Il Canto 28 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta una delle sezioni più cruente e visivamente impattanti dell’intera Divina Commedia di Dante Alighieri. Collocato nella nona bolgia dell’ottavo cerchio (Malebolge), questo canto punisce i seminatori di discordia attraverso atroci mutilazioni che rispecchiano perfettamente il principio del contrappasso: così come in vita hanno diviso ciò che doveva restare unito, i dannati subiscono eterne lacerazioni corporee proporzionate al loro peccato.
Indice:
- Canto 28 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 28 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 28 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 28 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 28 dell’Inferno della Divina Commedia
- Temi principali del 28 canto dell’Inferno della Divina Commedia
- Il Canto 28 dell’Inferno in pillole
Canto 28 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
Testo originale | Parafrasi |
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Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch’i’ ora vidi, per narrar più volte? | Chi potrebbe mai, anche usando un linguaggio libero (prosa), descrivere completamente il sangue e le ferite che io vidi, anche se lo raccontasse più volte? |
Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente c’hanno a tanto comprender poco seno. | Certamente ogni lingua risulterebbe inadeguata sia per la limitatezza del nostro linguaggio sia per l’intelletto che hanno poca capacità di comprendere una tale realtà. |
S’el s’aunasse ancor tutta la gente che già, in su la fortunata terra di Puglia, fu del suo sangue dolente | Se si radunasse ancora tutta la gente che già, sulla sfortunata terra di Puglia, soffrì spargendo il proprio sangue |
per li Troiani e per la lunga guerra che de l’anella fé sì alte spoglie, come Livïo scrive, che non erra, | a causa dei Romani (discendenti dei Troiani) e per la lunga guerra che fece così grande bottino di anelli (ai Romani uccisi), come scrive Livio, che non sbaglia, |
con quella che sentio di colpi doglie per contastare a Ruberto Guiscardo; e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie | insieme a quella gente che patì il dolore dei colpi per opporsi a Roberto il Guiscardo; e l’altra il cui ossame ancora si raccoglie |
a Ceperan, là dove fu bugiardo ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo, dove sanz’ arme vinse il vecchio Alardo; | a Ceprano, dove fu traditore ogni pugliese, e là presso Tagliacozzo, dove senz’armi vinse il vecchio Alardo; |
e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d’aequar sarebbe nulla il modo de la nona bolgia sozzo. | e se ciascuno mostrasse chi un suo membro forato e chi mutilato, questo non sarebbe niente in confronto all’orribile spettacolo della nona bolgia. |
Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com’ io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla. | Già una botte, per la perdita di una doga centrale o laterale, non si sfonda come io vidi uno, aperto dal mento fino a dove si emettono i gas intestinali. |
Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e ‘l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia. | Tra le gambe pendevano le budella; si vedevano il cuore e il triste sacco (intestino) che trasforma in escrementi ciò che si mangia. |
Mentre che tutto in lui veder m’attacco, guardommi e con le man s’aperse il petto, dicendo: “Or vedi com’ io mi dilacco! | Mentre lo osservavo attentamente, mi guardò e con le mani si aprì il petto, dicendo: “Ora vedi come mi squarcio! |
vedi come storpiato è Mäometto! Dinanzi a me sen va piangendo Alì, fesso nel volto dal mento al ciuffetto. | Vedi come è mutilato Maometto! Davanti a me se ne va piangendo Alì, spaccato nel volto dal mento alla sommità della testa. |
E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fuor vivi, e però son fessi così. | E tutti gli altri che tu vedi qui, seminatori di scandalo e di scisma furono in vita, e perciò sono così squarciati. |
Un diavolo è qua dietro che n’accisma sì crudelmente, al taglio de la spada rimettendo ciascun di questa risma, | Un diavolo è qui dietro che ci taglia così crudelmente, con il fendente della spada colpendo ciascuno di questa schiera, |
