Divina Commedia, Canto 27 Paradiso: testo, parafrasi e figure retoriche

Divina Commedia, Canto 27 Paradiso: testo, parafrasi e figure retoriche

Il Canto 27 del Paradiso rappresenta uno dei momenti più intensi dell'ultima cantica della Divina Commedia, colpendo per la sua carica emotiva e valore dottrinale.

Il Canto 27 del Paradiso rappresenta uno dei momenti più intensi e significativi dell’ultima cantica della Divina Commedia. Collocato nel Cielo delle Stelle Fisse, questo canto si distingue per la sua straordinaria carica emotiva e per il suo valore dottrinale. In esso convergono elementi teologici, politici e profetici che rendono questo segmento dell’opera dantesca particolarmente ricco di significati e sfumature interpretative.

Indice:

Canto 27 Paradiso della Divina Commedia: testo completo e parafrasi

Testo originaleParafrasi contemporanea
‘Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo’,«Gloria al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo»,
cominciò, ‘gloria!’, tutto ‘l paradiso,cominciò a cantare tutto il Paradiso,
sì che m’inebriava il dolce canto.in modo tale che il dolce canto mi inebriava.
Ciò ch’io vedeva mi sembiava un risoQuello che io vedevo mi sembrava il sorriso
de l’universo; per che mia ebbrezzadell’intero Universo; per cui la mia ebbrezza
intrava per l’udire e per lo viso.entrava in me attraverso l’udito e la vista.
Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!Oh, che gioia! Oh, che letizia indescrivibile!
oh vita intègra d’amore e di pace!Oh, che vita completa d’amore e di pace!
oh sanza brama sicura ricchezza!Oh, che ricchezza sicura, priva di ogni desiderio!
Dinanzi a li occhi miei le quattro faceDavanti ai miei occhi le quattro luci
stavano accese, e quella che pria vennestavano accese, e quella che era giunta per prima
incominciò a farsi più vivace,incominciò a farsi più vivida,
e tal ne la sembianza sua divenne,e divenne nel suo aspetto tale
qual diverrebbe Iove, s’elli e Martequale diventerebbe Giove, se lui e Marte
fossero augelli e cambiassersì penne.fossero uccelli e si scambiassero le penne.
La provedenza, che quivi comparteLa Provvidenza divina, che in Paradiso suddivide
vice e officio, nel beato coroper ognuno gli incarichi, aveva imposto silenzio
silenzio posto avea da ogne parte,al coro dei beati in ogni punto,
quand’io udi’: «Se io mi trascoloro,quando io sentii: «Se io cambio colore,
non ti maravigliar, ché, dicend’io,non stupirti, dal momento che, mentre parlo,
vedrai trascolorar tutti costoro.vedrai fare lo stesso a tutti questi beati.
Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,Colui che usurpa sulla Terra il mio posto,
il luogo mio, il luogo mio, che vacail mio posto, il mio posto, che è vacante
ne la presenza del Figliuol di Dio,anche alla presenza del Figlio di Dio,
fatt’ha del cimitero mio cloacaha trasformato il mio cimitero in una fogna
del sangue e de la puzza; onde ‘l perversodove si raccolgono il sangue e la corruzione; per cui il malvagio
che cadde di qua sù, là giù si placa».che cadde da quassù, laggiù ne gode».
Di quel color che per lo sole avversoDi quel colore rossastro che le nubi assumono
nube dipigne da sera e da mane,per il sole opposto, a sera e al mattino,
vid’io allora tutto ‘l ciel cosperso.io vidi allora tutto il Cielo colorato.
E come donna onesta che permaneE come una donna onesta che rimane
di sé sicura, e per l’altrui fallanza,sicura di sé, e per la colpa altrui,
pur ascoltando, timida si fane,solo ascoltando, diventa timida e arrossisce,
così Beatrice trasmutò sembianza;così Beatrice mutò aspetto;
e tale eclissi credo che ‘n ciel fue,e credo che in cielo ci fu una tale eclissi,
quando patì la supprema possanza.il giorno in cui Cristo soffrì la morte.
Poi procedetter le parole suePoi le parole di san Pietro proseguirono,
con voce tanto da sé trasmutata,con una voce così tanto alterata,
che la sembianza non si mutò piùe:che il suo aspetto non mutò maggiormente:
«Non fu la sposa di Cristo allevata«La sposa di Cristo non fu nutrita
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,col sangue mio, di Lino, di quello di Anacleto,
per essere ad acquisto d’oro usata;per essere usata per arricchirsi;
