Nel Canto 27 dell’Inferno della Divina Commedia sono puniti i consiglieri fraudolenti, e viene messo in scena il dialogo tra il poeta e Guido da Montefeltro, anima condannata per aver fornito un consiglio ingannevole a papa Bonifacio VIII. La narrazione intreccia critica ecclesiastica, riflessioni morali sul pentimento e una vivida rappresentazione della giustizia divina, offrendo uno spaccato delle complesse tensioni politiche e religiose dell’Italia medievale.
Indice:
- Canto 27 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 27 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 27 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 27 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 27 dell’Inferno della Divina Commedia
- Temi principali del 27 canto dell’Inferno della Divina Commedia
- Il Canto 27 dell’Inferno in pillole
Canto 27 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
Testo originale | Parafrasi |
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Già era dritta in sù la fiamma e queta per non dir più, e già da noi sen gia con la licenza del dolce poeta, | La fiamma era già dritta verso l’alto e ferma perché non aveva più nulla da dire, e già si allontanava da noi con il permesso di Virgilio, |
quand’un’altra, che dietro a lei venìa, ne fece volger li occhi a la sua cima per un confuso suon che fuor n’uscia. | quando un’altra fiamma, che veniva dietro ad essa, ci fece volgere gli occhi alla sua punta a causa di un suono confuso che ne usciva. |
Come ‘l bue cicilian che mugghiò prima col pianto di colui, e ciò fu dritto, che l’avea temperato con sua lima, | Come il toro siciliano che muggì per la prima volta per le grida di colui (Perillo), e ciò fu giusto, che lo aveva costruito con la sua lima, |
mugghiava con la voce de l’afflitto, sì che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto; | muggiva con la voce dell’uomo sofferente, così che, sebbene fosse di rame, sembrava comunque trafitto dal dolore; |
così, per non aver via né forame dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertïan le parole grame. | così, non avendo la fiamma un’apertura dalla sua punta, le parole dolorose si trasformavano nel loro caratteristico linguaggio. |
Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio su per la punta, dandole quel guizzo che dato avea la lingua in lor passaggio, | Ma dopo che ebbero trovato la loro via attraverso la punta, facendo quel guizzo che aveva fatto la lingua nel loro passaggio, |
udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo la voce e che parlavi mo’ lombardo, dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”, | udimmo dire: «O tu al quale io rivolgo la voce e che parlavi ora in dialetto lombardo, dicendo “Ora vai via, non ti trattengo più”, |
perch’io sia giunto forse alquanto tardo, non t’incresca restare a parlar meco; vedi che non incresce a me, e ardo! | anche se forse sono arrivato un po’ in ritardo, non ti dispiaccia fermarti a parlare con me; vedi che non dispiace a me, pur bruciando! |
Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se’ di quella dolce terra latina ond’io mia colpa tutta reco, | Se tu sei caduto solamente ora in questo mondo tenebroso da quella dolce terra italiana da cui io porto tutta la mia colpa, |
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch’io fui d’i monti là intra Orbino e ‘l giogo di che Tever si diserra». | dimmi se i romagnoli sono in pace o in guerra; poiché io fui di quei monti situati tra Urbino e il monte da cui nasce il Tevere». |
Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tentò di costa, dicendo: «Parla tu; questi è latino». | Io ero ancora attento e chinato in basso, quando la mia guida mi toccò di fianco, dicendo: «Parla tu; questo è italiano». |
E io, ch’avea già pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: «O anima che se’ là giù nascosta, | E io, che avevo già pronta la risposta, senza indugio cominciai a parlare: «O anima che sei nascosta laggiù, |
Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni; ma ‘n palese nessuna or vi lasciai. | la tua Romagna non è, e non fu mai, senza guerra nei cuori dei suoi tiranni; ma apertamente non ne ho lasciata nessuna ora. |
