Divina Commedia, Canto 26 Inferno: testo, parafrasi e commento

Divina Commedia, Canto 26 Inferno: testo, parafrasi e figure retoriche

Il Canto 26 dell’Inferno della Divina Commedia è situato nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio infernale, precisamente nella bolgia dei consiglieri fraudolenti. Questo canto è particolarmente noto per l’incontro con Ulisse, figura emblematica che incarna uno dei temi centrali dell’opera dantesca: il conflitto tra la sete di conoscenza e i limiti imposti all’uomo.

Indice:

Canto 26 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi

Testo OriginaleParafrasi
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grandeGioisci, Firenze, poiché sei così potente
che per mare e per terra batti l’ali,che per mare e per terra estendi la tua influenza,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande!e perfino nell’inferno il tuo nome si diffonde!
Tra li ladron trovai cinque cotaliTra i ladri ho trovato cinque tuoi concittadini di tale importanza
tuoi cittadin onde mi ven vergogna,che ne provo vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.e tu non ne ricevi grande onore.
Ma se presso al mattin del ver si sogna,Ma se è vero che i sogni fatti sul mattino sono veritieri,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,tu soffrirai, fra non molto tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.ciò che ti augura persino Prato, per non parlare di altri.
E se già fosse, non saria per tempo.E se fosse già avvenuto, non sarebbe troppo presto.
Così foss’ei, da che pur esser dee!Così fosse già accaduto, dal momento che comunque deve accadere!
ché più mi graverà, com’più m’attempo.Perché mi peserà di più, quanto più invecchio.
Noi ci partimmo, e su per le scaleeNoi ci allontanammo, e su per i gradini
che n’avea fatto iborni a scender pria,che in precedenza ci avevano permesso di scendere
rimontò ‘l duca mio e trasse mee;risalì la mia guida e mi condusse dietro di sé;
e proseguendo la solinga via,e proseguendo per il solitario cammino,
tra le schegge e tra ‘ rocchi de lo scogliotra le schegge e le sporgenze dello scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.il piede senza l’aiuto della mano non avrebbe avanzato.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglioAllora mi addolorai, e ancora mi addoloro
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,quando rivolgo la mente a ciò che vidi,
e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio,e freno il mio ingegno più del solito,
perché non corra che virtù nol guidi;perché non proceda senza la guida della virtù;
sì che, se stella bona o miglior cosacosì che, se una buona stella o una forza superiore
m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi.mi ha concesso un dono, io stesso non me ne privi.
Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa,Quante volte il contadino che riposa sul colle,
nel tempo che colui che ‘l mondo schiaranel periodo in cui il sole che illumina il mondo
la faccia sua a noi tien meno ascosa,mostra il suo volto a noi per più tempo,
come la mosca cede alla zanzara,quando la mosca cede il posto alla zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,vede lucciole giù per la vallata,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:forse là dove vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendeadi altrettante fiamme risplendeva tutta
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsil’ottava bolgia, come mi resi conto
tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea.non appena giunsi dove se ne scorgeva il fondo.
E qual colui che si vengiò con li orsiE come colui (Eliseo) che si vendicò con gli orsi
vide ‘l carro d’Elia al dipartire,vide il carro di Elia allontanarsi,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,quando i cavalli si levarono dritti verso il cielo,
che nol potea sì con li occhi seguire,che non poteva seguirlo con gli occhi,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,così da vedere altro che la fiamma
sì come nuvoletta, in sù salire:salire in alto come una nuvoletta:
tal si move ciascuna per la golacosì si muove ciascuna (fiamma) per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ‘l furto,del fossato, senza che alcuna mostri ciò che nasconde,
e ogne fiamma un peccatore invola.e ogni fiamma cela un peccatore.
Io stava sovra ‘l ponte a veder surto,Io stavo eretto sul ponte a guardare,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,tanto che se non mi fossi aggrappato a una sporgenza,
caduto sarei giù sanz’esser urto.sarei caduto giù senza essere spinto.
E ‘l duca, che mi vide tanto atteso,E la mia guida, che mi vide tanto assorto,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;disse: «Dentro ai fuochi ci sono gli spiriti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso».ciascuno è avvolto da ciò che lo brucia».
«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti«Maestro mio», risposi, «dopo averti udito
son io più certo; ma già m’era avvisosono più sicuro; ma già mi ero immaginato
che così fosse, e già voleva dirti:che fosse così, e già volevo chiederti:
chi è ‘n quel foco che vien sì divisochi è in quel fuoco che viene così diviso
di sopra, che par surger de la piranella parte superiore, che sembra sorgere dalla pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?».dove furono posti Eteocle e suo fratello?».
Rispuose a me: «Là dentro si martiraMi rispose: «Là dentro sono tormentati
Ulisse e Diomede, e così insiemeUlisse e Diomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;vanno verso la punizione come furono complici nella colpa;
e dentro da la lor fiamma si gemee dentro la loro fiamma si piange
l’agguato del caval che fé la portal’inganno del cavallo che aprì la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.da cui uscì il nobile seme dei Romani.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,Vi si piange l’inganno per cui, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,Deidamia ancora si duole di Achille,
e del Palladio pena vi si porta».e vi si sconta la colpa del furto del Palladio».
«S’ei posson dentro da quelle faville«Se essi possono parlare all’interno di quelle scintille
parlar», diss’io, «maestro, assai ten priegoti prego molto, o maestro,
