Divina Commedia, Canto 25 Inferno: testo, parafrasi e commento

Divina Commedia, Canto 25 Inferno: testo, parafrasi e figure retoriche

Nel Canto 25 dell’Inferno della Divina Commedia, i dannati subiscono continue trasformazioni tra forma umana e serpentina, in un contrappasso che riflette perfettamente la natura del loro peccato: come in vita hanno violato i confini tra proprietà propria e altrui, così nell’aldilà sono condannati a perdere ripetutamente i limiti della propria identità corporea.

Indice:

Canto 25 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi

Testo OriginaleParafrasi
Al fine de le sue parole il ladroAlla fine delle sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,alzò entrambe le mani facendo il gesto delle fiche,
gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!».gridando: «Prendi, Dio, a te le rivolgo!».
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,Da quel momento in poi i serpenti mi divennero amici,
perch’una li s’avvolse allora al collo,perché uno di essi gli si avvolse intorno al collo,
come dicesse «Non vo’ che più diche»;come a dirgli «Non voglio che tu dica altro»;
e un’altra a le braccia, e rilegollo,e un altro serpente gli si avvinghiò alle braccia, e lo legò,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,annodandosi così strettamente davanti,
che non potea con esse dare un crollo.che egli non poteva muoversi minimamente.
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanziAh Pistoia, Pistoia, perché non decidi
d’incenerarti sì che più non duri,di incenerirti così che tu non esista più,
poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi?poiché superi i tuoi antenati nel compiere il male?
Per tutt’i cerchi de lo ‘nferno scuriIn tutti i cerchi oscuri dell’inferno
non vidi spirto in Dio tanto superbo,non vidi uno spirito tanto superbo verso Dio,
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.neppure quello che cadde dalle mura di Tebe.
El si fuggì che non parlò più verbo;Egli fuggì senza dire più parola;
e io vidi un centauro pieno di rabbiae io vidi un centauro pieno di rabbia
venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?».venire gridando: «Dov’è, dov’è quell’essere crudele?».
Maremma non cred’io che tante n’abbia,Non credo che la Maremma ne abbia tante,
quante bisce elli avea su per la groppaquanti serpenti egli aveva sulla groppa
infin ove comincia nostra labbia.fino al punto in cui inizia il nostro aspetto umano.
Sovra le spalle, dietro da la coppa,Sulle spalle, dietro la nuca,
con l’ali aperte li giacea un draco;giaceva un drago con le ali aperte;
e quello affuoca qualunque s’intoppa.e quello brucia chiunque incontra.
Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,Il mio maestro disse: «Questi è Caco,
che, sotto ‘l sasso di monte Aventino,che, sotto la roccia del monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.fece spesso un lago di sangue.
Non va co’ suoi fratei per un cammino,Non segue la stessa strada dei suoi fratelli,
per lo furto che frodolente fecea causa del furto che compì con frode
del grande armento ch’elli ebbe a vicino;del grande armento che aveva vicino;
onde cessar le sue opere bieceper questo cessarono le sue opere malvagie
sotto la mazza d’Ercule, che forsesotto la mazza di Ercole, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece».gliene diede cento, e non sentì le prime dieci».
Mentre che sì parlava, ed el trascorse,Mentre così parlava, ed egli passò oltre,
e tre spiriti venir sotto noi,e tre spiriti vennero sotto di noi,
de’ quai né io né ‘l duca mio s’accorse,dei quali né io né la mia guida si accorse,
se non quando gridar: «Chi siete voi?»;finché non gridarono: «Chi siete voi?»;
per che nostra novella si ristette,perciò il nostro racconto si interruppe,
e intendemmo pur ad essi poi.e ci rivolgemmo solo a loro.
Io non li conoscea; ma ei seguette,Io non li conoscevo; ma avvenne,
come suol seguitar per alcun caso,come suole accadere in certe occasioni,
che l’un nomar un altro convenette,che uno dovette nominare un altro,
dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;dicendo: «Dove sarà rimasto Cianfa?»;
per ch’io, acciò che ‘l duca stesse attento,perciò io, affinché la mia guida stesse attenta,
