Divina Commedia, Canto 25 Paradiso: testo, parafrasi e figure retoriche

Divina Commedia, Canto 25 Paradiso: testo, parafrasi e figure retoriche

Il Canto XXV del Paradiso rappresenta una tappa fondamentale nel viaggio ultraterreno di Dante attraverso i regni celesti.

Il Canto 25 del Paradiso rappresenta una tappa fondamentale nel viaggio ultraterreno di Dante attraverso i regni celesti. Collocato nell’ottavo cielo, quello delle Stelle Fisse, questo canto si apre con uno dei passaggi più personali e commoventi dell’intera Divina Commedia: la speranza del poeta di ritornare nella sua amata Firenze, da cui era stato esiliato. Questa dimensione autobiografica si intreccia magistralmente con l’esame sulla virtù teologale della speranza, a cui Dante viene sottoposto dall’apostolo Giacomo, proseguendo il percorso iniziato nel canto precedente con l’esame sulla fede condotto da San Pietro.

Il Canto XXV si distingue per la sua duplice natura: da un lato esprime l’esperienza personale dell’esilio e la speranza del riconoscimento poetico, dall’altro affronta questioni dottrinali profonde sulla speranza come virtù teologale. L’incontro con San Giacomo e la successiva apparizione di San Giovanni anticipano il completamento della triade delle virtù teologali, preparando il poeta alla progressiva ascesa verso la visione finale di Dio.

In questo significativo episodio, Dante fonde mirabilmente elementi autobiografici, teologici e poetici, creando un canto di straordinaria intensità emotiva e intellettuale che segna un momento cruciale nel suo avvicinamento alla visione divina.

Indice:

