saziare.
Il percorso di purificazione descritto nel canto illustra il passaggio dalla materialità alla spiritualità. Le anime dei golosi non sono condannate eternamente, ma si trovano in uno stato transitorio che, attraverso la sofferenza, le condurrà alla beatitudine. Questa trasformazione è evidenziata dalla presenza dell’angelo della temperanza che, alla fine del canto, cancella una P dalla fronte di Dante, segnalando il superamento di una prova e l’avvicinamento alla perfezione spirituale.
La struttura narrativa del canto riflette anche un’importante evoluzione teologica. La sesta cornice rappresenta la penultima tappa del percorso purgatoriale, quella che precede la purificazione dalla lussuria. Non è casuale che Dante affronti il tema della poesia proprio in questo contesto: la nuova concezione poetica, fondata sull’amore spiritualizzato, è propedeutica al superamento delle passioni carnali che caratterizzano il peccato della lussuria.
Il passaggio da una dimensione terrena a una spirituale si manifesta anche nell’evoluzione delle relazioni personali. L’amicizia tra Dante e Forese, che nella vita terrena era caratterizzata da scambi di sonetti mordaci (come testimoniato dal ciclo delle “Tenzone”), si trasforma nel Purgatorio in un rapporto di reciproco riconoscimento e supporto spirituale.
L’apparizione di figure storiche come Papa Martino IV e Ubaldino della Pila serve a Dante per sottolineare l’universalità del peccato della gola, che colpisce indifferentemente ecclesiastici e nobili. Al contempo, la loro presenza nel Purgatorio anziché nell’Inferno evidenzia la possibilità di redenzione anche per chi ha occupato posizioni di potere e ha ceduto ai piaceri materiali.
Il tema del tempo assume nel canto una particolare rilevanza. Da un lato, c’è il tempo storico rappresentato dai personaggi realmente esistiti; dall’altro, il tempo dell’espiazione purgatoriale, che si contrappone all’eternità della dannazione infernale. Le anime incontrate da Dante sono consapevoli della transitorietà della loro condizione e questa consapevolezza alimenta la loro speranza.
Infine, il canto si caratterizza per una profonda riflessione sul rapporto tra arte e spiritualità. La poetica dello stil novo, così come definita da Dante stesso, rappresenta un’arte che trascende la mera abilità tecnica per diventare veicolo di elevazione spirituale. Il poeta ispirato da Amore diventa portavoce di una verità superiore, capace di guidare i lettori verso una dimensione di maggiore consapevolezza spirituale.
Figure retoriche nel Canto 24 Purgatorio della Divina Commedia
Il ventiquattresimo canto del Purgatorio presenta un ricco tessuto retorico che potenzia il valore poetico e simbolico del testo dantesco. Attraverso l’uso sapiente di diverse figure retoriche, Dante riesce a comunicare significati complessi e a creare un’esperienza estetica che rispecchia il percorso di purificazione delle anime.
Metafore
La metafora più significativa del canto è quella relativa alla poesia come “dettato d’amore”. Nei celebri versi “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”, Dante descrive l’ispirazione poetica come un’esperienza di dettatura interiore. L’Amore diventa un maestro spirituale che detta parole al poeta, trasformandolo in un fedele trascrittore. Questa metafora non solo definisce lo stil novo, ma stabilisce anche un parallelo tra ispirazione poetica e grazia divina.
Altrettanto potente è la metafora del “nodo” che ha trattenuto i poeti della vecchia scuola: “O frate, issa vegg’io il nodo / che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo”. Il nodo rappresenta qui l’artificiosità e la mancanza di ispirazione autentica che caratterizzavano la poesia precedente allo stil novo.
Similitudini
Le similitudini abbondano in questo canto, aiutando il lettore a visualizzare situazioni complesse. Particolarmente efficace è il paragone tra le anime emaciate e le mummie: “Non credo che così a buccia strema / Erisittone fosse fatto secco”. Attraverso il riferimento al mito classico di Erisittone, condannato a una fame insaziabile, Dante amplifica l’impatto visivo della punizione dei golosi.
Anche il procedere del dialogo viene reso attraverso una similitudine marina: “si com’un’nave pinta da buon vento”, suggerendo la naturalezza e la fluidità dello scambio tra i personaggi, spinti da un’ispirazione quasi divina.
Allitterazioni
L’uso dell’allitterazione arricchisce la musicalità del testo, come nei versi “fore trasse le nove rime”, dove la ripetizione del suono “r” crea un effetto ritmico che enfatizza l’atto creativo. Altrettanto notevole è l’allitterazione in “s’io veggio qui colui”, dove il suono “i” ripetuto produce una cadenza delicata che accompagna il momento di riconoscimento tra i poeti.
Il verso iniziale della canzone “Donne ch’avete intelletto d’amore” presenta un’allitterazione della “t” che contribuisce alla musicalità del “dolce stil novo” citato da Bonagiunta.
Antitesi
Le antitesi sono fondamentali per esprimere i contrasti che strutturano il pensiero dantesco. Il contrasto più evidente è quello tra l’abbondanza della vita terrena dei golosi e la loro attuale condizione di privazione: “Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, / pallida ne la faccia, e tanto scema / che da l’ossa la pelle s’informava”. Questa opposizione visiva incarna perfettamente il principio del contrappasso.
Particolarmente significativa è anche l’antitesi tra la vecchia concezione poetica, rappresentata da Bonagiunta, e la nuova poetica stilnovista di Dante, suggerendo un’evoluzione spirituale oltre che artistica.