mi puosi ‘l dito su dal mento al naso.mi posi il dito dal mento al naso.
Se tu se’ or, lettore, a creder lentoSe tu, o lettore, sei ora restio a credere
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,ciò che io dirò, non sarà una meraviglia,
ché io che ‘l vidi, a pena il mi consento.poiché io che l’ho visto, a stento lo concedo a me stesso.
Com’io tenea levate in lor le ciglia,Mentre tenevo sollevate le sopracciglia verso di loro,
e un serpente con sei piè si lanciaecco che un serpente con sei piedi si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.davanti a uno di loro, e gli si attacca completamente.
Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia,Con i piedi di mezzo gli avvinse il ventre,
e con li anterïor le braccia prese;e con quelli anteriori gli prese le braccia;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia;poi gli addentò entrambe le guance;
li diretani a le cosce distese,quelli posteriori distese alle cosce,
e miseli la coda tra ‘mbedue,e gli mise la coda tra entrambe,
e dietro per le ren sù la ritese.e dietro per i reni la tese.
Ellera abbarbicata mai non fueEdera abbarbicata non fu mai
ad alber sì, come l’orribil fieraad un albero così, come l’orribile fiera
per l’altrui membra avviticchiò le sue.avviticchiò le sue membra a quelle dell’altro.
Poi s’appiccar, come di calda ceraPoi si unirono, come se fossero di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,fossero stati, e mescolarono il loro colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era:né l’uno né l’altro sembrava più quello che era:
come procede innanzi da l’ardore,come procede davanti al fuoco,
per lo papiro suso, un color brunosopra la carta, un colore bruno
che non è nero ancora e ‘l bianco more.che non è ancora nero e il bianco muore.
Li altri due ‘l riguardavano, e ciascunoGli altri due lo guardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!gridava: «Ohimè, Agnello, come ti trasformi!
Vedi che già non se’ né due né uno».Vedi che già non sei né due né uno».
Già eran li due capi un divenuti,Già erano le due teste divenute una,
quando n’apparver due figure mistequando ci apparvero due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti.in un solo volto, dove due erano perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste;Le braccia si trasformarono da quattro in due;
le cosce con le gambe e ‘l ventre e ‘l cassole cosce con le gambe e il ventre e il torace
divenner membra che non fuor mai viste.divennero membra che non furono mai viste.
Ogne primaio aspetto ivi era casso:Ogni aspetto originario era lì cancellato:
due e nessun l’imagine perversal’immagine perversa sembrava due e nessuno
parea; e tal sen gio con lento passo.allo stesso tempo; e tale se ne andò con passo lento.
Come ‘l ramarro sotto la gran fersaCome il ramarro sotto la grande sferza
dei dì canicular, cangiando sepe,dei giorni canicolari, cambiando siepe,
folgore par se la via attraversa,sembra un fulmine se attraversa la via,
sì pareva, venendo verso l’epecosì appariva, venendo verso il ventre
de li altri due, un serpentello acceso,degli altri due, un serpentello infuocato,
livido e nero come gran di pepe;livido e nero come un grano di pepe;
e quella parte onde prima è presoe quella parte da cui si prende
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;il nostro primo nutrimento, trafisse ad uno di loro;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.poi cadde giù disteso davanti a lui.
Lo trafitto ‘l mirò, ma nulla disse;Il trafitto lo guardò, ma non disse nulla;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliavaanzi, con i piedi fermi, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse.proprio come se sonno o febbre lo assalisse.
Elli ‘l serpente e quei lui riguardava;Egli guardava il serpente e quello lui;
l’un per la piaga e l’altro per la boccal’uno dalla ferita e l’altro dalla bocca
fummavan forte, e ‘l fummo si scontrava.fumavano fortemente, e il fumo si scontrava.
Taccia Lucano ormai là dov’e’ toccaTaccia ora Lucano là dove tocca
del misero Sabello e di Nasidio,del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca.e attenda ad ascoltare ciò che ora si manifesta.