Canto 25 Paradiso della Divina Commedia: testo completo e parafrasi

Testo originaleParafrasi
Se mai continga che ‘l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per molti anni macro,
Se un giorno accadrà che quest’opera santa, alla quale hanno contribuito sia la volontà divina sia l’impegno umano e che mi ha fatto soffrire a lungo,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’ io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
riesca a sconfiggere la crudeltà che mi tiene lontano dalla mia patria, la dolce Firenze, dove da bambino ho vissuto, tenendo testa a chi mi è nemico;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ‘l cappello;
allora, da uomo cambiato e invecchiato, ritornerò a Firenze come poeta, e davanti al mio fonte battesimale riceverò la corona d’alloro;
però che ne la fede, che fa conte
l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte.
perché è proprio grazie alla fede – che rende le anime gradite a Dio – che entrai in quella comunità, e San Pietro per questa fede mi ha riconosciuto.
Indi si mosse un lume verso noi
di quella spera ond’ uscì la primizia
che lasciò Cristo d’i vicari suoi;
Poi una luce si avvicinò a noi da quella corona di beati da cui era uscito anche San Pietro, che Cristo aveva scelto come suo primo rappresentante;
e la mia donna, piena di letizia,
mi disse: «Mira, mira: ecco il barone
per cui là giù si vicita Galizia».
e Beatrice, radiosa di gioia, mi disse: «Guarda, guarda: ecco il grande apostolo per cui si fa pellegrinaggio in Galizia»;
Sì come quando il colombo si pone
presso al compagno, l’uno a l’altro pande,
girando e mormorando, l’affezione;
Come quando un colombo si avvicina al suo compagno e mostra il proprio affetto girandogli intorno e tubando;
così vid’ ïo l’un da l’altro grande
principe glorïoso essere accolto,
laudando il cibo che là sù li prande.
così vidi il nuovo arrivato essere accolto da San Pietro, entrambi apostoli gloriosi, lodando la grazia divina che li soddisfa in Paradiso.
Ma poi che ‘l gratular si fu assolto,
tacito coram me ciascun s’affisse,
ignito sì che vincëa ‘l mio volto.
Dopo essersi scambiati saluti, ognuno dei due restò davanti a me, talmente luminoso che i loro volti superavano lo splendore dei miei occhi.
Ridendo allora Bëatrice disse:
«Inclita vita per cui la larghezza
de la nostra basilica si scrisse,
Beatrice, sorridendo, disse: «O anima illustre, che con i tuoi scritti hai celebrato la generosità del Paradiso,
fa risonar la spene in questa altezza:
tu sai, che tante fiate la figuri,
quante Iesù ai tre fé più carezza».
parla della speranza qui, tu che la rappresenti ogni volta che Gesù dimostra particolare affetto a voi tre apostoli».
«Leva la testa e fa che t’assicuri:
ché ciò che vien qua sù del mortal mondo,
convien ch’ai nostri raggi si maturi».
«Alza il capo e tranquillizzati, perché tutto ciò che sale dal mondo mortale fino a qui deve essere affinato dalla nostra luce».
Questo conforto del foco secondo
mi venne; ond’ io leväi li occhi a’ monti
che li ‘ncurvaron pria col troppo pondo.
Queste parole della seconda anima luminosa mi confortarono; così sollevai gli occhi dai quali, abbassati per la troppa luce, avevo distolto lo sguardo.
«Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
lo nostro Imperadore, anzi la morte,
ne l’aula più secreta co’ suoi conti,
«Poiché per Grazia divina ti è concesso di comparire davanti al nostro Signore prima della morte, nell’ambiente più segreto insieme ai suoi eletti,
sì che, veduto il ver di questa corte,
la spene, che là giù bene innamora,
in te e in altrui di ciò conforte,
così che, avendo visto la verità di questa corte celeste, tu possa rafforzare in te e negli altri uomini la speranza amata sulla terra,
dì quel ch’ell’ è, dì come se ne ‘nfiora
la mente tua, e dì onde a te venne».
Così seguì ‘l secondo lume ancora.
dimmi cos’è la speranza, come la tua mente ne è colma, e da dove proviene». Così parlò ancora la seconda luce.
E quella pïa che guidò le penne
de le mie ali a così alto volo,
a la risposta così mi prevenne:
E la pia donna (Beatrice), che guidava il mio cammino verso così alte vette, mi precedette nella risposta:
«La Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com’ è scritto
nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:
«La Chiesa sulla terra non ha nessun figlio che abbia più speranza di lui, come si legge nel Sole (Cristo) che illumina tutta la nostra schiera:
però li è conceduto che d’Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che ‘l militar li sia prescritto.
perciò gli è concesso di passare dall’esilio terreno (Egitto) alla visione del Paradiso (Gerusalemme) prima che finisca la sua vita terrena.
Li altri due punti, che non per sapere
son dimandati, ma perch’ ei rapporti
quanto questa virtù t’è in piacere,
Quanto alle altre due domande, che non sono poste per ottenere conoscenza ma per vedere quanto questa virtù sia da te amata,
a lui lasc’ io, ché non li saran forti
né di iattanza; ed elli a ciò risponda,
e la grazia di Dio ciò li comporti».
lascio a lui rispondere, poiché non gli sarà difficile e non lo porterà a vanagloria; e che la Grazia di Dio gli consenta di rispondere».
Come discente ch’a dottor seconda
pronto e libente in quel ch’elli è esperto,
perché la sua bontà si disasconda,
Come uno studente che segue prontamente e con piacere il maestro in ciò che conosce bene, desiderando mostrare il proprio valore,
«Spene», diss’ io, «è uno attender certo
de la gloria futura, il qual produce
grazia divina e precedente merto.
dissi: «La speranza è la sicura attesa della beatitudine futura, che nasce dalla grazia divina e dai meriti precedenti.