quand’ avem volta la dolente strada; però che le ferite son richiuse prima ch’altri dinanzi li rivada. | quando abbiamo percorso il doloroso cammino circolare; poiché le ferite si sono richiuse prima che altri torni a passare davanti a lui. |
Ma tu chi se’ che ‘n su lo scoglio muse, forse per indugiar d’ire a la pena ch’è giudicata in su le tue accuse?” | Ma tu chi sei che sul ponte stai a guardare, forse per ritardare l’andare alla pena che ti è stata assegnata in base alle tue colpe?” |
“Né morte ‘l giunse ancor, né colpa ‘l mena”, rispuose ‘l mio maestro, “a tormentarlo; ma per dar lui esperïenza piena, | “Né la morte lo ha ancora raggiunto, né colpa lo conduce”, rispose il mio maestro, “a essere tormentato; ma per dargli piena esperienza, |
a me, che morto son, convien menarlo per lo ‘nferno qua giù di giro in giro; e quest’è ver così com’io ti parlo”. | a me, che sono morto, conviene condurlo per l’inferno quaggiù di cerchio in cerchio; e questo è vero così come io ti parlo”. |
Più fuor di cento che, quando l’udiro, s’arrestaron nel fosso a riguardarmi per maraviglia, oblïando il martiro. | Furono più di cento che, quando lo udirono, si fermarono nella fossa a guardarmi per meraviglia, dimenticando il tormento. |
“Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi, tu che forse vedra’ il sole in breve, s’ello non vuol qui tosto seguitarmi, | “Dunque dì a fra Dolcino che si equipaggi, tu che forse vedrai il sole tra poco, se egli non vuole seguirmi qui presto, |
sì di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese, ch’altrimenti acquistar non saria leve”. | così di viveri, affinché la stretta della neve non dia la vittoria ai Novaresi, che altrimenti non sarebbe facile da ottenere”. |
Poi che l’un piè per girsene sospese, Mäometto mi disse esta parola; indi a partirsi in terra lo distese. | Dopo che ebbe sollevato un piede per andarsene, Maometto mi disse queste parole; quindi lo posò a terra per andarsene. |
Un altro, che forata avea la gola e tronco ‘l naso infin sotto le ciglia, e non avea mai ch’una orecchia sola, | Un altro, che aveva la gola trafitta e il naso mozzato fin sotto le sopracciglia, e non aveva più che un orecchio solo, |
ristato a riguardar per maraviglia con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia, | fermatosi a guardare con meraviglia insieme agli altri, prima degli altri aprì la gola, che era da ogni parte rossa di sangue, |
e disse: “O tu cui colpa non condanna e cu’ io vidi in su terra latina, se troppa simiglianza non m’inganna, | e disse: “O tu che non sei condannato per colpa e che io vidi sulla terra italiana, se una forte somiglianza non m’inganna, |
rimembriti di Pier da Medicina, se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina. | ricordati di Pier da Medicina, se mai tornerai a vedere la dolce pianura che da Vercelli a Marcabò declina. |
E fa sapere a’ due miglior da Fano, a messer Guido e anco ad Angiolello, che, se l’antiveder qui non è vano, | E fa sapere ai due migliori cittadini di Fano, a messer Guido e anche ad Angiolello, che, se la previsione qui non è vana, |
gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati presso a la Cattolica per tradimento d’un tiranno fello. | saranno gettati fuori dalla loro nave e annegati presso Cattolica per il tradimento di un tiranno malvagio. |
Tra l’isola di Cipri e di Maiolica non vide mai sì gran fallo Nettuno, non da pirate, non da gente argolica. | Tra l’isola di Cipro e Maiorca Nettuno non vide mai un crimine così grande, né da pirati, né da gente greca. |
Quel traditor che vede pur con l’uno, e tien la terra che tale qui meco vorrebbe di vedere esser digiuno, | Quel traditore che vede solo con un occhio, e governa la terra che qualcuno qui con me vorrebbe non aver mai visto, |
farà venirli a parlamento seco; poi farà sì, ch’al vento di Focara non sarà lor mestier voto né preco”. | li farà venire a parlamento con sé; poi farà in modo che contro il vento di Focara non serviranno loro né voti né preghiere”. |
E io a lui: “Dimostrami e dichiara, se vuoi ch’i’ porti sù di te novella, chi è colui da la veduta amara”. | E io a lui: “Indicami e spiegami, se vuoi che io porti su notizie di te, chi è colui dalla vista amara”. |