Ravenna sta come stata è molt’anni: l’aguglia da Polenta la si cova, sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni. | Ravenna sta come è stata per molti anni: l’aquila dei da Polenta la domina, tanto che copre anche Cervia con le sue ali. |
La terra che fé già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova. | La città (Forlì) che già diede dura resistenza e fece un sanguinoso cumulo di francesi, si ritrova sotto gli artigli verdi (degli Ordelaffi). |
E ‘l mastin vecchio e ‘l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo, là dove soglion fan d’i denti succhio. | E il mastino vecchio e il nuovo di Verrucchio (Malatesta e Malatestino), che fecero scempio di Montagna de’ Parcitati, là dove sono soliti fare dei denti succhiello. |
Le città di Lamone e di Santerno conduce il lïoncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno. | Le città di Faenza e Imola sono governate dal leoncino dal nido bianco (Mainardo Pagani), che cambia schieramento dall’estate all’inverno. |
E quella cu’ il Savio bagna il fianco, così com’ella sie’ tra ‘l piano e ‘l monte, tra tirannia si vive e stato franco. | E quella (Cesena) che il fiume Savio bagna il fianco, così com’è situata tra la pianura e il monte, vive tra tirannia e stato libero. |
Ora chi se’, ti priego che ne conte; non esser duro più ch’altri sia stato, se ‘l nome tuo nel mondo tegna fronte». | Ora ti prego di raccontarci chi sei; non essere più restio di quanto altri siano stati, se vuoi che il tuo nome resista nel mondo». |
Poscia che ‘l foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, l’aguta punta mosse di qua, di là, e poi diè cotal fiato: | Dopo che la fiamma ebbe un po’ ruggito a suo modo, mosse la punta acuta di qua e di là, e poi emise questo fiato: |
«S’i’ credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo, questa fiamma staria sanza più scosse; | «Se io credessi che la mia risposta fosse rivolta a qualcuno che potesse tornare nel mondo, questa fiamma resterebbe immobile; |
ma però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero, sanza tema d’infamia ti rispondo. | ma poiché da questo fondo infernale non tornò mai vivo nessuno, se odo il vero, senza timore d’infamia ti rispondo. |
Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero, credendomi, sì cinto, fare ammenda; e certo il creder mio venìa intero, | Io fui uomo d’armi, e poi fui frate francescano, credendo, così vestito, di fare ammenda; e certamente il mio proposito si sarebbe avverato, |
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe; e come e quare, voglio che m’intenda. | se non fosse stato per il gran sacerdote (Bonifacio VIII), che sia maledetto!, che mi fece ricadere nei miei primi peccati; e come e perché, voglio che tu mi ascolti. |
Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe che la madre mi diè, l’opere mie non furon leonine, ma di volpe. | Mentre fui uomo in carne e ossa generato da mia madre, le mie azioni non furono da leone, ma da volpe. |
Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e sì menai lor arte, ch’al fine de la terra il suono uscie. | Le astuzie e gli inganni li conobbi tutti, e così praticai la loro arte, che la loro fama si diffuse fino ai confini della terra. |
Quando mi vidi giunto in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte, | Quando mi vidi giunto a quel punto della mia vita in cui ciascuno dovrebbe calare le vele e riporre le corde, |
ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe, e pentuto e confesso mi rendei; ahi miser lasso! e giovato sarebbe. | ciò che prima mi piaceva, allora m’increbbe, e pentito e confessato mi feci frate; ahi me misero! e sarebbe servito. |
Lo principe d’i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin né con Giudei, | Il capo dei nuovi Farisei (Bonifacio VIII), avendo guerra vicino al Laterano, e non contro Saraceni né contro Giudei, |
ché ciascun suo nimico era Cristiano, e nessun era stato a vincer Acri né mercatante in terra di Soldano, | poiché ciascun suo nemico era Cristiano, e nessuno era stato a conquistare Acri né mercante in terra del Sultano, |