Da molte stelle mi vien questa luce;
ma quei la distillò nel mio cor pria
che fu sommo cantor del sommo duce.
Questa virtù mi viene ‘in luce’ da molte fonti, ma chi la infuse nel mio cuore per primo fu Davide, il sommo cantore del Sommo Signore.
‘Sperino in te’, ne la sua tëodia
dice, ‘color che sanno il nome tuo’:
e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?
Nel suo canto sacro, Davide afferma: ‘Sperino in te coloro che conoscono il tuo nome’, e chi non lo conosce se ha la mia fede?
Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
e in altrui vostra pioggia repluo».
Tu (san Giacomo) poi hai versato su di me la speranza con la tua lettera (pistola), così che ora ne sono pieno e trasmetto ad altri la sua essenza».
Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno
di quello incendio tremolava un lampo
sùbito e spesso a guisa di baleno.
Mentre parlavo, nel cuore di quella fiamma divina balenava una luce improvvisa e frequente, simile a lampi.
Indi spirò: «L’amore ond’ ïo avvampo
ancor ver’ la virtù che mi seguette
infin la palma e a l’uscir del campo,
Poi disse quella voce: «L’amore con cui ancora ardo verso la virtù della speranza, che mi accompagnò fino al martirio (la palma) e al termine della vita terrena,
vuol ch’io respiri a te che ti dilette
di lei; ed emmi a grato che tu diche
quello che la speranza ti ‘mpromette».
mi spinge a parlare ancora con te che la ami; e mi fa piacere che tu mi dica cosa ti promette la speranza».
E io: «Le nove e le scritture antiche
pongon lo segno, ed esso lo mi addita,
de l’anime che Dio s’ha fatte amiche.
Risposi: «Il Nuovo e l’Antico Testamento indicano la mèta delle anime che Dio ama, e questa mèta me la indica la speranza.
Dice Isaia che ciascuna vestita
ne la sua terra fia di doppia vesta:
e la sua terra è questa dolce vita;
Isaia dice che ognuno avrà nella sua patria una doppia veste (anima e corpo): questa patria è la beatitudine di questa vita celeste;
e ‘l tuo fratello assai vie più digesta,
là dove tratta de le bianche stole,
questa revelazion ci manifesta».
e tuo fratello (san Giovanni) ci spiega questa rivelazione con più chiarezza là dove parla delle bianche vesti dei beati.
E prima, appresso al fin d’este parole,
‘Sperent in te’ di sopr’ a noi s’udì;
a che rispuoser tutte le carole.
Dopo le mie parole, sopra di noi si sentì il canto ‘Sperino in te’, al quale risposero tutte le schiere di beati.
Poscia tra esse un lume si schiarì
sì che, se ‘l Cancro avesse un tal cristallo,
l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì.
Poi tra di loro una luce si fece così luminosa che, se nel segno del Cancro ci fosse una stella così splendente, per un mese intero d’inverno ci sarebbe solo luce.
E come surge e va ed entra in ballo
vergine lieta, sol per fare onore
a la novizia, non per alcun fallo,
E come una fanciulla si alza ed entra a danzare solo per onorare la sposa novella, senza alcuna altra intenzione,
così vid’ io lo schiarato splendore
venire a’ due che si volgieno a nota
qual conveniesi al loro ardente amore.
così vidi quella luce più chiara avvicinarsi ai due apostoli che si muovevano secondo il ritmo più adatto al loro amore ardente.
Misesi lì nel canto e ne la rota;
e la mia donna in lor tenea l’aspetto,
pur come sposa tacita e immota.
Si unì a loro nel canto e nella danza circolare; e la mia donna li guardava con attenzione, immobile e silenziosa, come una sposa.
«Questi è colui che giacque sopra ‘l petto
del nostro pellicano, e questi fue
di su la croce al grande officio eletto».
«Questa è l’anima di san Giovanni, che si appoggiò sul petto di Cristo (il nostro pellicano) e fu scelto da Lui, sulla croce, per un compito speciale».
La donna mia così; né però piùe
mosser la vista sua di stare attenta
poscia che prima le parole sue.
Così disse Beatrice, ma poi continuò a fissare i beati con più attenzione di prima.
Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta
di vedere eclissar lo sole un poco,
che, per veder, non vedente diventa;
Come chi tenta di guardare un’eclissi parziale di sole e, a forza di fissarla, diventa cieco,
tal mi fec’ ïo a quell’ ultimo foco
mentre che detto fu: «Perché t’abbagli
per veder cosa che qui non ha loco?
così feci io verso quella terza luce, mentre mi veniva detto: «Perché ti abbagli per voler vedere ciò che qui non si trova?
In terra è terra il mio corpo, e saragli
tanto con li altri, che ‘l numero nostro
con l’etterno proposito s’agguagli.
Il mio corpo è ancora sulla terra e lo sarà fino a quando il numero dei beati non corrisponderà al disegno eterno di Dio.
Con le due stole nel beato chiostro
son le due luci sole che saliro;
e questo apporterai nel mondo vostro».
Nel beato Paradiso, con anima e corpo, ci sono solo due anime (Cristo e la Madonna), che hai già visto salire: riporta questo sulla terra.
A questa voce l’infiammato giro
si quïetò con esso il dolce mischio
che si facea nel suon del trino spiro,
Dopo queste parole, il giro di anime luminose cessò, così come si placò il dolce intreccio di voci che formavano l’armonia delle tre voci.
sì come, per cessar fatica o rischio,
li remi, pria ne l’acqua ripercossi,
tutti si posano al sonar d’un fischio.
Proprio come i remi di una nave che si fermano tutti insieme al suono di un fischio, per cessare la fatica o evitare pericoli.
Ahi quanto ne la mente mi commossi,
quando mi volsi per veder Beatrice,
per non poter veder, benché io fossi
Ah, quanto mi sconvolsi nel mio animo quando mi voltai per vedere Beatrice, ma non potevo vederla, anche se ero accanto a lei
presso di lei, e nel mondo felice!e nel Paradiso!