ma per acquisto d’esto viver lietoma per guadagnare questa vita beata
e Sisto e Pio e Calisto e UrbanoSisto, Pio, Calisto e Urbano
sparser lo sangue dopo molto fleto.sparsero il loro sangue dopo molto pianto.
Non fu nostra intenzion ch’a destra manoLa nostra intenzione non era che
d’i nostri successor parte sedesse,in parte il popolo cristiano sedesse alla destra
parte da l’altra del popol cristiano;e in parte alla sinistra dei nostri successori;
né che le chiavi che mi fuor concesse,né che le chiavi che mi furono concesse
divenisser signaculo in vessillodiventassero simbolo su vessilli
che contra battezzati combattesse;usati per combattere contro gente battezzata;
né ch’io fossi figura di sigilloné che io fossi effigie su un sigillo
a privilegi venduti e mendaci,apposto a privilegi falsificati e venduti,
ond’io sovente arrosso e disfavillo.cosa per cui io spesso arrossisco e fremo di sdegno.
In vesta di pastor lupi rapaciNelle vesti di pastori si vedono lupi famelici
si veggion di qua sù per tutti i paschi:da quassù in tutti i pascoli:
o difesa di Dio, perché pur giaci?o vendetta divina, perché ancora tardi ad arrivare?
Del sangue nostro Caorsini e GuaschiDel nostro sangue papi di Cahors e di Guascogna
s’apparecchian di bere: o buon principio,si preparano a bere: o nobile principio,
a che vil fine convien che tu caschi!a che basso fine sei destinato a cadere!
Ma l’alta provedenza, che con ScipioMa la Provvidenza divina, che con Scipione
difese a Roma la gloria do mondo,difese a Roma la gloria del mondo,
soccorrà tosto, sì com’io concipio;interverrà presto, così com’io prevedo;
e tu, figliuol, che per lo mortal pondoe tu, figliolo, che per il peso mortale del corpo
ancor giù tornerai, apri la bocca,tornerai ancora sulla Terra, apri la bocca
e non asconder quel ch’io non ascondo».e non nascondere ciò che io non ti nascondo».
Sì come di vapor gelati fioccaCome dal cielo fioccano verso il basso
in giuso l’aere nostro, quando ‘l cornoi vapori gelati nel nostro cielo, quando il corno
de la capra del ciel col sol si tocca,della capra del cielo si congiunge col Sole,
in sù vid’io così l’etera addornoin alto vidi io così il cielo farsi splendente
farsi e fioccar di vapor triunfantie fioccare verso l’alto di anime trionfanti
che fatto avien con noi quivi soggiorno.che si erano trattenute qui con noi.
Lo viso mio seguiva i suoi sembianti,Il mio sguardo seguiva quelle luci,
e seguì fin che ‘l mezzo, per lo molto,e le seguì finché la distanza, per la sua vastità,
li tolse il trapassar del più avanti.gli impedì di spingersi più oltre.
Onde la donna, che mi vide assoltoAllora Beatrice, che vide che io avevo smesso
de l’attendere in sù, mi disse: «Adimadi guardare verso l’alto, mi disse: «Abbassa
il viso e guarda come tu se’ vòlto».lo sguardo e osserva quanto tu hai ruotato».
Da l’ora ch’io avea guardato primaDal momento in cui avevo guardato la prima volta,
i’ vidi mosso me per tutto l’arcocompresi che mi ero mosso per tutto l’arco
che fa dal mezzo al fine il primo clima;che va dal centro alla fine del primo clima;
sì ch’io vedea di là da Gade il varcosicché io vedevo a occidente di Cadice il varco
folle d’Ulisse, e di qua presso il litofolle di Ulisse, e a oriente vicino alla costa
nel qual si fece Europa dolce carco.dove Europa divenne dolce carico per Giove.
E più mi fora discoverto il sitoE mi sarebbe stata mostrata una parte maggiore
di questa aiuola; ma ‘l sol procedeadi questa piccola aia; ma il Sole procedeva
sotto i mie’ piedi un segno e più partito.sotto i miei piedi di oltre un segno zodiacale.
La mente innamorata, che donneaLa mia mente innamorata, che vagheggia
con la mia donna sempre, di ridurela mia donna sempre, di riportare
ad essa li occhi più che mai ardea;a lei lo sguardo desiderava più che mai;
e se natura o arte fé pasturee se mai la natura o l’arte produssero opere belle
da pigliare occhi, per aver la mente,da attirare lo sguardo, per sedurre la mente,
in carne umana o ne le sue pitture,nei corpi umani o nei dipinti,
tutte adunate, parrebber nientetutte radunate insieme sembrerebbero nulla
ver’ lo piacer divin che mi refulse,rispetto alla bellezza divina che splendette a me,