né sommo officio né ordini sacri guardò in sé, né in me quel capestro che solea fare i suoi cinti più macri. | non rispettò in sé né il sommo ufficio né gli ordini sacri, né in me quel cordone che un tempo rendeva più magri coloro che lo cingevano. |
Ma come Costantin chiese Silvestro d’entro Siratti a guerir de la lebbre, così mi chiese questi per maestro | Ma come Costantino chiese a Silvestro dentro il monte Soratte di guarirlo dalla lebbra, così costui mi chiese come consigliere |
a guerir de la sua superba febbre; domandomi consiglio, e io tacetti perché le sue parole parver ebbre. | per guarire dalla sua febbre di superbia; mi domandò consiglio, e io tacqui perché le sue parole sembravano folli. |
E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti; finor t’assolvo, e tu m’insegna fare sì come Penestrino in terra getti. | E poi aggiunse: “Il tuo cuore non tema; fin d’ora ti assolvo, e tu insegnami a fare in modo che Palestrina cada a terra. |
Lo ciel poss’io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi che ‘l mio antecessor non ebbe care”. | Il cielo posso io chiudere e aprire, come tu sai; perciò sono due le chiavi che il mio predecessore (Celestino V) non ebbe care”. |
Allor mi pinser li argomenti gravi là ‘ve ‘l tacer mi fu avviso ‘l peggio, e dissi: “Padre, da che tu mi lavi | Allora mi spinsero gli argomenti pesanti là dove il tacere mi sembrò la cosa peggiore, e dissi: “Padre, dal momento che tu mi lavi |
di quel peccato ov’io mo cader deggio, lunga promessa con l’attender corto ti farà trïunfar ne l’alto seggio”. | di quel peccato in cui ora sto per cadere, una lunga promessa con un adempimento limitato ti farà trionfare nell’alto seggio”. |
Francesco venne poi, com’io fu’ morto, per me; ma un d’i neri cherubini li disse: “Non portar; non mi far torto. | Francesco venne poi, quando fui morto, a prendermi; ma uno dei cherubini neri gli disse: “Non portarlo via; non farmi torto. |
Venir se ne dee giù tra ‘ miei meschini perché diede ‘l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a’ crini; | Deve venire giù tra i miei dannati perché diede il consiglio fraudolento, dal quale in poi gli sono stato sempre alle calcagna; |
ch’assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente”. | perché non si può assolvere chi non si pente, né ci si può pentire e volere il male insieme per la contraddizione che non lo permette”. |
Oh me dolente! come mi riscossi quando mi prese dicendomi: “Forse tu non pensavi ch’io löico fossi!”. | Oh me infelice! come trasalii quando mi afferrò dicendomi: “Forse tu non pensavi che io fossi un logico!”. |
A Minòs mi portò; e quelli attorse otto volte la coda al dosso duro; e poi che per gran rabbia la si morse, | Mi portò da Minosse; e quello attorcigliò otto volte la coda al suo duro dorso; e poi, dopo essersela morsa per la grande rabbia, |
disse: “Questi è d’i rei del foco furo”; per ch’io là dove vedi son perduto, e sì vestito, andando, mi rancuro”. | disse: “Costui è tra i colpevoli del fuoco ladro”; per cui io là dove mi vedi sono dannato, e così vestito di fiamme, camminando, mi dolgo”. |
Quand’elli ebbe ‘l suo dir così compiuto, la fiamma dolorando si partio, torcendo e dibattendo ‘l corno aguto. | Quando ebbe così concluso il suo discorso, la fiamma dolente si allontanò, torcendo e dibattendo la sua punta aguzza. |
Noi passamm’oltre, e io e ‘l duca mio, su per lo scoglio infino in su l’altr’arco che cuopre ‘l fosso in che si paga il fio | Noi passammo oltre, io e la mia guida, su per lo scoglio fino al ponte successivo che copre la fossa in cui si paga il fio |
a quei che scommettendo acquistan carco. | a coloro che, seminando discordia, si caricano di colpa. |
Canto 27 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il Canto 27 dell’Inferno della Divina Commedia si colloca nell’ottavo cerchio, precisamente nell’ottava bolgia di Malebolge, dove sono puniti i consiglieri fraudolenti. Questa posizione è significativa nella geografia morale dantesca: più ci si avvicina al centro della terra, più gravi sono i peccati puniti. L’ottavo cerchio è dedicato alla frode, un peccato che Dante considera particolarmente grave perché implica l’abuso della ragione umana, dono divino che distingue l’uomo dalle bestie.