Canto 25 Paradiso della Divina Commedia: riassunto e spiegazione

Il Canto 25 del Paradiso si apre con una delle più celebri dichiarazioni autobiografiche di Dante. Nei primi versi, il poeta esprime la speranza che il suo “poema sacro” possa vincere la crudeltà che lo tiene lontano da Firenze, descritta come il “bello ovile” dove egli visse come un “agnello” prima di essere esiliato. Dante sogna di tornare in patria con “altra voce” e “altro vello”, ossia con la fama di grande poeta, per ricevere l’incoronazione poetica nel battistero di San Giovanni, dove fu battezzato.

Dopo questo intenso esordio personale, il poeta riprende la narrazione del suo viaggio ultraterreno. Beatrice invita Dante a guardare verso un nuovo splendore che si avvicina: è l’apostolo Giacomo, associato nella tradizione cristiana alla virtù della speranza. Il suo arrivo viene descritto con immagini di straordinaria bellezza, paragonando la luce dell’apostolo a un fulgore così intenso da abbagliare momentaneamente la vista del poeta.

L’apostolo Giacomo si unisce a San Pietro (già apparso nel canto precedente per l’esame sulla fede) in una sorta di “danza di luce”. Beatrice presenta Dante a San Giacomo, definendolo come colui che ispirò la devozione verso Santiago de Compostela, meta di numerosi pellegrinaggi. I due spiriti beati manifestano la loro gioia reciproca come colombe che si corteggiano amorevolmente.

Il nucleo centrale del canto è costituito dall’esame teologico a cui San Giacomo sottopone Dante sulla virtù della speranza. L’apostolo pone al poeta tre domande fondamentali: che cos’è la speranza, come essa è presente nel suo animo, e da dove gli è venuta. Con umiltà ma sicurezza dottrinale, Dante risponde che la speranza è “un attender certo della gloria futura”, una definizione che riprende quella di Pietro Lombardo nelle Sentenze. Aggiunge che questa certezza gli deriva sia dalla “grazia divina” che dai “precedenti meriti”.

Il poeta cita come fonte principale della sua speranza i Salmi di Davide, definito “sommo cantor del sommo duce”, in particolare il versetto “Sperino in te coloro che conoscono il tuo nome”. Dopo questa risposta, San Giacomo si compiace e continua l’esame chiedendo quali promesse infonda questa speranza nell’animo del poeta.

Nella seconda parte del canto, mentre è ancora in corso l’esame sulla speranza, avviene un nuovo evento straordinario: l’apparizione di San Giovanni Evangelista, che si unisce agli altri due apostoli. La sua luce è talmente intensa che Dante, tentando di vederlo, rimane momentaneamente accecato. Questa cecità temporanea, che verrà risolta nel canto successivo, ha un profondo significato allegorico, rappresentando i limiti della comprensione umana di fronte ai misteri divini.

Il canto si chiude con l’annuncio dell’esame sulla carità che avverrà nel canto successivo, completando così la triade delle virtù teologali su cui Dante viene interrogato nel Cielo delle Stelle Fisse.

Canto 25 Paradiso della Divina Commedia: i personaggi

Il Canto XXV del Paradiso presenta un nucleo limitato ma significativo di personaggi, ciascuno con una funzione precisa nell’architettura teologica e narrativa della cantica.

Dante pellegrino è protagonista e testimone, che nel canto si presenta in una duplice dimensione: come esule fiorentino che anela al ritorno in patria, e come credente sottoposto all’esame sulla virtù della speranza. L’apertura del canto, con la sua intensa dichiarazione autobiografica, rivela la speranza terrena del poeta di tornare a Firenze con la fama conquistata attraverso il “poema sacro”, mentre la seconda parte lo vede affrontare l’esame sulla speranza come virtù teologale. Questa dualità incarna perfettamente la natura stessa dell’opera dantesca, sospesa tra esperienza personale e dimensione universale.