Allor puose la mano a la mascella d’un suo compagno e la bocca li aperse, gridando: “Questi è desso, e non favella. | Allora pose la mano alla mascella di un suo compagno e gli aprì la bocca, gridando: “Questi è proprio lui, e non parla. |
Questi, scacciato, il dubitar sommerse in Cesare, affermando che ‘l fornito sempre con danno l’attender sofferse”. | Questi, esiliato, eliminò l’esitazione in Cesare, affermando che chi è pronto sempre subì danno nell’attendere”. |
Oh quanto mi pareva sbigottito con la lingua tagliata ne la strozza Curïo, ch’a dir fu così ardito! | Oh quanto mi sembrava sbigottito con la lingua tagliata nella gola Curio, che nel parlare fu così ardito! |
E un ch’avea l’una e l’altra man mozza, levando i moncherin per l’aura fosca, sì che ‘l sangue facea la faccia sozza, | E uno che aveva entrambe le mani mozzate, alzando i moncherini nell’aria buia, così che il sangue gli insozzava il viso, |
gridò: “Ricordera’ti anche del Mosca, che disse, lasso!, ‘Capo ha cosa fatta’, che fu mal seme per la gente tosca”. | gridò: “Ti ricorderai anche del Mosca, che disse, ahimè!, ‘Cosa fatta capo ha’, che fu cattivo seme per il popolo toscano”. |
E io li aggiunsi: “E morte di tua schiatta”; per ch’elli, accumulando duol con duolo, sen gio come persona trista e matta. | E io aggiunsi: “E morte della tua stirpe”; per cui egli, accumulando dolore a dolore, se ne andò come persona triste e folle. |
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, e vidi cosa ch’io avrei paura, sanza più prova, di contarla solo; | Ma io rimasi a guardare la schiera, e vidi una cosa che avrei timore, senza altre prove, di raccontare da solo; |
se non che coscïenza m’assicura, la buona compagnia che l’uom francheggia sotto l’asbergo del sentirsi pura. | se non che la coscienza mi rassicura, la buona compagnia che rende l’uomo sicuro sotto la protezione del sentirsi pura. |
Io vidi certo, e ancor par ch’io ‘l veggia, un busto sanza capo andar sì come andavan li altri de la trista greggia; | Io vidi certamente, e mi sembra ancora di vederlo, un busto senza testa camminare così come camminavano gli altri della triste schiera; |
e ‘l capo tronco tenea per le chiome, pesol con mano a guisa di lanterna: e quel mirava noi e dicea: “Oh me!”. | e teneva la testa mozzata per i capelli, penzoloni con la mano a mo’ di lanterna: e quello ci guardava e diceva: “Ohimè!”. |
Di sé facea a sé stesso lucerna, ed eran due in uno e uno in due; com’esser può, quei sa che sì governa. | Di sé faceva a sé stesso luce, ed erano due in uno e uno in due; come ciò sia possibile, lo sa chi così dispone. |
Quando diritto al piè del ponte fue, levò ‘l braccio alto con tutta la testa per appressarne le parole sue, | Quando fu proprio ai piedi del ponte, alzò il braccio in alto con tutta la testa per avvicinare a noi le sue parole, |
che fuoro: “Or vedi la pena molesta, tu che, spirando, vai veggendo i morti: vedi s’alcuna è grande come questa. | che furono: “Ora vedi la pena dolorosa, tu che, respirando, vai vedendo i morti: vedi se alcuna è grande come questa. |
E perché tu di me novella porti, sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli che diedi al re giovane i ma’ conforti. | E perché tu porti notizie di me, sappi che io sono Bertran de Born, quello che diedi al re giovane i cattivi consigli. |
Io feci il padre e ‘l figlio in sé ribelli; Achitofèl non fé più d’Absalone e di Davìd coi malvagi punzelli. | Io resi il padre e il figlio ribelli tra loro; Achitofel non fece di più con Assalonne e Davide con i malvagi incitamenti. |
Perch’ io parti’ così giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!, dal suo principio ch’è in questo troncone. | Poiché io divisi persone così unite, porto diviso il mio cervello, ahimè!, dalla sua origine che è in questo tronco. |
Così s’osserva in me lo contrapasso”. | Così si applica in me la legge del contrappasso”. |
Canto 28 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
La nona bolgia dell’ottavo cerchio, Malebolge, accoglie i seminatori di discordia, coloro che in vita hanno provocato divisioni tra persone, gruppi politici o religiosi. Siamo in una delle zone più profonde dell’Inferno, dove Dante colloca i peccati di frode contro chi non si fidava del peccatore. La struttura fisica si presenta come un fossato circolare dove i dannati camminano in processione perpetua, ciascuno portando le proprie orrende mutilazioni.