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,Taccia di Cadmo e di Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonteperché se egli trasformò quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ‘nvidio;nella sua poesia, io non lo invidio;
ché due nature mai a fronte a frontepoiché due nature mai faccia a faccia
non trasmutò sì ch’amendue le formenon trasformò in modo che entrambe le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.fossero pronte a scambiarsi la loro sostanza.
Insieme si rispuosero a tai norme,Insieme si trasformarono secondo tali norme,
che ‘l serpente la coda in forca fesse,che il serpente divise la coda in due,
e ‘l feruto ristrinse insieme l’orme.e il ferito strinse insieme i piedi.
Le gambe con le cosce seco stesseLe gambe con le cosce si
s’appiccar sì, che ‘n poco la giunturaattaccarono così, che in poco tempo la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.non faceva alcun segno visibile.
Togliea la coda fessa la figuraLa coda biforcuta prendeva la figura
che si perdeva là, e la sua pelleche si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.si faceva molle, e quella dell’altro dura.
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,Io vidi rientrare le braccia nelle ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,e i due piedi della fiera, che erano corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.allungarsi tanto quanto si accorciavano quelle.
Poscia li piè di rietro, insieme attorti,Poi i piedi posteriori, attorcigliati insieme,
diventaron lo membro che l’uom cela,diventarono il membro che l’uomo nasconde,
e ‘l misero del suo n’avea due porti.e il misero dal suo ne aveva due sporgenti.
Mentre che ‘l fummo l’uno e l’altro velaMentre il fumo vela l’uno e l’altro
di color novo, e genera ‘l pel susodi nuovo colore, e genera il pelo
per l’una parte e da l’altra il dipela,da una parte e dall’altra lo toglie,
l’un si levò e l’altro cadde giuso,l’uno si alzò e l’altro cadde giù,
non torcendo però le lucerne empie,non distogliendo però gli occhi malvagi,
sotto le quai ciascun cambiava muso.sotto i quali ciascuno cambiava volto.
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,Quello che era in piedi, lo trasse verso le tempie,
e di troppa matera ch’in là vennee dalla troppa materia che là venne
uscir li orecchi de le gote scempie;uscirono le orecchie dalle guance lisce;
ciò che non corse in dietro e si ritenneciò che non corse indietro e si trattenne
di quel soverchio, fé naso a la facciadi quel superfluo, formò il naso al volto
e le labbra ingrossò quanto convenne.e ingrossò le labbra quanto era necessario.
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,Quello che giaceva, spinge il muso in avanti,
e li orecchi ritira per la testae ritira le orecchie nella testa
come face le corna la lumaccia;come fa le corna la lumaca;
e la lingua, ch’avëa unita e prestae la lingua, che aveva unita e pronta
prima a parlar, si fende, e la forcutaprima a parlare, si fende, e la biforcuta
ne l’altro si richiude; e ‘l fummo resta.nell’altro si richiude; e il fumo cessa.
L’anima ch’era fiera divenuta,L’anima che era divenuta bestia feroce,
suffolando si fugge per la valle,sibilando fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa.e l’altro dietro a lui parlando sputa.
Poscia li volse le novelle spalle,Poi gli volse le nuove spalle,
e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra,e disse all’altro: «Voglio che Buoso corra,
com’ho fatt’io, carpon per questo calle».come ho fatto io, carponi per questo sentiero».
Così vid’io la settima zavorraCosì vidi io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusimutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra.la novità se per caso la penna sbaglia.
E avvegna che li occhi miei confusiE benché i miei occhi confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,fossero alquanto e l’animo smarrito,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,quelli non poterono fuggire tanto nascosti,
ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;che io non scorgessi bene Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagnied era quello che, solo dei tre compagni
che venirono prima, non era mutato;che vennero prima, non era mutato;
l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.l’altro era quello che tu, Gaville, piangi.