Beatrice mantiene il ruolo di guida spirituale, presentando Dante agli apostoli e incoraggiandolo durante l’esame. La sua funzione è quella di mediatrice tra il poeta e le anime beate, facilitando il dialogo teologico e sostenendo il pellegrino nel suo percorso ascensionale. Con autorevolezza ella introduce Dante all’apostolo esaminatore, sottolineando la sua competenza sulla virtù della speranza.

San Giacomo Maggiore, apostolo tradizionalmente associato alla virtù della speranza e oggetto di venerazione nel santuario di Compostela, è l’esaminatore di Dante. La tradizione lo collega ai pellegrinaggi, simbolo stesso del cammino di speranza. San Giacomo appare come una luce splendente che acceca momentaneamente il poeta, manifestandosi poi come interlocutore che pone a Dante le tre domande fondamentali sulla speranza.

San Pietro, già apparso nel canto precedente per l’esame sulla fede, è presente anche in questo canto e partecipa all’accoglienza di San Giacomo con una “danza di luce” che simboleggia la concordia dei beati.

San Giovanni Evangelista appare verso la fine del canto, preparando l’esame sulla carità che avverrà nel canto successivo. La sua luce è talmente intensa da provocare la cecità temporanea di Dante, condizione allegorica che prelude alla purificazione necessaria per sostenere la futura visione di Dio.

Analisi del Canto 25 del Paradiso: elementi tematici e narrativi

Il Canto XXV del Paradiso si configura come un momento cruciale nel percorso ascensionale di Dante, presentando una ricca architettura tematica che fonde esperienza personale, dottrina teologica e visione mistica. La sua struttura narrativa si articola in tre momenti fondamentali: l’apertura autobiografica con la speranza del ritorno a Firenze, l’esame sulla virtù teologale della speranza condotto da San Giacomo, e l’apparizione luminosa di San Giovanni che prepara all’esame sulla carità.

Il tema della speranza costituisce il fulcro del canto, declinandosi in una duplice dimensione: quella personale dell’esule che aspira a tornare in patria e quella universale della virtù teologale. Dante definisce magistralmente la speranza come “un attender certo della gloria futura”, sintesi perfetta che unisce la certezza della fede con l’attesa della beatitudine eterna. Questa definizione si inserisce nel più ampio contesto dell’esame sulle tre virtù teologali (fede, speranza e carità) che occupa i Canti XXIV-XXVI, rappresentando un vero e proprio percorso iniziatico necessario per accedere alla visione finale di Dio.

Particolarmente significativo è il simbolismo della luce che pervade l’intero canto. Le anime beate appaiono come splendori intensissimi, tanto che Dante, tentando di vedere San Giovanni, rimane temporaneamente accecato. Questa cecità momentanea assume un potente valore allegorico, rappresentando i limiti della comprensione umana davanti ai misteri divini. Il contrasto tra visione e cecità diventa metafora del percorso conoscitivo che richiede un superamento delle facoltà ordinarie per accedere alla contemplazione delle verità celesti.

La narrazione si sviluppa prevalentemente attraverso il dialogo, forma privilegiata che consente a Dante di esplorare complessi concetti teologici mantenendo una straordinaria efficacia poetica. L’interazione tra Dante-personaggio e le anime beate (in particolare San Giacomo) assume i caratteri di un vero e proprio esame universitario medievale, con domande precise sulla natura, l’origine e gli effetti della virtù teologale. Questo impianto dialogico conferisce al canto una struttura di progressiva rivelazione, in cui ogni risposta apre nuovi orizzonti di comprensione.

Un elemento tematico di grande rilievo è l’intreccio tra dimensione personale e universale. Il poeta trasforma la propria esperienza di esule in un paradigma del cammino dell’anima verso la salvezza. La speranza del ritorno a Firenze, espressa nei celebri versi iniziali, diventa figura della speranza escatologica di ogni credente. In questo senso, il “poema sacro” stesso, definito come opera a cui hanno collaborato “cielo e terra”, si configura come testimonianza universale che trascende le contingenze storiche.

L’architettura narrativa del canto rivela inoltre una sapiente progressione verso l’alto, in accordo con la generale ascensione che caratterizza il Paradiso. Dal riferimento iniziale a Firenze, città terrena, si passa gradualmente alle realtà celesti, fino all’apparizione abbagliante di San Giovanni che preannuncia la visione finale. Questa progressione verticale si accompagna a un affinamento delle facoltà percettive del protagonista, che deve essere gradualmente preparato all’incontro con la divinità.