Il meccanismo punitivo descritto da Dante è tra i più cruenti dell’intera Divina Commedia. Un demone armato di spada attende i dannati al termine di ogni giro della bolgia e li colpisce, riaprendo le loro ferite già parzialmente rimarginate. Questo ciclo di sofferenza senza fine simboleggia l’eternità della pena e incarna perfettamente la legge del contrappasso: chi ha diviso ciò che doveva rimanere unito (comunità, fedi, famiglie) viene eternamente diviso nel corpo.
Il canto si apre con una potente similitudine in cui Dante afferma che nessuna descrizione di ferite di guerra potrebbe rendere giustizia allo spettacolo che si presenta ai suoi occhi. Il poeta evoca le battaglie storiche della Puglia, di Ceprano e Tagliacozzo, ma subito chiarisce che nemmeno tutti quei cadaveri insieme potrebbero eguagliare l’orrore di ciò che vede nella bolgia.
La narrazione prosegue con l’incontro con Maometto, rappresentato con il corpo squarciato dal mento fino all’ano, le cui interiora pendono tra le gambe. La descrizione è cruda e realistica, con un linguaggio che non risparmia dettagli anatomici per sottolineare la gravità del peccato. Maometto è seguito da Alì, suo cugino e genero, con il volto spaccato dal mento alla sommità del capo, simboleggiando l’ulteriore divisione che egli causò all’interno dell’Islam.
Cronologicamente, questa tappa del viaggio si colloca nel pomeriggio dell’8 aprile 1300 (Sabato Santo), secondo la cronologia interna dell’opera. Dante e Virgilio stanno procedendo verso il centro dell’Inferno, avvicinandosi progressivamente a Lucifero. La discesa rappresenta allegoricamente un’immersione sempre più profonda nella comprensione del male e delle sue manifestazioni.
Dopo l’incontro con Maometto, Dante osserva una sequenza di altre anime dannate, ciascuna con mutilazioni specifiche che riflettono la natura della loro colpa. Particolarmente memorabile è la figura di Bertran de Born, trovatore provenzale che porta la propria testa staccata dal busto, sollevandola per i capelli come una lanterna. Questa immagine visivamente potente incarna perfettamente la legge del contrappasso: avendo egli separato padre e figlio (il re Enrico II d’Inghilterra e il suo erede), ora la sua testa è separata dal proprio corpo.
Il canto si distingue per l’uso di un linguaggio particolarmente crudo e realistico, ricco di termini anatomici precisi e descrizioni dettagliate delle ferite. Come in tutta la Divina Commedia, Dante utilizza la forma metrica della terzina incatenata (o terza rima), con strofe di tre versi endecasillabi e uno schema di rime ABA, BCB, CDC, e così via. Questa struttura contribuisce a creare un ritmo regolare e musicale che sostiene la narrazione, contrastando con l’orrore delle scene descritte.
Il canto 28 dell’Inferno della Divina Commedia non si limita alla descrizione delle pene, ma contiene anche profezie e riferimenti alla contemporaneità di Dante. Attraverso le parole di Maometto e degli altri dannati, il poeta inserisce allusioni a eventi politici e religiosi del suo tempo, rafforzando il legame tra il racconto ultraterreno e la realtà storica. Questo aspetto sottolinea la funzione didattica e morale dell’opera, che mira non solo a narrare un viaggio immaginario, ma anche a commentare e giudicare la società contemporanea.
Il ruolo di Virgilio in questo canto è principalmente quello di guida e protettore. È lui a indicare a Dante i dannati più importanti e a spiegare il significato delle loro colpe e punizioni. Tuttavia, rispetto ad altri canti, interviene meno nei dialoghi diretti, lasciando che il poeta fiorentino interagisca direttamente con i dannati. Questo atteggiamento più distaccato può essere interpretato come un segno della crescente autonomia di Dante nel suo percorso di comprensione del male, ormai vicino alla conclusione del viaggio infernale.