Canto 25 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione

Il Canto 25 dell’Inferno si apre con la prosecuzione diretta della scena conclusiva del canto precedente: Vanni Fucci, ladro sacrilego pistoiese, compie un gesto blasfemo verso Dio, alzando le mani con le “fiche” e pronunciando parole di sfida. Immediatamente la giustizia divina si attiva: un serpente si avvinghia al suo collo, impedendogli di parlare ulteriormente, mentre un altro gli lega le braccia, immobilizzandolo completamente. Dante è stupito dalla rapidità della punizione e lancia un’invettiva contro Pistoia, città natale di Fucci, augurandole di bruciare per aver generato un tale malfattore.

Siamo nella settima bolgia dell’ottavo cerchio, Malebolge, dove sono puniti i ladri. Questo luogo infernale si caratterizza per un paesaggio ostile popolato di serpenti che attaccano continuamente i dannati, provocando in essi straordinarie e terrificanti metamorfosi. Tali trasformazioni costituiscono l’elemento più spettacolare e tecnicamente innovativo del canto.

Dopo l’invettiva, Dante osserva l’arrivo di un centauro (Caco) e poi si concentra sui dannati presenti. Tra questi riconosce un gruppo di fiorentini, membri di nobili famiglie della sua città: Agnello Brunelleschi, Buoso Donati, Puccio Sciancato, Cianfa Donati e Francesco de’ Cavalcanti detto Guercio.

Il canto si sviluppa attorno a tre stupefacenti metamorfosi, descritte con straordinaria perizia tecnica e ricchezza di dettagli anatomici:

Nella prima metamorfosi, un serpente a sei zampe (identificato come Cianfa Donati) aggredisce Agnello Brunelleschi, avvolgendosi attorno al suo corpo. I due esseri si fondono progressivamente, mescolando i loro colori e le loro forme fino a diventare un unico essere ibrido, né uomo né serpente, che si allontana lentamente.

La seconda metamorfosi coinvolge Buoso Donati e Francesco de’ Cavalcanti. Un piccolo serpente nero (Francesco) morde Buoso all’ombelico, provocando uno scambio di nature: mentre l’uomo gradualmente si trasforma in serpente, il rettile assume forma umana. Dante descrive con precisione scientifica questo processo di trasformazione inversa: le gambe dell’uomo si fondono mentre il serpente sviluppa arti; la pelle umana si copre di squame mentre quella del rettile acquista aspetto umano; la lingua dell’uomo si biforca mentre quella del serpente si riunisce. Il processo si conclude con la completa metamorfosi: Buoso, ormai divenuto serpente, fugge strisciando, mentre Francesco, trasformato in uomo, sputa verso il fuggiasco e pronuncia parole sarcastiche.

La terza metamorfosi vede protagonista Guercio Cavalcanti, che viene morso da un serpente (probabilmente Buoso trasformato) e subisce uno scambio di forme con esso, in un processo analogo al precedente.

Questa elaborata punizione incarna perfettamente il principio del contrappasso dantesco: come in vita i ladri hanno violato i confini tra proprietà propria e altrui, appropriandosi indebitamente di ciò che apparteneva ad altri, così nell’aldilà sono condannati a non possedere stabilmente neanche la propria forma corporea, continuamente sottratta e scambiata con quella dei serpenti. Le metamorfosi rappresentano inoltre la degradazione morale che il furto comporta: il ladro perde la sua identità umana, regredendo a uno stato bestiale.

I serpenti assumono un potente valore simbolico: rimandano al tentatore biblico, incarnano l’inganno e l’astuzia tipici del ladro, e con il loro veleno rappresentano il potere corruttore del peccato. La continua alternanza tra forma umana e ofidica riflette la natura subdola del furto, che si configura come un peccato di frode basato sull’inganno e la dissimulazione.

Dante conclude il canto con un manifesto di orgoglio poetico, affermando la superiorità della propria descrizione rispetto a quelle dei grandi poeti classici Ovidio e Lucano, che pure avevano narrato celebri metamorfosi. La sua sfida letteraria sottolinea l’eccezionalità delle trasformazioni descritte, che comportano lo scambio simultaneo di nature tra due esseri, qualcosa che nemmeno i maestri antichi avevano osato immaginare.

Canto 25 Inferno della Divina Commedia: i personaggi

Nel canto 25 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante popola la settima bolgia dell’ottavo cerchio con una galleria di personaggi storici fiorentini, tutti accomunati dal peccato del furto. La scelta di collocare nobili appartenenti a famiglie prestigiose in questa bolgia riflette la denuncia dantesca della corruzione morale che aveva pervaso Firenze.

Il canto si apre con Vanni Fucci, figura già presentata nel canto precedente e descritto come “ladro alla sagrestia de’ belli arredi”. Di origini pistoiesi ma legato a Firenze, Fucci si era macchiato del furto sacrilego di oggetti preziosi dal Duomo di Pistoia. Il suo carattere violento e blasfemo si manifesta nel gesto osceno con cui sfida Dio all’inizio del canto, attirando l’immediata punizione dei serpenti che lo immobilizzano. Attraverso questo personaggio, Dante rappresenta non solo il ladro, ma anche la bestialità umana che si ribella all’ordine divino.