e ripriego, che ‘l priego vaglia mille,e ti prego nuovamente, che la preghiera valga mille volte,
che non mi facci de l’attender niegoche tu non mi neghi di aspettare
fin che la fiamma cornuta qua venga;finché la fiamma biforcuta giunga qui;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!».vedi che per il desiderio mi protendo verso di essa!».
Ed elli a me: «La tua preghiera è degnaEd egli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;di molte lodi, e io perciò l’accolgo;
ma fa che la tua lingua si sostenga.ma bada che la tua lingua si trattenga.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concettoLascia parlare a me, perché ho capito
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,ciò che tu vuoi; poiché essi sarebbero riluttanti,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto».essendo stati greci, forse a rispondere alle tue parole».
Poi che la fiamma fu venuta quiviDopo che la fiamma fu giunta lì
dove parve al mio duca tempo e loco,dove parve alla mia guida il momento e il luogo opportuni,
in questa forma lui parlare audivi:lo udii parlare in questo modo:
«O voi che siete due dentro ad un foco,«O voi che siete in due dentro un solo fuoco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,se io meritai qualcosa da voi mentre ero in vita,
s’io meritai di voi assai o pocose io meritai da voi tanto o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,quando nel mondo scrissi i miei versi sublimi,
non vi movete; ma l’un di voi dicanon allontanatevi; ma uno di voi mi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».dove andò a morire, dopo essersi perduto».
Lo maggior corno de la fiamma anticaLa punta maggiore dell’antica fiamma
cominciò a crollarsi mormorandocominciò ad agitarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;proprio come quella che il vento fa tremolare;
indi la cima qua e là menando,quindi, muovendo la punta qua e là,
come fosse la lingua che parlasse,come fosse la lingua che parlava,
gittò voce di fuori, e disse: «Quandoemise una voce, e disse: «Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrassemi allontanai da Circe, che mi trattenne
me più d’un anno là presso a Gaeta,per più di un anno là presso Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,prima che Enea la chiamasse così,
né dolcezza di figlio, né la pietané la dolcezza del figlio, né la pietà
del vecchio padre, né ‘l debito amoreper il vecchio padre, né il doveroso amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,che avrebbe dovuto rendere felice Penelope,
vincer potero dentro a me l’ardorepoterono vincere dentro di me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo espertoche ebbi di conoscere il mondo
e de li vizi umani e del valore;e i vizi umani e le virtù;
ma misi me per l’alto mare apertoma mi avventurai per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagnasolo con una nave e con quella compagnia
picciola da la qual non fui diserto.esigua dalla quale non fui abbandonato.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,Vidi l’una e l’altra sponda fino alla Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,fino al Marocco, e l’isola dei Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.e le altre che quel mare bagna tutt’intorno.
Io e ‘ compagni eravam vecchi e tardiIo e i compagni eravamo vecchi e lenti
quando venimmo a quella foce strettaquando giungemmo a quella stretta foce
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,dove Ercole pose i suoi segnali,
acciò che l’uom più oltre non si metta:affinché l’uomo non si spingesse oltre:
da la man destra mi lasciai Sibilia,dalla mano destra mi lasciai Siviglia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.dall’altra avevo già lasciato Ceuta.
“O frati”, dissi “che per cento milia“O fratelli”, dissi “che attraverso centomila
perigli siete giunti a l’occidente,pericoli siete giunti all’occidente,
a questa tanto picciola vigiliaa questa tanto breve veglia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente,dei nostri sensi che ci resta da vivere,
non vogliate negar l’esperïenza,non vogliate negare l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.seguendo il sole, del mondo disabitato.
Considerate la vostra semenza:Considerate la vostra origine:
fatti non foste a viver come bruti,non foste fatti per vivere come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.ma per seguire virtù e conoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì aguti,Resi i miei compagni così desiderosi,
con questa orazion picciola, al cammino,con questo breve discorso, di proseguire il viaggio,
che a pena poscia li avrei ritenuti;che a fatica dopo li avrei trattenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,e volta la nostra poppa verso oriente,
de’ remi facemmo ali al folle volo,dei remi facemmo ali per il folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.sempre avanzando dal lato sinistro.
Tutte le stelle già de l’altro poloTutte le stelle già dell’altro polo
vedea la notte e ‘l nostro tanto basso,vedeva la notte, e il nostro era tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.che non emergeva dalla superficie marina.
Cinque volte racceso e tante cassoCinque volte si era raccesa e tante volte spenta
lo lume era di sotto da la luna,la luce nella parte inferiore della luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,dal momento che eravamo entrati nell’ardua traversata,
quando n’apparve una montagna, brunaquando ci apparve una montagna, scura
per la distanza, e parvemi alta tantoper la distanza, e mi sembrò tanto alta
quanto veduta non avëa alcuna.quanto non ne avevo mai vista nessuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,Noi ci rallegrammo, e subito la gioia si tramutò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,poiché dalla nuova terra nacque un turbine,
e percosse del legno il primo canto.e percosse della nave la parte anteriore.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;Tre volte la fece girare insieme a tutte le acque;
a la quarta levar la poppa in susoalla quarta sollevò la poppa in alto
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,e la prua andò giù, come piacque a qualcun altro,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”.finché il mare si richiuse sopra di noi”.