Il contrappasso per questi dannati consiste nell’essere eternamente avvolti in fiamme individuali che li nascondono alla vista, proprio come in vita usarono il linguaggio per nascondere le loro vere intenzioni dietro consigli ingannevoli. Il canto inizia subito dopo che Ulisse, protagonista del canto precedente, ha terminato il suo racconto. Una nuova fiamma si avvicina, attirando l’attenzione di Dante con il suo movimento oscillante e il suono confuso che emette.
Dante usa una potente similitudine per descrivere il suono emesso dalla fiamma: lo paragona al muggito del bue di bronzo inventato da Perillo per il tiranno Falaride, strumento di tortura che trasformava le urla delle vittime in versi animaleschi. Questo paragone anticipa la natura tormentata della comunicazione nel regno della frode, dove persino la parola diventa fonte di sofferenza.
La fiamma nasconde l’anima di Guido da Montefeltro, importante condottiero e politico ghibellino del XIII secolo. Prima di rivelare la sua identità, Guido chiede notizie della Romagna, sua terra natale, mostrando come anche nella dannazione eterna permanga l’attaccamento alle questioni terrene. Dante, attraverso questa richiesta, offre un vivido quadro della situazione politica romagnola, caratterizzata da lotte intestine e instabilità.
Dopo questo excursus politico, Guido racconta la propria storia: dopo una vita trascorsa tra inganni militari e strategie belliche (era conosciuto come “la volpe” per la sua astuzia), in vecchiaia aveva deciso di pentirsi indossando il saio francescano. Tuttavia, fu Papa Bonifacio VIII a indurlo nuovamente in tentazione, chiedendogli un consiglio fraudolento su come sconfiggere i Colonna, suoi nemici politici.
Il papa gli promise l’assoluzione anticipata per questo peccato, convincendolo a tradire il suo proposito di redenzione. Guido suggerì una falsa promessa di amnistia, celebre nella formula “lunga promessa con l’attender corto”, con cui Bonifacio sconfisse i suoi avversari. L’episodio diventa emblematico della critica dantesca alla corruzione ecclesiastica del suo tempo.
Il canto si conclude con uno straordinario colpo di scena: alla morte di Guido, mentre San Francesco si presenta per reclamare la sua anima, un diavolo logico interviene per contestare questo diritto. Con un ragionamento impeccabile, il demonio argomenta che non è possibile pentirsi e volere il peccato contemporaneamente, rivelando l’invalidità dell’assoluzione papale: “ch’assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente”.
La struttura del canto segue una progressione drammatica che culmina in questa sentenza definitiva, rivelando come la giustizia divina non possa essere ingannata con sofismi umani o autorità terrene. Il diavolo, paradossalmente, diventa portavoce della logica inflessibile che governa l’universo morale dantesco.
Attraverso la storia di Guido, Dante esplora temi universali come la responsabilità individuale, l’abuso di potere, l’inganno del linguaggio e la natura del vero pentimento, inserendoli nel contesto storico-politico della sua epoca ma conferendo loro un significato che trascende il tempo.
Canto 27 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
Nel canto 27 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante costruisce una complessa rete di personaggi che interagiscono in un dramma teologico e politico di grande intensità. Al centro della narrazione troviamo Guido da Montefeltro, condottiero ghibellino e abile stratega militare, la cui anima è intrappolata in una fiamma parlante. Guido rappresenta l’emblema del conflitto tra politica e fede: dopo una vita dedicata alle astuzie belliche, si era ritirato come frate francescano per espiare i propri peccati. La sua tragedia personale risiede nell’aver ceduto alle lusinghe papali, fornendo un consiglio fraudolento che lo ha condannato eternamente.
La figura di Papa Bonifacio VIII emerge come antagonista, sebbene non fisicamente presente nella bolgia. Definito ironicamente “principe dei nuovi farisei”, incarna la corruzione del potere ecclesiastico. Bonifacio rappresenta una critica diretta di Dante alla degenerazione della Chiesa: è lui che induce Guido al peccato, promettendogli un’assoluzione anticipata e sfruttando sacrilegamente il potere delle chiavi apostoliche per fini politici personali. La condanna di Dante è tanto più severa quanto più alta è la carica spirituale tradita.