Cianfa Donati, membro della potente famiglia fiorentina dei Donati, è protagonista della prima metamorfosi descritta nel canto. Dante non specifica quali furti abbia commesso, ma la sua presenza in questa bolgia è eloquente. Cianfa appare sotto forma di un serpente a sei zampe che aggredisce Agnello Brunelleschi (chiamato anche Agnolo), altro nobile fiorentino, fondendosi con lui in un essere ibrido, né uomo né rettile. La fusione dei due dannati simboleggia la confusione dei confini tra “mio” e “tuo” che caratterizza l’atto del furto.

Buoso Donati, parente di Cianfa e membro della stessa illustre casata, è protagonista della seconda metamorfosi. Viene trasformato in serpente mentre il rettile che lo attacca assume forma umana, in uno scambio di identità che rispecchia la natura sovversiva del furto. Alcuni commentatori identificano in lui un politico fiorentino noto per la sua disonestà e per l’appropriazione indebita di fondi pubblici, evidenziando così la dimensione politica della denuncia dantesca.

Francesco de’ Cavalcanti, soprannominato Guercio (“guercio” significa “strabico”), appartiene a un’altra importante famiglia fiorentina, tradizionalmente nemica dei Donati. Nel canto, subisce la terza metamorfosi, scambiando la sua forma con quella di un serpente in un processo gradualmente descritto con precisione anatomica. Secondo fonti storiche, sarebbe stato ucciso dagli abitanti di Gaville, nel contado fiorentino, provocando una feroce rappresaglia da parte della sua famiglia che causò numerose vittime. Dante accenna a questo evento nei versi finali del canto, collegando la violenza terrena alla punizione ultraterrena.

Puccio Sciancato (lo “zoppo”), forse membro della famiglia Galigai, è l’unico ladro presente nella scena che non subisce trasformazioni durante il canto. Il suo soprannome, che allude a una deformità fisica, potrebbe simboleggiare la deformazione morale causata dal peccato. La sua immobilità momentanea crea un contrasto con le metamorfosi che avvengono attorno a lui, forse suggerendo l’attesa di una punizione che arriverà inesorabilmente in un ciclo eterno.

La scelta di Dante di popolare la bolgia dei ladri con membri dell’aristocrazia fiorentina non è casuale. Attraverso questi personaggi, il poeta denuncia la degenerazione morale della classe dirigente della sua città, dove l’avidità e la corruzione avevano sostituito gli antichi valori civici. I ladri rappresentano simbolicamente coloro che hanno “rubato” la giustizia e il buon governo, contribuendo alla decadenza di Firenze e giustificando l’esilio stesso del poeta.

Le trasformazioni che questi dannati subiscono rappresentano la degradazione ultima dell’essere umano che, avendo violato l’ordine sociale attraverso il furto, perde nell’aldilà persino la propria identità, in un eterno scambio di forme con i rettili, simbolo biblico dell’inganno. Attraverso le metamorfosi, Dante suggerisce che il peccato non solo danneggia gli altri, ma corrompe profondamente l’essenza stessa del peccatore.

Analisi del Canto 25 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi

Nel Canto 25 dell’Inferno della Divina Commedia il tema centrale del contrappasso emerge con straordinaria efficacia: i ladri, che in vita hanno violato i confini altrui appropriandosi indebitamente di beni non propri, nell’aldilà sono condannati a subire una continua violazione dei confini della propria identità corporea. Questa legge di retribuzione divina si manifesta attraverso le tre metamorfosi principali del canto: la fusione tra Cianfa Donati e un serpente, la trasformazione di Buoso Donati in serpente mentre il rettile assume forma umana, e lo scambio di natura tra Francesco de’ Cavalcanti e un altro serpente.

La perdita dell’identità rappresenta un elemento tematico fondamentale. Le trasformazioni non sono semplici mutazioni fisiche, ma simboleggiano la degradazione morale che il peccato comporta. Come il ladro in vita ha confuso i confini tra “mio” e “tuo”, così nell’aldilà è condannato a perdere i confini della propria identità personale. Questa dissoluzione dell’io riflette la concezione medievale secondo cui il peccato non è solo una violazione esterna, ma un’alterazione profonda dell’essenza umana.

La bestializzazione dei dannati costituisce un altro aspetto centrale: la fusione con i serpenti simboleggia la riduzione dell’essere umano a uno stato ferino, privandolo della sua dignità razionale. In questa prospettiva, il furto non è semplicemente un reato contro la proprietà, ma un’offesa all’ordine naturale e sociale voluto da Dio, che degrada il peccatore al di sotto della sua natura umana.