quando mi volsi al suo viso ridente.quando mi rivolsi al suo viso sorridente.
E la virtù che lo sguardo m’indulse,E la virtù che il suo sguardo mi irradiò
del bel nido di Leda mi divelse,mi portò via dalla bella costellazione dei Gemelli
e nel ciel velocissimo m’impulse.e mi spinse nel Cielo più veloce.
Le parti sue vivissime ed eccelseLe sue parti luminosissime e altissime
sì uniforme son, ch’i’ non so diresono così uniformi, che io non saprei dire
qual Beatrice per loco mi scelse.in quale di esse Beatrice mi fece entrare.
Ma ella, che vedea ‘l mio disire,Lei, tuttavia, che vedeva il mio desiderio,
incominciò, ridendo tanto lieta,incominciò a dire, sorridendo con tale gioia
che Dio parea nel suo volto gioire:che sembrava che Dio si allietasse nel suo viso:
«La natura del mondo, che quieta«La natura dell’Universo, che tiene
il mezzo e tutto l’altro intorno move,il centro fermo e fa ruotare tutto il resto intorno,
quinci comincia come da sua meta;comincia da qui come suo principio e sua fine;
e questo cielo non ha altro dovee questo Cielo non ha nessun’altra collocazione
che la mente divina, in che s’accendese non la mente di Dio, in cui si accendono
l’amor che ‘l volge e la virtù ch’ei piove.l’amore che lo fa ruotare e la virtù che esso esercita.
Luce e amor d’un cerchio lui comprende,La luce e l’amore divino lo circondano,
sì come questo li altri; e quel precintoproprio come questo Cielo circonda gli altri; e quell’involucro
colui che ‘l cinge solamente intende.è compreso solamente da Colui che lo cinge.
Non è suo moto per altro distinto,Il suo movimento non è misurato dagli altri,
ma li altri son mensurati da questo,ma gli altri moti sono commisurati a questo,
sì come diece da mezzo e da quinto;come il dieci lo è dal cinque e dal due;
e come il tempo tegna in cotal testoe come il tempo abbia le sue radici
le sue radici e ne li altri le fronde,in questo vaso e negli altri Cieli le sue foglie,
omai a te può esser manifesto.ormai ti può essere chiaro.
Oh cupidigia che i mortali affondeOh, cupidigia che immergi i mortali
sì sotto te, che nessuno ha poderecosì tanto sotto di te, che nessuno ha il potere
di trarre li occhi fuor de le tue onde!di alzare lo sguardo fuori dalle tue onde!
Ben fiorisce ne li uomini il volere;La buona volontà fiorisce negli uomini;
ma la pioggia continua convertema la pioggia continua trasforma
in bozzacchioni le sosine vere.in frutti vuoti e guasti le vere susine.
Fede e innocenza son reperteFede e innocenza si ritrovano
solo ne’ parvoletti; poi ciascunasolo nei fanciulli; poi esse
pria fugge che le guance sian coperte.fuggono prima che le guance siano coperte di pelo.
Tale, balbuziendo ancor, digiuna,Alcuni, quando ancora non sanno parlare, digiunano,
che poi divora, con la lingua sciolta,e poi divorano, quando hanno la lingua sciolta,
qualunque cibo per qualunque luna;qualunque cibo in qualunque periodo dell’anno;
e tal, balbuziendo, ama e ascoltae altri, quando ancora non sanno parlare, amano e rispettano
la madre sua, che, con loquela intera,la propria madre, e poi, quando parlano correttamente,
disia poi di vederla sepolta.desiderano vederla morta.
Così si fa la pelle bianca neraCosì la pelle bianca diventa scura
nel primo aspetto de la bella figliaal primo apparire della bella figlia
di quel ch’apporta mane e lascia sera.di colui che porta il mattino e fa cessare la sera.
Tu, perché non ti facci maraviglia,Tu, per non stupirti troppo,
pensa che ‘n terra non è chi governi;pensa che sulla Terra manca una autorità di governo;
onde sì svia l’umana famiglia.per cui l’umana famiglia viene sviata.
Ma prima che gennaio tutto si sverniMa prima che gennaio esca del tutto dall’inverno
per la centesma ch’è là giù negletta,per la centesima parte del giorno che è trascurata sulla Terra,
raggeran sì questi cerchi superni,queste ruote celesti irradieranno il mondo a tal punto
che la fortuna che tanto s’aspetta,che la Provvidenza, che è tanto attesa,
le poppe volgerà u’ son le prore,volgerà le poppe dove ora sono le prue,
sì che la classe correrà diretta;cosicché la flotta tornerà sulla giusta rotta;
e vero frutto verrà dopo ‘l fiore».e il fiore tornerà a produrre un vero frutto».