Canto 28 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
La nona bolgia dell’ottavo cerchio ospita i seminatori di discordia, puniti con mutilazioni e ferite eternamente ripetute che riflettono allegoricamente il peccato commesso. Dante incontra una galleria di personaggi storici e leggendari, ciascuno rappresentante di una specifica forma di divisione sociale, religiosa o politica.
Maometto, fondatore dell’Islam, appare con il corpo orribilmente squarciato dal mento al basso ventre, con le interiora pendenti tra le gambe. Nella visione medievale di Dante, Maometto non è considerato il fondatore di una nuova religione, ma uno scismatico che ha provocato una divisione all’interno del cristianesimo. Il profeta mostra a Dante la sua pena esclamando: “Or vedi com’io mi dilacco!”. Durante il loro incontro, Maometto profetizza anche la dannazione di Fra Dolcino, eretico contemporaneo di Dante.
Alì, genero e cugino di Maometto, lo segue con il volto spaccato dal mento alla sommità del capo, simboleggiando la sua responsabilità per un’ulteriore divisione all’interno dell’Islam (lo scisma tra sunniti e sciiti).
Fra Dolcino non appare direttamente, ma viene menzionato nella profezia di Maometto. Leader del movimento eretico degli Apostolici, predicava contro la corruzione ecclesiastica e fu arso vivo nel 1307. Il riferimento evidenzia come Dante colleghi divisioni religiose antiche e contemporanee.
Pier da Medicina, nobile romagnolo, appare con il naso tagliato e un orecchio mozzato. È condannato per aver seminato discordie tra i signori della Romagna. Durante l’incontro con Dante, profetizza il tradimento di Malatestino da Rimini ai danni di due nobili di Fano, Guido del Cassero e Angiolello da Carignano.
Curione, tribuno romano, si presenta con la lingua tagliata alla radice. La sua colpa fu quella di aver incitato Cesare ad attraversare il Rubicone con la celebre frase “ogni indugio nuoce a chi è pronto” (“tolle moras”), dando inizio alla guerra civile contro Pompeo.
Mosca dei Lamberti appare con le mani mozzate, alzando i moncherini insanguinati verso Dante. È punito per aver pronunciato la frase “Cosa fatta capo ha” (ciò che è fatto è fatto), consiglio che portò all’assassinio di Buondelmonte de’ Buondelmonti nel 1216, scatenando le fazioni dei guelfi e ghibellini a Firenze. Dante stesso lo apostrofa come colui che “fu mal seme per la gente tosca”.
Bertran de Born, trovatore e nobile provenzale, presenta la punizione più spettacolare: porta la propria testa staccata dal corpo, sollevandola “per le chiome” come una lanterna. La sua colpa fu quella di aver istigato il giovane principe Enrico d’Inghilterra a ribellarsi contro suo padre, il re Enrico II Plantageneto. Nella sua autopresentazione, Bertran spiega il principio del contrappasso: “Perch’io parti’ così giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!, dal suo principio ch’è in questo troncone. Così s’osserva in me lo contrapasso”.
Questa galleria di personaggi consente a Dante di rappresentare tutte le principali forme di discordia: religiosa (Maometto, Alì, Fra Dolcino), politica (Pier da Medicina, Curione, Mosca) e familiare (Bertran de Born), sottolineando come la divisione, in qualsiasi ambito si manifesti, rappresenti una grave colpa morale.
Analisi del Canto 28 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi
Il Canto 28 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta uno dei vertici della capacità narrativa dantesca, dove la struttura e i temi si intrecciano in un disegno perfettamente calibrato. La narrazione si sviluppa secondo una progressione drammatica che inizia con una potente dichiarazione di ineffabilità: Dante ammette l’impossibilità di descrivere adeguatamente l’orrore che si presenta ai suoi occhi, suggerendo così la straordinarietà della scena e preparando il lettore all’impatto emotivo delle immagini che seguiranno.