La sovversione dell’ordine naturale si manifesta nella creazione di ibridi mostruosi che violano i confini tra le specie. Questo aspetto riflette la visione dantesca del peccato come atto che non solo danneggia gli altri, ma corrompe profondamente il peccatore stesso. La punizione divina, nella sua terribilità, manifesta quindi un ordine razionale in cui ogni colpa trova la sua adeguata conseguenza.

Dal punto di vista narrativo, Dante utilizza una tecnica descrittiva di straordinaria precisione anatomica. Le metamorfosi sono colte nel loro divenire, attraverso una sequenza dinamica di immagini in movimento che coinvolge diversi sensi nella descrizione. Questo virtuosismo tecnico serve a rendere “visibile” l’incredibile, trasformando concetti teologici astratti in potenti immagini poetiche.

L’innovazione narrativa raggiunge il suo culmine quando Dante si confronta direttamente con i poeti classici Ovidio e Lucano, proclamando la superiorità della propria arte poetica. Questo momento di autoconsapevolezza artistica rivela come il poeta fiorentino riesca a fondere l’eredità classica con la visione cristiana, integrando bellezza formale e messaggio morale.

Infine, la dimensione politica emerge nella scelta di collocare nobili fiorentini nella bolgia dei ladri, costituendo un potente atto d’accusa contro la corruzione della Firenze contemporanea. Il canto diventa così non solo una riflessione teologica sul peccato, ma anche una denuncia sociale e politica della degradazione morale che aveva investito la città natale del poeta.

Figure retoriche nel Canto 25 dell’Inferno della Divina Commedia

Il Canto 25 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta uno dei momenti di maggior virtuosismo stilistico di Dante, che attraverso un sapiente uso di figure retoriche riesce a rendere visivamente efficaci le straordinarie metamorfosi dei ladri. Questo arsenale retorico permette al poeta di dare forma all’indicibile, rendendo comprensibile al lettore l’orrore sovrannaturale delle trasformazioni infernali.

Le similitudini abbondano nel canto, funzionando come ponte tra l’esperienza ordinaria e gli eventi straordinari narrati. Memorabile è il paragone tra l’avvinghiarsi del serpente al dannato e l’edera che si abbarbica all’albero: “Ellera abbarbicata mai non fue / ad alber sì, come l’orribil fiera / per l’altrui membra avviticchiò le sue”. Altrettanto efficace è la similitudine che paragona la fusione tra uomo e serpente alla cera che si liquefa: “Poi s’appiccar, come di calda cera / fossero stati, e mischiar lor colore”.

Particolarmente significativo è l’uso delle metafore, che trasformano concetti astratti in immagini concrete. I serpenti divengono metafora della giustizia divina, mentre le metamorfosi rappresentano il “furto” dell’identità, rispecchiando allegoricamente il peccato commesso in vita. La stessa bolgia con i suoi rettili diventa metafora del caos morale che caratterizza l’esistenza dei ladri.

Dante impiega magistralmente l’iperbole per enfatizzare l’eccezionalità delle trasformazioni descritte. Emblematico è il passo in cui il poeta si confronta con gli autori classici: “Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca / del misero Sabello e di Nasidio, / e attenda a udir quel ch’or si scoccha”, dove l’esagerazione serve a sottolineare l’unicità dell’esperienza poetica dantesca.

Le apostrofi rivestono un ruolo cruciale, permettendo a Dante di interpellare direttamente il lettore o altri poeti. Celebre è l’apostrofe a Pistoia: “Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi / d’incenerarti sì che più non duri, / poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi”, dove l’invettiva amplifica l’indignazione morale del poeta.

Il testo è ricco di allitterazioni che creano effetti fonici particolari, intensificando l’impatto emotivo delle descrizioni: “si facea molle, e quella di là dura” (v. 111), dove la ripetizione dei suoni consonantici evoca la fluidità della trasformazione. Frequenti sono anche gli enjambement, che spezzando il verso creano un effetto di tensione e continuità: “Come ‘l ramarro sotto la gran fersa / dei dì canicular, cangiando siepe, / folgore par se la via attraversa” (vv. 79-81).