Canto 26 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione

Il Canto 26 dell’Inferno della Divina Commedia ci introduce nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio infernale, Malebolge, dove vengono puniti i consiglieri fraudolenti. Dante e Virgilio osservano numerose fiamme che si muovono come lingue di fuoco: ogni fiamma racchiude un peccatore, simboleggiando come l’intelletto una volta usato per ingannare ora li consumi eternamente.

Il canto si apre con un’amara invettiva contro Firenze. Dante, indignato per aver incontrato tanti fiorentini tra i ladri nella settima bolgia, ironizza sulla “grandezza” della sua città natale, la cui fama si diffonde perfino nell’Inferno.

I due poeti si affacciano poi sull’ottava bolgia. Virgilio spiega a Dante che ogni fiamma nasconde un peccatore punito per aver usato l’ingegno con intenti fraudolenti. L’attenzione si concentra in particolare su una fiamma biforcuta, che cela due anime insieme: Ulisse e Diomede, compagni nelle imprese durante la guerra di Troia. Qui sono puniti per tre inganni: il cavallo di Troia, il furto del Palladio e l’inganno con cui Ulisse convinse Achille a partecipare alla guerra.

Dante, incuriosito, chiede a Virgilio di poter parlare con loro. È Ulisse a prendere la parola, narrando la sua ultima impresa: dopo essere tornato a Itaca, l’eroe greco non ha saputo resistere al desiderio di conoscere il mondo e di acquisire esperienza. Abbandonati la famiglia e gli affetti, si è rimesso in mare con un piccolo gruppo di compagni fedeli.