Canto 27 Paradiso della Divina Commedia: riassunto e spiegazione

Il Canto 27 del Paradiso si apre con un solenne inno di gloria alla Trinità che risuona in tutto il cielo. “Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo / cominciò ‘gloria!’ tutto ‘l paradiso“, scrive Dante, descrivendo come questo canto celeste lo inebri di dolcezza. L’atmosfera iniziale di armonia e beatitudine viene però presto interrotta dall’improvviso rossore che pervade l’ottavo cielo, paragonato al pudore sul volto di una donna onesta.

È un segno dell’ira di San Pietro, che si prepara a pronunciare una delle invettive più veementi dell’intero poema. L’apostolo, infatti, denuncia con parole infuocate la corruzione dei papi contemporanei a Dante: “Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio“. La triplice ripetizione enfatizza lo sdegno dell’apostolo verso colui che ha trasformato Roma, definita “cimitero mio”, in una “cloaca del sangue e de la puzza”, rallegrandosi così Satana stesso.

San Pietro prosegue la sua invettiva ricordando il tempo dei martìri e delle persecuzioni, quando la Chiesa primitiva è cresciuta grazie al sangue versato dai fedeli. Profetizza poi l’intervento della provvidenza divina, che verrà presto in soccorso della Chiesa corrotta, alludendo probabilmente a una figura messianica che Dante auspicava potesse riformare le istituzioni ecclesiastiche.

Dopo l’invettiva, si assiste alla risalita delle anime beate all’Empireo, mentre Beatrice invita Dante a volgere lo sguardo verso la Terra. In uno dei passaggi più famosi del canto, il poeta osserva il nostro pianeta dall’alto e lo definisce “l’aiuola che ci fa tanto feroci“, evidenziando come, vista dalla prospettiva celeste, la Terra appaia minuscola e insignificanti sembrino le contese umane per il suo possesso.

Successivamente avviene l’ascesa al Nono Cielo, il Primo Mobile, che imprime il movimento a tutti gli altri cieli. Qui Beatrice pronuncia a sua volta un’invettiva contro la cupidigia umana e la corruzione dei costumi, preannunciando un intervento divino che ristabilirà l’ordine violato.

In questo canto, Dante costruisce un complesso sistema di corrispondenze tra ordine cosmico e morale. Il passaggio dall’ottavo al nono cielo simboleggia un ulteriore avvicinamento a Dio, mentre le invettive di San Pietro e Beatrice rappresentano la tensione tra ideale e reale, tra la purezza dell’ordine divino e la corruzione delle istituzioni umane.

Il Primo Mobile, privo di punti di riferimento fisici e caratterizzato da velocità inimmaginabile, viene descritto come pura luce e movimento, anticipando la visione dell’Empireo. L’uniformità e perfezione di questo cielo contrastano con la degenerazione morale denunciata nelle invettive, creando una potente tensione poetica tra visione mistica e critica sociale che caratterizza l’intero canto.

Canto 27 Paradiso della Divina Commedia: i personaggi

Nel Canto 27 del Paradiso, Dante presenta figure di straordinaria potenza espressiva che incarnano sia la dimensione spirituale del viaggio celeste sia la critica all’ordine terreno corrotto. I personaggi principali che popolano questo canto svolgono ruoli complementari nella costruzione del messaggio teologico e politico.