Sineddoche
Dante utilizza spesso la sineddoche per concentrare concetti complessi in immagini concrete. “Le penne” sono usate per rappresentare l’intera attività poetica: “Io veggio ben come le vostre penne / di retro al dittator sen vanno strette”. Similmente, “le dita” indicano metonimicamente l’atto dello scrivere, riducendo l’attività creativa al suo gesto fisico essenziale.
Iperboli
L’estrema magrezza delle anime è descritta con toni iperbolici: “tant’è a Dio più cara e più diletta / la vedovella mia, che molto amai, / quanto in bene operare è più soletta”. Questa esagerazione retorica serve a sottolineare la gravità della punizione e, di conseguenza, l’importanza della virtù della temperanza.
Personificazione
L’Amore viene personificato come entità capace di “spirare” e “dittare”, conferendogli attributi divini. Questa personificazione eleva il sentimento amoroso a principio cosmico e spirituale, in linea con la concezione stilnovista che vede nell’amore un veicolo di elevazione morale.
L’albero carico di frutti, che attira le anime affamate, assume quasi caratteristiche umane nelle sue “fronde razionanti”, diventando un’entità senziente che partecipa attivamente al processo di purificazione.
Temi principali del 24 Canto del Purgatorio della Divina Commedia
Il Canto 24 del Purgatorio è intessuto di temi fondamentali che rispecchiano il percorso di purificazione spirituale rappresentato nell’intera cantica. Tra questi, la purificazione attraverso la sofferenza emerge con particolare evidenza nella descrizione delle anime dei golosi, rappresentate con occhi infossati e volti scavati. Questi spiriti penitenti sperimentano una fame e una sete insaziabili che contrastano con l’eccesso che caratterizzò la loro vita terrena, manifestando un contrappasso per analogia che rappresenta perfettamente il percorso purgatoriale.
Un tema altrettanto centrale è la transizione dalla materialità alla spiritualità. I golosi stanno gradualmente abbandonando l’attaccamento ai piaceri terreni per elevarsi verso una dimensione più alta. Questo processo di trasformazione interiore viene simboleggiato dall’albero carico di frutti profumati ma irraggiungibili, chiara allusione all’albero biblico della conoscenza. La privazione diventa così strumento di ascesi spirituale.
Particolarmente significativo è il rinnovamento poetico come specchio di quello spirituale. Nel celebre dialogo con Bonagiunta, Dante definisce il “dolce stil novo” con i versi “I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando”. Questa dichiarazione va oltre la semplice questione letteraria: la poesia ispirata direttamente dall’amore diventa metafora della grazia divina che ispira l’anima.
Il poeta che si fa strumento docile dell’ispirazione amorosa è l’equivalente del cristiano che accoglie la grazia.
Il valore della temperanza viene esaltato come virtù contrapposta alla gola. Le anime, pur soffrenti, accettano serenamente la loro condizione come parte necessaria del processo di purificazione. Questo tema si collega alla più ampia riflessione dantesca sulla necessità di moderare gli appetiti terreni per raggiungere l’elevazione spirituale.
Da non sottovalutare è anche il simbolismo biblico presente nel canto. L’albero dai frutti irraggiungibili richiama non solo l’albero del Giardino dell’Eden, ma prefigura anche il ritorno al Paradiso terrestre che Dante compirà al termine del suo viaggio purgatoriale. In questa prospettiva, la cornice dei golosi diventa un passaggio cruciale nel percorso di riconquista della condizione edenica perduta con il peccato originale.
Infine, il tema della comunione poetica e spirituale si manifesta negli incontri con le anime. Il riconoscimento da parte di Bonagiunta del valore innovativo della poesia dantesca simboleggia la capacità dell’arte autentica di trascendere le barriere temporali e creare legami profondi tra spiriti affini, anticipando quella comunione universale che troverà pieno compimento nel Paradiso.
Il Canto 24 del Purgatorio in pillole
| Aspetto | Descrizione |
|---|---|
| Ambientazione | Sesta cornice del Purgatorio, dove si purificano le anime dei golosi attraverso fame e sete |
| Personaggi principali | Dante, Virgilio, Forese Donati (amico di Dante), Bonagiunta Orbicciani (poeta lucchese), Papa Martino IV, Ubaldino della Pila, Bonifazio dei Fieschi |
| Struttura narrativa | Il canto si articola in tre momenti: prosecuzione del dialogo con Forese, incontro con Bonagiunta e discussione sulla poesia, passaggio verso la settima cornice guidato dall’angelo |
| Temi centrali | Purificazione dal peccato della gola, rinnovamento poetico, definizione del dolce stil novo, contrasto tra materialità e spiritualità |
| Passaggio chiave | “I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando” – Dante definisce la propria poetica stilnovista |
| Figure retoriche | Metafore (poesia come “dettato d’amore”), similitudini (anime paragonate a mummie), allitterazioni, antitesi (abbondanza terrena vs privazione purgatoriale), sineddoche |
| Contrappasso | Le anime emaciate e affamate contemplano frutti irraggiungibili, in contrasto con l’eccesso alimentare che caratterizzò la loro vita terrena |
| Elementi simbolici | Albero carico di frutti che richiama l’albero biblico dell’Eden, cancellazione di una P dalla fronte di Dante (segno del superamento di un peccato) |
| Significato allegorico | Distacco dai piaceri materiali come condizione per l’elevazione spirituale, analogia tra ispirazione poetica e grazia divina |
| Posizione nell’opera | Penultima cornice prima del Paradiso Terrestre, momento fondamentale nel percorso di purificazione di Dante e nella definizione della sua identità poetica |