Particolarmente celebre è il discorso che Ulisse rivolge ai suoi marinai per convincerli ad affrontare l’ignoto:

O frati”, dissi, “che per cento milia / perigli siete giunti a l’occidente, / a questa tanto picciola vigilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente / non vogliate negar l’esperïenza, / di retro al sol, del mondo sanza gente. / Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza“.

Con queste parole, Ulisse esprime l’ideale classico della conoscenza come fine supremo dell’esistenza umana. I compagni, infiammati dal discorso, decidono di seguirlo oltre le Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra), limite simbolico imposto all’uomo nell’antichità.

Dopo cinque mesi di navigazione nell’oceano sconosciuto, l’equipaggio avvista una montagna altissima e scura (che la critica identifica con il monte del Purgatorio). Ma proprio quando sembra che l’impresa stia per compiersi, si scatena un turbine che fa ruotare la nave tre volte prima di farla affondare – “com’altrui piacque”, come piacque a Dio, sottolinea Ulisse, riconoscendo implicitamente l’intervento divino nella sua sconfitta.

Questo episodio, il “folle volo” di Ulisse, rappresenta uno dei momenti più intensi e significativi dell’intera Divina Commedia. Attraverso la figura dell’eroe greco, Dante esplora la tensione tra il nobile desiderio umano di conoscenza e i limiti imposti da Dio. L’ardore conoscitivo di Ulisse viene punito perché, svincolato dalla guida della fede, diventa hybris, superbia intellettuale che sfida l’ordine divino.

Il naufragio finale simboleggia l’inevitabile fallimento di ogni tentativo umano di raggiungere la verità contando solo sulle proprie forze intellettuali, senza l’ausilio della grazia divina – tema centrale nella visione teologica di Dante.

Canto 26 Inferno della Divina Commedia: i personaggi

Il canto 26 dell’Inferno della Divina Commedia si distingue per un cast di personaggi particolarmente significativo, dominato dalla figura di Ulisse che assume un ruolo emblematico nell’intero impianto della Divina Commedia.

Il protagonista indiscusso è Ulisse (o Odisseo), l’eroe greco presentato in una veste profondamente diversa rispetto alla tradizione omerica. L’Ulisse dantesco non è più l’uomo del nostos (il ritorno in patria) ma diventa simbolo dell’insaziabile sete di conoscenza. Dante lo colloca tra i consiglieri fraudolenti per l’inganno del cavallo di Troia, il furto del Palladio e l’astuzia usata per scoprire Achille nascosto a Sciro. Tuttavia, la sua caratterizzazione va ben oltre la semplice punizione: Ulisse incarna la tragedia dell’intelletto umano che, pur nella sua grandezza, si spinge oltre i limiti consentiti. Il suo celebre discorso ai compagni rivela una nobiltà d’animo e un’eloquenza straordinarie, rendendo la sua figura ambivalente: da una parte peccatore condannato, dall’altra spirito magnanimo mosso da ideali elevati.

Diomede condivide con Ulisse la stessa fiamma bifida, simbolo della loro complicità nei medesimi inganni. Pur essendo presente nella narrazione, Dante non gli concede voce. Questa scelta narrativa è significativa: mentre Ulisse rappresenta la parola persuasiva e la sete di conoscenza, Diomede rimane silenzioso, sottolineando come sia l’aspetto intellettuale della frode, più che quello guerriero, a interessare il poeta.

I compagni di Ulisse compaiono nel racconto retrospettivo dell’eroe greco. Rappresentano nell’economia del canto la massa che si lascia persuadere dall’eloquenza del leader. La loro obbedienza cieca alle parole di Ulisse li conduce a condividerne il destino tragico, diventando simbolo di come l’autorità intellettuale possa trascinare gli altri verso la rovina.