Il rapporto tra Dante pellegrino e Virgilio si manifesta in questo canto attraverso una guida attenta e rispettosa. Virgilio media l’incontro con l’anima di Guido, invitando il dannato a parlare e permettendo a Dante di conoscere la sua storia. È interessante notare come Virgilio si presenti come “lombardo”, sottolineando un legame geografico con le terre settentrionali d’Italia che erano al centro delle lotte politiche dell’epoca.
La narrazione culmina con l’apparizione di due figure simboliche: San Francesco e un diavolo logico. Il santo, che viene a reclamare l’anima di Guido dopo la sua morte, rappresenta la misericordia divina e la speranza di redenzione. In contrappunto, il diavolo incarna la giustizia inflessibile e la logica implacabile: con un ragionamento serrato, dimostra l’invalidità dell’assoluzione papale, poiché “non si può assolvere chi non si pente, né pentirsi e volere il peccato allo stesso tempo”. Questo conflitto tra misericordia e giustizia diventa emblematico della visione dantesca dell’aldilà.
Un ruolo marginale ma significativo è riservato ai signori della Romagna: nella prima parte del dialogo, Guido chiede notizie della sua terra d’origine, mostrando come anche nell’eternità permanga l’attaccamento alle questioni terrene. Le figure di Malatesta, Polenta e altri signorotti locali tratteggiano un quadro della frammentazione politica italiana e delle lotte intestine che dilaniavano la penisola. Attraverso questi riferimenti, Dante collega la storia personale di Guido al più ampio contesto storico-politico, rendendo il suo peccato individuale specchio di una crisi collettiva.
L’interazione tra questi personaggi crea un microcosmo che riflette le complesse dinamiche morali ed etiche dell’intero poema: da un lato la responsabilità individuale di fronte alle scelte morali, dall’altro la corruzione di un sistema che manipola la fede per fini politici. La tragedia di Guido da Montefeltro diventa così una potente allegoria della condizione umana, divisa tra aspirazione alla redenzione e cedimento alle tentazioni del potere.
Analisi del Canto 27 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
Il canto 27 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta un momento cruciale nel viaggio ultraterreno di Dante, ricco di elementi tematici e narrativi che intrecciano morale, politica e teologia. La posizione nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i consiglieri fraudolenti, riflette la gravità che Dante attribuisce all’uso distorto della ragione e della parola.
La narrazione si apre con una potente similitudine che caratterizza l’intero canto: il paragone tra il suono emesso dalla fiamma contenente Guido da Montefeltro e il muggito del toro di bronzo inventato da Perillo per il tiranno Falaride. Questa immagine non è casuale: come il toro trasformava le urla umane in muggiti bestiali, così la fiamma distorce la voce del peccatore, simboleggiando come la frode alteri la verità in menzogna. Questa apertura stabilisce immediatamente il tono drammatico del canto e introduce il tema della metamorfosi come conseguenza del peccato.
Il racconto autobiografico di Guido costituisce il fulcro narrativo del canto, strutturato secondo una progressione temporale che rispecchia la parabola esistenziale del personaggio: dalla vita militare all’ingresso nell’ordine francescano, fino alla ricaduta nel peccato per il consiglio fraudolento offerto a Bonifacio VIII. Questa struttura narrativa consente a Dante di esplorare il tema della conversione mancata e dell’ipocrisia religiosa, elementi centrali della sua critica alla corruzione ecclesiastica.
Particolarmente significativo è il modo in cui Dante intreccia la storia personale di Guido con il più ampio contesto storico-politico della Romagna del XIII secolo. Il poeta dedica versi dettagliati alla descrizione delle città romagnole e dei loro signori, creando un affresco della situazione politica italiana caratterizzata da instabilità e conflitti. Questo excursus non è una digressione casuale, ma serve a radicare il peccato di Guido in un preciso contesto storico, mostrando come le scelte individuali siano influenzate dalle circostanze sociali e politiche.
L’elemento del contrappasso, principio cardine della giustizia divina nell’Inferno dantesco, trova in questo canto una delle sue espressioni più raffinate. I consiglieri fraudolenti sono avvolti in fiamme che riprendono la forma della lingua, strumento del loro peccato. L’impossibilità di vedere direttamente i dannati, nascosti nelle fiamme, rispecchia l’oscurità delle loro intenzioni in vita, quando celavano la malafede dietro consigli apparentemente saggi.