San Pietro, primo papa e pietra fondante della Chiesa cristiana, emerge come protagonista dell’invettiva contro la corruzione ecclesiastica. La sua figura assume una valenza simbolica potentissima: rappresentante dell’autorità apostolica originaria, si erge a giudice severo dei suoi successori degeneri. Dante lo descrive in uno stato di profonda indignazione, manifestata attraverso un improvviso arrossamento che coinvolge l’intero cielo:

“Sì come di vapor gelati fiocca
in giuso l’aere nostro, quando il corno
de la capra del ciel col sol si tocca,
in sù vid’io così l’etera adorno
farsi e fioccar di vapor trïunfanti
che fatto avien con noi quivi soggiorno.”

Questo rossore celeste simboleggia l’ira santa dell’apostolo, espressa attraverso una denuncia implacabile contro l’usurpatore del soglio pontificio, probabilmente riferito a Bonifacio VIII. San Pietro incarna qui la purezza originaria della Chiesa, contrapposta alla degenerazione contemporanea. La ripetizione anaforica “il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio” enfatizza la gravità dell’usurpazione e l’intensità del suo sdegno. Nell’economia del canto, San Pietro rappresenta la dimensione ecclesiale e l’autorità spirituale tradita dai suoi stessi eredi.

Beatrice mantiene in questo canto il ruolo di guida spirituale e intellettuale che caratterizza tutta la cantica. Il suo personaggio assume però una particolare importanza nella seconda sezione, quando invita Dante a volgere lo sguardo verso la Terra. È significativo come il suo invito sia preceduto da una trasformazione: il suo volto, prima intristito dalle parole di San Pietro, torna a risplendere, prefigurando la bellezza della visione cosmica che attende il poeta:

“Poi si rivolse a l’onde…
e disse: ‘Guarda in giù e vedi quanto mondo
sotto li piedi già esser ti fei'”

In questa fase del canto, Beatrice svolge una funzione cosmologica, orientando lo sguardo di Dante verso una nuova prospettiva che gli permette di cogliere la piccolezza della Terra. Successivamente, nella transizione al Primo Mobile, la sua funzione si amplifica: diventa interprete dell’ordine cosmico e annunciatrice della profezia di rinnovamento. Il suo sorriso, che illumina progressivamente mentre ascendono verso il nono cielo, simboleggia l’avvicinamento alla perfezione divina.

Merita attenzione anche la presenza implicita di Bonifacio VIII, mai nominato direttamente ma chiaramente identificabile come il bersaglio principale della critica petrina. Questo personaggio, assente fisicamente ma onnipresente nello sviluppo tematico, incarna la degenerazione del potere ecclesiastico, l’antitesi vivente dei valori apostolici rappresentati da San Pietro. La sua caratterizzazione indiretta come usurpatore del “luogo” di Pietro e responsabile della trasformazione di Roma in “cloaca” lo configura come l’anti-modello per eccellenza.

Nel complesso, i personaggi del Canto 27 del Paradiso sono costruiti secondo una precisa architettura simbolica: San Pietro rappresenta l’autorità spirituale originaria e la sua legittima indignazione; Beatrice incarna la sapienza teologica e la funzione di guida verso la comprensione dell’ordine cosmico; mentre la figura implicita di Bonifacio VIII simboleggia la corruzione e il tradimento dei valori fondanti della cristianità.

Analisi del Canto 27 del Paradiso: elementi tematici e narrativi

Il Canto 27 del Paradiso rappresenta uno degli apici lirici e dottrinali dell’intera Divina Commedia, caratterizzato da una struttura narrativa che alterna momenti di sublime contemplazione mistica a potenti invettive morali. L’architettura del canto si sviluppa attraverso quattro sequenze principali: l’inno di gloria alla Trinità, l’invettiva di San Pietro contro la corruzione ecclesiastica, l’ascesa al Primo Mobile e la riflessione di Beatrice sulla cupidigia umana.

Al centro dell’impianto narrativo si colloca il contrasto tra la perfezione celeste e la degenerazione terrena. Questa antitesi strutturale permea l’intero canto, manifestandosi nella contrapposizione tra l’armonia luminosa del cielo e la corruzione oscura della Chiesa terrena. Tale contrasto non è meramente descrittivo, ma assume una precisa funzione allegorica: il disordine terreno rappresenta la deviazione dall’ordine divino, mentre l’ascensione del poeta simboleggia il progressivo distacco dalle passioni mondane.