Nella struttura ciclica della Commedia, il Canto XXV del Paradiso rappresenta anche un momento di ricapitolazione e completamento. L’esame sulla speranza richiama e approfondisce elementi già presenti nelle due cantiche precedenti, come il tema dell’esilio (centrale nell’Inferno) e quello della purificazione (fulcro del Purgatorio). La speranza, in questo senso, appare come la virtù che consente di integrare e trascendere le esperienze precedenti in vista della beatitudine finale.

Infine, è importante sottolineare come il canto presenti un intreccio tra elementi liturgici, scritturali e filosofici. Le citazioni bibliche (in particolare dai Salmi), i riferimenti alla tradizione teologica (come la definizione di Pietro Lombardo) e i richiami ai riti cristiani creano una ricca trama intertestuale che eleva il discorso poetico a vera e propria “teologia in versi”. Questa fusione di registri diversi riflette la concezione dantesca della poesia come strumento di conoscenza e rivelazione.

Figure retoriche nel Canto 25 del Paradiso della Divina Commedia

Il Canto 25 del Paradiso si distingue per una straordinaria ricchezza stilistica, in cui Dante utilizza un ampio repertorio di figure retoriche per esprimere l’ineffabile realtà celeste e per conferire profondità alle riflessioni teologiche sulla speranza.

Le metafore costituiscono uno degli strumenti espressivi più potenti del canto, a partire dai versi iniziali dove Dante descrive Firenze come il “bello ovile” da cui è stato esiliato. Questa metafora pastorale, che presenta il poeta come “agnello” e i suoi nemici politici come “lupi”, attinge alla tradizione biblica per elevare la vicenda personale dell’esilio a una dimensione universale. Significativa è anche la metafora del “poema sacro” come opera a cui hanno collaborato “cielo e terra”, sottolineando la natura divino-umana della Commedia. Quando Dante afferma che il lavoro poetico lo ha reso “macro” (magro), utilizza una metafora corporea per esprimere la fatica intellettuale e spirituale della creazione artistica.

Particolarmente efficaci sono le similitudini astronomiche e naturalistiche che punteggiano il canto. Ai versi 118-120, Dante paragona il suo tentativo di vedere San Giovanni a colui che “adocchia e s’argomenta / di vedere eclissar lo sole un poco”, rimanendo accecato dallo sforzo. Questa similitudine esprime perfettamente l’inadeguatezza della vista umana di fronte alla luce divina. Altrettanto suggestiva è la similitudine ai versi 130-132, dove il movimento delle anime beate viene comparato a quello delle “faville vive” che si distinguono all’interno di una fiamma.

Le perifrasi abbondano nel canto, spesso utilizzate per riferirsi ai personaggi sacri senza nominarli direttamente. San Giovanni viene descritto come “quello che giacque sopra ‘l petto / del nostro pellicano” (vv. 112-113), con riferimento a Cristo rappresentato come pellicano secondo l’iconografia medievale. Allo stesso modo, Davide è indicato come “sommo cantor del sommo duce” (v. 72), perifrasi che esalta sia la sua funzione di salmista sia la sua devozione a Dio.

Dante impiega magistralmente allitterazioni e assonanze per creare effetti musicali che rispecchiano l’armonia celeste. L’allitterazione della consonante “c” nei versi “con altra voce omai, con altro vello” (v. 7) sottolinea ritmicamente la trasformazione del poeta al suo agognato ritorno. Nei versi dedicati alla definizione della speranza, le assonanze delle vocali “e” ed “o” in “Spene è uno attender certo” (v. 67) conferiscono una sonorità elevata al concetto teologico.

Le antitesi sono utilizzate per esprimere la complessità dell’esperienza paradisiaca. La contrapposizione tra cecità e visione, tra la limitatezza umana e la perfezione divina, è un esempio di come Dante utilizzi questa figura per comunicare realtà che trascendono l’esperienza ordinaria. Particolarmente efficace è l’antitesi implicita nel verso “per veder, non vedente diventa” (v. 120), dove l’atto di vedere conduce paradossalmente alla cecità temporanea.

Il canto presenta anche numerosi esempi di iperbole, soprattutto nella descrizione dell’intensità luminosa delle anime beate, descritte come splendori talmente abbaglianti da superare qualsiasi esperienza terrena di luce. Questa amplificazione serve a comunicare l’incommensurabilità della gloria celeste rispetto al mondo sensibile.