Al centro del canto emerge con forza il tema del conflitto tra autorità e coscienza individuale. Guido si trova in una posizione paradossale: diviso tra l’obbedienza all’autorità papale e la fedeltà ai suoi voti religiosi. Questo conflitto riflette una delle preoccupazioni fondamentali di Dante riguardo alla separazione tra potere temporale e spirituale, e all’abuso di quest’ultimo per fini politici. La figura di Bonifacio VIII incarna questa corruzione, usando il potere delle chiavi – il sacramento della confessione – come strumento politico anziché come mezzo di salvezza.
La conclusione del canto, con l’episodio della contesa tra San Francesco e il diavolo per l’anima di Guido, rappresenta uno dei momenti più drammatici dell’intera Commedia. Questo confronto allegorico introduce il tema dell’inflessibilità della logica divina: “non si può pentirsi e volere insieme peccare” diventa un principio filosofico che trascende il contesto religioso per affermare l’impossibilità logica di conciliare intenzioni contraddittorie. Tale concetto risuona come un monito universale sull’importanza della coerenza morale e sull’impossibilità di ingannare la giustizia divina come si ingannano gli uomini.
Figure retoriche nel Canto 27 dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 27 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta un capolavoro di retorica dantesca, dove le figure stilistiche non sono semplici ornamenti ma strumenti essenziali per trasmettere significati morali e teologici profondi. Dante utilizza un elaborato sistema di figure retoriche per rendere tangibile la condizione dei consiglieri fraudolenti e, in particolare, la tragica vicenda di Guido da Montefeltro.
La similitudine che apre il canto è tra le più potenti dell’intera Commedia. Nei versi 7-15, Dante paragona il suono confuso che esce dalla fiamma di Guido ai lamenti delle vittime nel toro di bronzo di Falaride: “Come ‘l bue cicilian che mugghiò prima / col pianto di colui, e ciò fu dritto, / che l’avea temperato con sua lima”. Questa similitudine non è casuale: stabilisce un parallelo tra lo strumento di tortura antico e la condizione dei dannati, sottolineando come la parola fraudolenta si trasformi in sofferenza eterna.
L’antitesi caratterizza diversi passaggi del canto, evidenziando le contraddizioni morali del protagonista. Particolarmente significativa è l’opposizione tra “cordigliero” (frate francescano) e “uom d’arme” che Guido usa per descrivere sé stesso, simboleggiando il conflitto irrisolto tra aspirazione spirituale e natura violenta. Ancora più drammatica è l’antitesi tra San Francesco, che viene a reclamare l’anima di Guido, e il “nero cherubino” che la rivendica per l’Inferno, rappresentando visivamente lo scontro tra redenzione e dannazione.
L’uso del chiasmo è particolarmente efficace nei versi dove Bonifacio VIII inganna Guido: “lunga promessa con l’attender corto” (v. 110). Questa figura retorica, con la sua struttura incrociata, riflette perfettamente l’inganno e la distorsione della verità tipici della frode.
Dante impiega anche la personificazione quando descrive la fiamma che avvolge Guido, facendola muovere “come fosse la lingua che parlasse” (v. 17). Questa figura umanizza il tormento, trasformando la fiamma in un’estensione del dannato e rendendo visibile la sua condizione di prigioniero del proprio peccato.
L’ironia tragica pervade l’intero episodio di Guido, in particolare quando egli narra come l’assoluzione anticipata di Bonifacio VIII si sia rivelata inutile di fronte alla logica inflessibile della giustizia divina. La battuta del diavolo: “forse / tu non pensavi ch’io loïco fossi!” (vv. 122-123) rappresenta il culmine di questa ironia, dove il ragionamento logico viene usato per condannare anziché salvare.
La metonimia è presente quando Guido si riferisce a Bonifacio VIII come “il gran prete” o “principe de’ nuovi farisei”, usando il titolo per evidenziare la corruzione dell’istituzione che rappresenta.