L’invettiva di San Pietro costituisce il nucleo polemico più intenso del canto. Attraverso la voce del primo apostolo, Dante costruisce un’allegoria politico-religiosa di straordinaria potenza espressiva. La Chiesa, rappresentata come “cimitero” trasformato in “cloaca”, diviene emblema di un’istituzione che ha tradito la sua missione originaria. È significativo che Dante affidi questa critica proprio a San Pietro, fondamento della Chiesa stessa, conferendo all’invettiva un’autorità morale incontestabile e una dimensione provvidenziale che trascende la contingenza storica.

Parallela all’allegoria religiosa si sviluppa quella cosmologica. La visione della Terra dall’alto – descritta come “l’aiuola che ci fa tanto feroci” – rappresenta un momento culminante nella narrazione: il poeta contempla la piccolezza del mondo terreno in rapporto all’immensità dell’universo divino. Questa prospettiva cosmica non è solo un artificio retorico, ma acquisisce valore morale, smascherando la vanità delle contese umane e la meschina avidità dei potenti.

L’ascensione al Primo Mobile, il nono cielo, segna un ulteriore passaggio nell’itinerario spirituale di Dante. Questo cielo, privo di riferimenti spaziali concreti, rappresenta il limite tra la dimensione materiale e quella puramente intellettuale. La descrizione della vertiginosa velocità del Primo Mobile introduce il tema del tempo nella sua relazione con l’eternità: mentre i cieli inferiori regolano il tempo terreno, questo cielo ne è la misura primordiale, direttamente mossa dall’amore divino.

La dimensione profetica costituisce un altro elemento fondamentale del canto. Sia San Pietro che Beatrice annunciano un futuro rinnovamento, inserendo la corruzione presente in una prospettiva provvidenziale. La profezia di Beatrice – “ma l’alta provvidenza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo, / soccorrà tosto” – esprime la speranza in un intervento divino che ristabilirà l’ordine violato. Questa tensione escatologica riflette la visione dantesca della storia come teatro del conflitto tra bene e male, destinato a risolversi nel trionfo finale della giustizia divina.

Sul piano narrativo, è interessante notare la sapiente alternanza di registri stilistici. Dante passa dal tono solenne dell’inno trinitario alla veemenza dell’invettiva, dalla contemplazione estatica alla riflessione morale, creando una complessa polifonia che rispecchia la molteplicità dei livelli interpretativi dell’opera. Questa variazione di tono contribuisce a mantenere alta l’attenzione del lettore, coinvolgendo emotivamente nelle diverse fasi del racconto.

La progressione ascensionale del viaggio dantesco trova nel Canto 27 un momento di particolare intensità. Il passaggio dall’ottavo al nono cielo non rappresenta solo un avanzamento fisico, ma soprattutto un’elevazione spirituale che prepara il poeta alla visione di Dio. Questo percorso verticale simboleggia l’itinerario dell’anima verso la beatitudine, attraverso successive purificazioni e illuminazioni.

Al termine di questa analisi, possiamo affermare che il Canto 27 del Paradiso costituisce una mirabile sintesi della poetica dantesca, dove convergono tradizione teologica e innovazione letteraria, visione contemplativa e impegno civile, in un equilibrio che fa di questo canto uno dei più significativi dell’intera Commedia.

Figure retoriche nel Canto 27 del Paradiso della Divina Commedia

Il Canto 27 del Paradiso rappresenta un capolavoro dell’arte retorica dantesca, dove l’autore impiega numerosi espedienti stilistici per enfatizzare i significati teologici, morali e politici del suo messaggio.

Tra le figure retoriche più significative troviamo innanzitutto la sinestesia, che Dante utilizza nei versi iniziali: “sì che m’inebriava il dolce canto”. Qui il poeta combina la percezione uditiva (il canto) con la sensazione gustativa dell’ebbrezza, creando un effetto di coinvolgimento totale dei sensi che riflette la natura trascendente dell’esperienza paradisiaca.