L’anastrofe, inversione dell’ordine naturale delle parole, è frequente nel canto e conferisce solennità al dettato poetico, come in “al quale ha posto mano e cielo e terra” (v. 2), dove il complemento oggetto precede il verbo, o in “de la gloria futura, il qual produce / grazia divina” (vv. 68-69), dove il complemento precede il soggetto.

Infine, il canto è ricco di simbolismi, sebbene non siano figure retoriche in senso stretto. La luce come simbolo della grazia divina, il cappello (corona d’alloro) come simbolo della gloria poetica, e il fonte battesimale come simbolo di rinascita spirituale arricchiscono il tessuto simbolico del canto, creando un intreccio di significati letterali e allegorici.

Questa straordinaria ricchezza retorica permette a Dante di superare i limiti del linguaggio umano nel tentativo di esprimere realtà trascendenti, rendendo il Canto XXV un capolavoro di poesia teologica in cui forma e contenuto raggiungono una perfetta simbiosi.

Temi principali del 25 canto della Paradiso della Divina Commedia

Il Canto 25 del Paradiso sviluppa diversi temi fondamentali che si intrecciano in una complessa architettura poetica e teologica. Al centro dell’intero canto troviamo la virtù teologale della speranza, esaminata nella sua dimensione dottrinale e vissuta nell’esperienza personale del poeta.

Il primo tema rilevante è l’autobiografia trasfigurata. L’esordio del canto, con l’immagine del poeta esule che sogna di tornare a patria coronato d’alloro, trasforma il desiderio personale di Dante in un paradigma universale. La speranza del ritorno a Firenze si innalza a simbolo della tensione dell’anima verso la beatitudine celeste, creando un ponte tra esperienza terrena e aspirazione ultraterrena.

Centrale è la definizione teologica della speranza come “attender certo della gloria futura”. Dante riprende la formulazione di Pietro Lombardo, inserendola in un contesto di dialogo sapienziale con san Giacomo. La speranza viene presentata come prodotto della grazia divina e del merito precedente, sottolineando la complementarità tra dono celeste e impegno umano nella salvezza.

Il terzo tema fondamentale è il simbolismo della luce e della visione. La cecità temporanea di Dante di fronte allo splendore di san Giovanni rappresenta i limiti della comprensione umana davanti ai misteri divini, anticipando la necessità di una trasformazione spirituale per accedere alla visione di Dio.

Il Canto 25 del Paradiso in pillole

AspettiDescrizione/Sintesi
RiassuntoIl canto si apre con l’auspicio di Dante di tornare a Firenze grazie alla fama del suo poema. Segue l’esame sulla virtù teologale della speranza condotto da San Giacomo, durante il quale Dante fornisce una definizione dottrinale di questa virtù. Infine appare San Giovanni, la cui luce abbagliante acceca temporaneamente il poeta, preparando l’esame sulla carità che avverrà nel canto successivo.
PersonaggiDante: protagonista sottoposto all’esame sulla speranza
Beatrice: guida che incoraggia e sostiene Dante durante l’esame
San Giacomo: apostolo esaminatore, simbolo della speranza
San Pietro: già presente dal canto precedente, testimone dell’esame
San Giovanni: nuova apparizione che prepara l’esame sulla carità
Temi PrincipaliSperanza personale: il desiderio di ritorno a Firenze
Speranza teologale: l'”attender certo della gloria futura”
Esilio e redenzione: la trasformazione del poeta attraverso la sofferenza
La triade delle virtù teologali: posizione centrale della speranza tra fede e carità
Simbolismo della luce: rappresentazione della conoscenza divina
Figure RetoricheMetafore: “bello ovile” (Firenze), “agnello” (Dante), “lupi” (nemici politici)
Similitudini: l’accecamento paragonato a chi osserva un’eclissi
Perifrasi: “sommo cantor del sommo duce” (Davide)
Allitterazioni: “con altra voce… con altro vello”
Immagini di luce: descrizioni di splendori, lampi e fulgori celesti
Significato AllegoricoIl canto simboleggia il cammino dell’anima umana che, sostenuta dalla speranza, procede verso la visione divina. La cecità temporanea di Dante rappresenta i limiti della comprensione umana di fronte ai misteri divini. L’intreccio tra esperienza personale (esilio) e dimensione universale (salvezza) riflette la capacità della poesia di trascendere il contingente per raggiungere l’eterno. La speranza del ritorno a Firenze diventa metafora della speranza cristiana della beatitudine celeste.

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