Virgilio svolge nell’episodio un ruolo particolarmente complesso. In quanto poeta che celebrò Ulisse nell’Eneide, si fa mediatore tra l’eroe greco e Dante, rivolgendosi a lui con rispetto («O tu che sei due dentro ad un foco»). Tuttavia, rappresenta anche la ragione che riconosce i propri limiti, in contrasto con l’hybris di Ulisse. Non è casuale che sia Virgilio a parlare con l’eroe greco, creando un dialogo tra due mondi: quello della saggezza classica e quello della nuova visione cristiana.

Dante personaggio osserva la scena con emozione intensa, tanto da dover essere trattenuto da Virgilio per evitare che cada nella bolgia. La sua reazione emotiva rivela una profonda empatia verso Ulisse, suggerendo una segreta identificazione con la figura dell’eroe votato alla conoscenza. Questo parallelismo è fondamentale: entrambi compiono un viaggio straordinario, ma mentre Ulisse procede solo con la forza dell’intelletto e fallisce, Dante avanza con la guida della ragione illuminata dalla fede.

Dante autore, infine, si manifesta all’inizio del canto con l’invettiva contro Firenze. Questa presenza autoriale crea un ulteriore livello di complessità: il poeta condanna moralmente Ulisse ma ne ammira segretamente l’ardimento, rivelando una tensione interiore tra l’adesione alla dottrina cristiana e la fascinazione per l’ideale classico della conoscenza.

Il sistema dei personaggi del canto crea dunque una rete di relazioni simboliche che arricchisce il significato profondo del testo, illustrando il conflitto tra la visione pagana e cristiana del sapere attraverso figure emblematiche della tradizione occidentale.

Analisi del Canto 26 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi

Il Canto 26 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta uno dei momenti più significativi del viaggio ultraterreno di Dante, caratterizzato da una straordinaria complessità tematica e narrativa. Il poeta fiorentino costruisce un canto dove la tensione tra intelletto umano e autorità divina raggiunge il suo apice simbolico attraverso la figura di Ulisse.

L’architettura narrativa del canto si sviluppa con raffinata progressione: inizia con un’invettiva contro Firenze, prosegue con la descrizione delle fiamme che racchiudono i peccatori, per poi culminare nel racconto del “folle volo”. Questa struttura permette a Dante di intrecciare dimensione politica, morale e teologica in un unico tessuto narrativo. Il passaggio dalla condanna della propria città alla contemplazione della punizione dei fraudolenti stabilisce un parallelo implicito tra la corruzione civica e l’abuso dell’intelletto.

Centrale nell’economia tematica del canto è il conflitto tra ambizione intellettuale e limiti imposti dalla fede. Ulisse incarna la tragica grandezza dell’uomo che, spinto da “l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto”, sfida i confini stabiliti dal divino. Il suo racconto è strutturato come una confessione che rivela insieme la nobiltà e la colpa: la ricerca della conoscenza, virtù in sé, diventa peccato quando travalica l’ordine morale.

Il discorso di Ulisse ai compagni (“Considerate la vostra semenza…”) costituisce un capolavoro di retorica persuasiva che esemplifica la pericolosità dell’eloquenza quando diventa strumento di seduzione intellettuale. La narrazione dantesca crea una sottile ambiguità: il lettore è contemporaneamente attratto dalla grandezza del progetto conoscitivo e consapevole della sua natura trasgressiva.

L’episodio del naufragio, con la improvvisa tempesta che sommerge la nave, rappresenta il momento in cui la volontà divina riafferma i confini della conoscenza umana. La formula “com’altrui piacque” condensa in tre parole la dialettica tra libertà umana e provvidenza divina che permea tutta la Commedia. Il mare che si richiude sopra Ulisse simboleggia la definitiva impossibilità dell’intelletto di accedere, senza la guida della fede, alle verità ultime.

Il contrasto tra il viaggio di Ulisse e quello di Dante costituisce uno degli elementi narrativi più significativi. Entrambi si avventurano oltre i confini del mondo conosciuto, ma mentre l’eroe greco procede guidato solo dalla propria ragione, Dante avanza con l’ausilio della grazia divina. Virgilio stesso, simbolo della ragione umana, è autorizzato a guidare il poeta solo entro precisi limiti. Il “folle volo” di Ulisse diventa così controparte negativa del viaggio salvifico di Dante.