Particolarmente incisiva è l’anafora nel discorso di San Pietro, con la triplice ripetizione di “il luogo mio” (“Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio”). Questa insistenza enfatica intensifica l’indignazione dell’apostolo verso l’usurpatore del soglio pontificio, probabilmente riferito a Bonifacio VIII, rivelando una crescente tensione emotiva.

Le metafore abbondano nel canto, spesso con valenza allegorica. Roma viene descritta come “cimitero” trasformato in “cloaca” (“fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza”), immagine cruda che evoca con forza la profanazione dei luoghi sacri. Altrettanto memorabile è la metafora della Terra come “aiuola” (“L’aiuola che ci fa tanto feroci”), dove il diminutivo sottolinea ironicamente la sproporzione tra la piccolezza fisica del pianeta e la ferocia con cui gli uomini si contendono questo spazio limitato.

L’antitesi è utilizzata per contrapporre realtà opposte, come nel caso di “di qua sù” (cielo) e “là giù” (inferno), evidenziando il contrasto tra purezza celeste e corruzione terrena. Questo espediente retorico sottolinea la dimensione morale del viaggio dantesco e il conflitto tra bene e male.

Nella descrizione dell’arrossamento del cielo, Dante impiega una raffinata similitudine: “Per che le viste lor furo esaltate / con grazia illuminante e con lor merto, / sì ch’io le riconoscea tutte quante”. Il rossore celeste viene paragonato implicitamente al pudore di una donna onesta, umanizzando la reazione del paradiso alla corruzione ecclesiastica.

L’iperbole caratterizza l’invettiva di San Pietro, amplificando l’effetto della denuncia morale: la corruzione è descritta con termini esasperati che accentuano la gravità della situazione. Questa intensificazione emotiva riflette l’urgenza del messaggio profetico dantesco.

Il canto è ricco anche di perifrasi, come quella usata per indicare il Sole (“quelli ch’è padre d’ogne mortal vita”), figura che consente a Dante di elevare stilisticamente il discorso e conferirgli solennità.

Nella descrizione astronomica, troviamo esempi di metonimia, come nell’espressione “da’ colli a le foci” per indicare l’intera superficie terrestre, o “l’aere tosco” per riferirsi alla Toscana, luogo natale di Dante.

Il chiasmo appare in versi come “discese infin a qui dal primo giorno / che Beatrice nel altro regno / mi trasse”, dove l’inversione sintattica enfatizza l’azione trasformatrice della guida celeste.

La litote è presente nella definizione diminutiva della Terra, che amplifica per contrasto la ferocia umana, creando una tensione semantica che evidenzia la critica sociale del poeta.

L’apostrofe appare quando Dante si rivolge direttamente ai corpi celesti (“O gloriose stelle, o lume pregno / di gran virtù”), conferendo pathos e solennità al discorso poetico.

Questo ricco apparato retorico contribuisce alla straordinaria densità espressiva del canto, dove forma e contenuto si fondono in una sintesi perfetta. Le figure retoriche non sono semplici abbellimenti, ma strumenti essenziali attraverso cui Dante comunica la complessità del suo messaggio teologico e morale, rendendo accessibile l’ineffabile esperienza del paradiso attraverso il linguaggio umano.

Il Canto 27 del Paradiso in pillole

SezionePunti Chiave Principali
Riassunto e SpiegazioneInno alla Trinità che inebria Dante; invettiva di San Pietro contro la corruzione papale; visione della Terra dall’alto come piccola aiuola; ascensione al Primo Mobile
I PersonaggiSan Pietro (denuncia la corruzione ecclesiastica con veemenza); Beatrice (guida Dante nell’interpretazione cosmica, annuncia giustizia divina); anime beate (intonano l’inno di gloria)
Elementi Tematici e NarrativiContrasto tra purezza celeste e corruzione terrena; transizione dall’ottavo cielo al Primo Mobile; profezia di rinnovamento spirituale; critica alle istituzioni corrotte
Figure RetoricheMetafore (Terra come “aiuola”, Roma come “cloaca”); anafora (“il luogo mio”); sinestesia (canto che “inebria”); antitesi (cielo/terra, luce/tenebra); iperboli nella denuncia di corruzione
Temi PrincipaliCorruzione della Chiesa; visione cosmica e relativizzazione delle cose terrene; simbolismo astronomico; attesa escatologica di un intervento divino; tensione tra dimensione umana e divina

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