Non mancano esempi di sinestesia, dove Dante fonde percezioni sensoriali diverse per rendere più vivida l’esperienza delle metamorfosi: “Ogne primaio aspetto ivi era casso: / due e nessun l’imagine perversa / parea” (vv. 76-78), dove vista e concetto si fondono in un’unica percezione distorta.

Il climax è utilizzato per creare tensione crescente, in particolare nella sequenza che descrive la progressiva trasformazione del ladro in serpente e viceversa, culminando nell’immagine finale della metamorfosi completa.

Questo complesso e articolato apparato retorico non è mai fine a sé stesso, ma funzionale alla rappresentazione dell’orrore morale del peccato e della giustizia divina, rendendo così concreta e visibile l’allegoria teologica che sottende l’intero canto.

Temi principali del 25 canto dell’Inferno della Divina Commedia

Il Canto 25 dell’Inferno della Divina Commedia si distingue per la straordinaria complessità tematica che sottende alle metamorfosi descritte. Attraverso le trasformazioni dei ladri, Dante sviluppa riflessioni profonde sulla natura umana e sulla giustizia divina.

Innanzitutto, il tema della giustizia divina si manifesta nella sua forma più evidente attraverso il meccanismo del contrappasso: i ladri, che in vita hanno violato i confini della proprietà altrui, sono condannati a subire l’eterna violazione dei confini della propria identità corporea. La punizione rispecchia perfettamente il crimine, dando concretezza visiva alla legge morale dell’universo dantesco.

La bestializzazione rappresenta il secondo tema fondamentale: la trasformazione in serpenti simboleggia la regressione dell’essere umano a uno stato animalesco come conseguenza del peccato. Chi tradisce la propria natura razionale attraverso azioni immorali viene privato della forma umana, manifestando esteriormente la degradazione già avvenuta nell’anima.

La perdita dell’identità costituisce forse il tema più drammatico del canto: le metamorfosi comportano un totale annullamento dell’essenza individuale, un’erosione dell’io che riflette come il peccato distrugga l’integrità della persona. I dannati non possiedono più nemmeno la certezza della propria forma corporea, subendo il furto dell’identità come conseguenza dell’aver rubato.

Altrettanto centrale è il tema della sovversione dell’ordine naturale: le trasformazioni descritte da Dante contraddicono le leggi della natura, creando ibridi mostruosi che rappresentano la sovversione dell’ordine divino causata dal peccato. Come il ladro ha turbato l’ordine sociale, così la sua punizione turba l’ordine naturale delle cose.

Infine, emerge il tema della corruzione morale di Firenze: attraverso la galleria di personaggi fiorentini condannati per furto, Dante lancia un’accusa alla propria città, evidenziando come la decadenza morale abbia intaccato anche le nobili famiglie. Le metamorfosi dei ladri diventano così metafora della trasformazione di Firenze da baluardo di virtù civica a covo di peccatori.

Il Canto 25 dell’Inferno in pillole

ElementoDescrizioneNote
CollocazioneSettima bolgia dell’ottavo cerchioLuogo di punizione dei ladri
Continuità narrativaProsegue direttamente dal Canto 24Si apre con la punizione di Vanni Fucci per la bestemmia
PenaMetamorfosi continue tra forme umane e serpentineRiflette il contrappasso: chi ha rubato l’identità altrui perde la propria
Personaggi principaliVanni Fucci, Cianfa Donati, Agnello Brunelleschi, Buoso Donati, Francesco de’ Cavalcanti (Guercio), Puccio SciancatoTutti ladri fiorentini di nobile famiglia
MetamorfosiTre trasformazioni principali: fusione uomo-serpente, scambio di nature, scambio graduale di formeDescritte con virtuosismo tecnico superiore ai modelli classici
Figure retoricheSimilitudini, metafore, iperboli, apostrofi, allitterazioni, enjambementParticolarmente significativa l’apostrofe a Ovidio e Lucano
Temi principaliGiustizia divina, perdita dell’identità, bestializzazione, sovversione dell’ordine naturaleIl furto come violazione dei confini tra il proprio e l’altrui
Innovazioni stilistichePrecisione anatomica, dinamismo narrativo, sinestesia, lessico tecnicoDante supera consapevolmente i modelli classici nella descrizione delle metamorfosi
SimbolismoSerpenti come emblema dell’inganno e richiamo al peccato originaleLe trasformazioni simboleggiano la degradazione morale conseguente al peccato

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