La hybris, concetto centrale della tragedia greca, viene reinterpretata in chiave cristiana: la superbia intellettuale che spinge l’uomo a rifiutare i limiti della propria condizione divina diventa il peccato fondamentale. Non è la sete di conoscenza in sé ad essere condannata, ma la presunzione di poter raggiungere la verità senza l’umiltà necessaria ad accogliere la rivelazione.

La dimensione simbolica del canto si arricchisce attraverso la rappresentazione dello spazio: le Colonne d’Ercole, tradizionale limite del mondo antico, assumono valore allegorico come confine tra conoscenza lecita e illecita. La montagna intravista da Ulisse prima del naufragio, identificabile con il Purgatorio, suggerisce l’impossibilità di accedere alla salvezza attraverso la sola ragione.

L’aspetto narrativo più innovativo del canto consiste nella capacità di Dante di trasformare un mito classico in veicolo di una visione cristiana del mondo. Il poeta reinterpreta la figura di Ulisse, assente nella Commedia come personaggio diretto ma evocato attraverso il racconto in prima persona, conferendole una profondità psicologica e un significato allegorico che trascendono la tradizione classica.

Figure retoriche nel Canto 26 dell’Inferno della Divina Commedia

Il Canto 26 dell’Inferno rappresenta uno dei vertici stilistici della Divina Commedia, dove Dante dispiega un ampio repertorio di figure retoriche per intensificare il messaggio poetico e morale dell’incontro con Ulisse.

La metafora domina l’intero canto, a partire dall’immagine centrale delle fiamme biforcute che avvolgono i peccatori. Questa potente figura simboleggia come l’intelletto, strumento divino usato per ingannare, ora bruci eternamente i consiglieri fraudolenti. Particolarmente significativa è la «fiamma cornuta» che racchiude Ulisse e Diomede, rappresentazione visiva della loro unione nel peccato e della natura duplice dell’inganno perpetrato.

Numerose similitudini arricchiscono il tessuto poetico del canto. Nei versi iniziali, Dante paragona le fiamme ai fuochi estivi che attirano le lucciole: «Quante il villan ch’al poggio si riposa, / nel tempo che colui che ‘l mondo schiara / la faccia sua a noi tien meno ascosa». Questa similitudine bucolica crea un contrasto stridente con la realtà infernale, amplificandone l’effetto drammatico.

L’apostrofe apre il canto con l’invettiva contro Firenze: «Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande». Il tono sarcastico dell’invocazione, che finge di esaltare la città per in realtà condannarla, è un esempio dell’ironia dantesca che attraverso l’antifrasi esprime il suo sdegno morale.

Il discorso di Ulisse ai compagni rappresenta un capolavoro di climax retorico, costruito con progressiva intensità emotiva fino al celebre verso «fatti non foste a viver come bruti». Qui l’antitesi tra la condizione bestiale e la nobiltà della conoscenza umana raggiunge il suo apice espressivo, rafforzata dall’allitterazione della consonante “v” (“viver”, “virtute”) che conferisce ritmo e memorabilità al passaggio.

Gli enjambement sono utilizzati con maestria per creare suspense narrativa, particolarmente evidenti nella descrizione del naufragio: «Tre volte il fé girar con tutte l’acque; / a la quarta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù». La spezzatura del verso mima visivamente il movimento della nave che affonda.

Un’altra figura fondamentale è la perifrasi, come quella usata per designare il mediterraneo: «quel mar che la terra inghirlanda», che conferisce solennità epica al racconto di Ulisse. Anche le Colonne d’Ercole vengono indicate attraverso la perifrasi «dov’Ercule segnò li suoi riguardi», elevando il tono narrativo e sottolineando la gravità della trasgressione.