Infine, l’ossimoro “assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente” (vv. 118-120) esprime magistralmente l’impossibilità logica di conciliare pentimento e volontà di peccare, rivelando la fondamentale contraddizione morale che sta alla base della dannazione di Guido.
Temi principali del 27 canto dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 27 dell’Inferno della Divina Commedia è permeato da temi morali e teologici che rivelano la profondità del pensiero dantesco. Fondamentale è il tema dell’impossibilità di conciliare pentimento e volontà di peccare, espresso nella celebre massima “non si può assolvere chi non si pente, né pentirsi e volere insieme si può, per la contraddizione che nol consente”. Questa formulazione sintetizza perfettamente la concezione dantesca della giustizia divina: implacabile nella sua coerenza logica e impossibile da aggirare con sofismi umani.
La responsabilità morale individuale emerge come pilastro centrale del canto. Attraverso la vicenda di Guido da Montefeltro, Dante afferma che nessuna autorità terrena, nemmeno quella papale, può sollevare l’individuo dalle conseguenze delle proprie scelte. Il peccato di Guido è aggravato proprio dalla consapevolezza dell’inganno, nonostante la promessa di assoluzione preventiva da parte di Bonifacio VIII.
La critica alla corruzione ecclesiastica rappresenta un altro tema portante. Bonifacio VIII viene ritratto come “principe dei nuovi farisei”, figura emblematica dell’abuso di potere spirituale per fini terreni. La strumentalizzazione dei sacramenti diventa emblema di una Chiesa che ha tradito la sua missione originaria, pervertendo i doni divini in strumenti di potere politico.
Il conflitto tra fedeltà alla coscienza e obbedienza all’autorità costituita emerge drammaticamente nella scelta di Guido di assecondare la richiesta papale. Dante suggerisce che l’obbedienza cieca all’autorità non giustifica azioni moralmente riprovevoli, e che la coscienza individuale deve prevalere quando l’autorità si allontana dalla giustizia.
Infine, il tema della frode come perversione della ragione umana percorre l’intero canto: la ragione, dono divino che distingue l’uomo, viene utilizzata per ingannare, trasformando così il più nobile dei doni in strumento di corruzione.
Il Canto 27 dell’Inferno in pillole
Elemento | Descrizione | Significato | Esempi Testuali |
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Ambientazione | Ottava bolgia dell’ottavo cerchio (Malebolge) | Luogo di punizione dei consiglieri fraudolenti | “S’io credesse che mia risposta fosse / a persona che mai tornasse al mondo” |
Contrappasso | Anime avvolte in fiamme parlanti | Chi ha usato la lingua per ingannare è ora consumato dal fuoco che ne nasconde l’identità | “Così, per non aver via né forame / dal principio nel foco, in suo linguaggio / si convertïan le parole grame” |
Protagonista | Guido da Montefeltro | Condottiero ghibellino divenuto frate francescano, simbolo del conflitto tra politica e fede | “Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero, / credendomi, sì cinto, fare ammenda” |
Antagonista | Papa Bonifacio VIII | Rappresenta la corruzione ecclesiastica e l’abuso del potere spirituale | “Lo principe d’i novi Farisei / […] mi rimise ne le prime colpe” |
Similitudine chiave | Toro di Falaride | Collega il tormento fisico alla sofferenza morale | “Come ‘l bue cicilian che mugghiò prima / col pianto di colui, e ciò fu dritto, / che l’avea temperato con sua lima” |
Tema centrale | Impossibilità di assolvere senza pentimento | Critica all’ipocrisia religiosa e all’inganno spirituale | “Ch’assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente” |
Episodio conclusivo | Contesa tra San Francesco e il diavolo | Rappresenta il conflitto tra misericordia divina e giustizia implacabile | “Francesco venne poi, com’io fu’ morto, / per me; ma un d’i neri cherubini / li disse: ‘Non portar; non mi far torto'” |
Riferimento politico | Situazione della Romagna | Specchio delle lotte intestine dell’Italia medievale | “Romagna tua non è, e non fu mai, / sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni” |
Figura retorica dominante | Antitesi | Enfatizza i conflitti morali e spirituali | “Pentere e volere insieme” (opposizione inconciliabile) |