L’iperbole arricchisce il racconto del viaggio quando Ulisse afferma di aver affrontato «cento milia perigli», amplificando la portata delle difficoltà superate e, implicitamente, la magnitudine della presunzione umana.

Il chiasmo «l’occidente del mondo senza gente» crea una struttura simmetrica che enfatizza l’ignoto verso cui si dirige l’eroe greco, mentre la sineddoche «nessun maggior dolore» condensa in poche parole la tragedia esistenziale dell’ambizione intellettuale senza guida morale.

Particolarmente efficace è l’uso dell’ossimoro «folle volo», che racchiude in due parole contrastanti tutta l’ambiguità del gesto di Ulisse: nobile nella sua audacia conoscitiva ma condannabile nella sua hybris. Questa figura retorica rappresenta perfettamente la tensione morale al centro del canto.

La conclusione del racconto è suggellata da un potente eufemismo: «com’altrui piacque», che vela dietro la formulazione attenuata l’intervento divino che pone fine alla trasgressione umana. Questa figura sottolinea la sproporzione tra la volontà umana e quella divina, tema centrale dell’intero episodio.

Temi principali del 26 canto dell’Inferno della Divina Commedia

Il Canto 26 dell’Inferno è caratterizzato da una straordinaria densità tematica che ne fa uno dei passaggi più significativi dell’intera Divina Commedia. Al centro dell’episodio si colloca il tema della conoscenza come tentazione, rappresentato dal viaggio di Ulisse oltre i confini del mondo conosciuto. L’eroe greco incarna l’intelletto che, spinto da un’insaziabile sete di sapere, travalica i limiti imposti all’uomo.

L’hybris, concetto fondamentale nella cultura classica, viene reinterpretata da Dante in chiave cristiana: la superbia intellettuale diventa peccato quando pretende di sostituirsi all’umiltà della fede. Il celebre discorso di Ulisse ai compagni («Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza») esprime un ideale apparentemente nobile che tuttavia, privo della guida della fede, conduce alla rovina.

Il conflitto tra ragione e fede costituisce il nucleo filosofico del canto. Dante non condanna la ricerca del sapere in sé, ma la presunzione dell’intelletto di bastare a se stesso. In questo senso, il naufragio di Ulisse rappresenta il fallimento inevitabile di ogni tentativo umano di raggiungere la verità ultima senza l’ausilio della grazia divina.

La metafora del viaggio assume una valenza esistenziale: quello di Ulisse è un «folle volo» perché privo della legittimazione divina, a differenza del viaggio di Dante che è voluto da Dio. Il simbolismo della montagna del Purgatorio, che Ulisse intravede ma non può raggiungere, sintetizza efficacemente l’impossibilità della salvezza attraverso la sola ragione umana.

Nel contrasto tra virtù pagana e virtù cristiana, infine, Dante esprime la sua visione della conoscenza come cammino che deve sempre riconoscere i propri limiti, pena la perdizione.

Il Canto 26 della Inferno in pillole

AspettoDescrizioneElemento Chiave/Citazione
CollocazioneOttava bolgia dell’ottavo cerchio (Malebolge)Luogo di punizione dei consiglieri fraudolenti
PenaAnime avvolte da fiamme individuali“Ciascun si fascia di quel ch’egli è inceso”
Personaggi principaliUlisse e Diomede (nella stessa fiamma biforcuta)Simboli dell’intelligenza usata per ingannare
Altri personaggiDante, Virgilio, compagni di UlisseDante mostra profonda ammirazione e curiosità
Discorso di UlisseEsortazione ai compagni per intraprendere il viaggio“Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”
Folle voloViaggio oltre le Colonne d’ErcoleSfida ai limiti imposti da Dio all’umanità
NaufragioPunizione divina per l’hybris“Infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”
Figure retoricheMetafore, apostrofi, similitudini, climaxFiamma come lingua di fuoco che parla
Temi principaliHybris intellettuale, limiti della conoscenza umanaContrasto tra ambizione umana e volontà divina
Contrasto simbolicoViaggio di Ulisse vs. viaggio di DanteRagione senza fede vs. ragione illuminata dalla grazia

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