Il contrappasso, principio che regola tutte le punizioni infernali, trova in questo canto la sua espressione più letterale ed emblematica. La legge del contrappasso viene addirittura menzionata esplicitamente nel verso 142, l’unico caso in tutta la Commedia. Il termine deriva dal latino contra e patior (soffrire il contrario), e rappresenta perfettamente la giustizia divina che punisce i dannati attraverso pene che rispecchiano o contrastano i loro peccati. I seminatori di discordia, che hanno diviso ciò che doveva restare unito, subiscono l’eterna divisione dei propri corpi.
Un elemento distintivo del canto è la struttura circolare della narrazione: si apre con una serie di similitudini belliche che evocano campi di battaglia e si chiude con l’immagine di Bertran de Born, la cui punizione rappresenta il culmine dell’orrore e dell’efficacia simbolica. Questa circolarità riflette anche il movimento dei dannati, costretti a percorrere la bolgia in un ciclo perpetuo, solo per essere nuovamente mutilati da un demonio.
Il ruolo di Virgilio come guida assume nel Canto 28 una dimensione particolare. Il maestro mantiene la sua funzione protettiva e pedagogica, ma interviene meno nei dialoghi diretti, lasciando che sia Dante personaggio a interagire con i dannati. Questo rappresenta una sottile evoluzione nel rapporto tra i due, suggerendo una crescente autonomia di Dante nel suo percorso di comprensione del male, caratteristica che si accentua man mano che si avvicina alla conclusione del viaggio infernale.
La temporalità nel canto presenta una complessità notevole: vi sono riferimenti al passato storico (le guerre menzionate nelle similitudini iniziali), al presente narrativo (l’incontro con i dannati) e al futuro (la profezia di Maometto su Fra Dolcino). Questa stratificazione temporale colloca il viaggio dantesco in una prospettiva che trascende la semplice cronologia, conferendogli una dimensione universale e metastorica.
Particolarmente significativa è la scelta dei personaggi, che rappresentano tre tipologie di discordia: religiosa (Maometto e Alì), politica (Pier da Medicina, Curione e Mosca) e familiare (Bertran de Born). Questa tripartizione riflette la visione medievale della società, fondata sull’armonia tra religione, politica e famiglia. La rottura di questa armonia in qualsiasi ambito rappresentava per Dante un crimine contro l’ordine divino.
Il pathos narrativo si intensifica progressivamente attraverso il canto, culminando nell’immagine di Bertran de Born che solleva la propria testa come una lanterna. La descrizione di questa figura, isolata in una terzina di straordinaria potenza visiva, rappresenta il vertice espressivo del canto: “Io feci il padre e ‘l figlio in sé ribelli; / Achitofèl non fé più d’Absalone / e di Davìd coi malvagi punzelli”.
L’intera costruzione narrativa del Canto 28 è permeata da un profondo messaggio morale che trascende la condanna dei singoli personaggi per assumere valore universale: la discordia è un male che mina le fondamenta della società umana e dell’ordine divino. Questo messaggio, centrale nella visione politica e teologica di Dante, viene comunicato non attraverso la predicazione diretta, ma mediante la potenza delle immagini e la forza espressiva della narrazione.
Figure retoriche nel Canto 28 dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 28 dell’Inferno della Divina Commedia è caratterizzato da un linguaggio crudo e straordinariamente espressivo, attraverso cui Dante riesce a trasmettere l’orrore delle mutilazioni subite dai dannati. La forza comunicativa del canto si esprime principalmente attraverso un ricco apparato retorico che amplifica l’impatto emotivo della narrazione.
La similitudine è senza dubbio la figura retorica predominante. Il canto si apre con una potente immagine comparativa in cui Dante afferma che nemmeno tutte le ferite delle guerre pugliesi, di Troia e di Roma messe insieme potrebbero eguagliare lo spettacolo che ha davanti:
“Chi poria mai pur con parole sciolte / dicer del sangue e de le piaghe a pieno / ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?”
Particolarmente efficace è la similitudine della botte sfondata, usata per descrivere il corpo squarciato di un dannato:
“Già veggia, per mezzul perdere o lulla, / com’io vidi un, così non si pertugia, / rotto dal mento infin dove si trulla.”
Le metafore operano a un livello più profondo, collegando il piano fisico delle mutilazioni a quello morale delle colpe. La più memorabile è quella di Bertran de Born, che solleva la propria testa “per le chiome” come una lanterna, simboleggiando perfettamente la separazione che causò tra padre e figlio.
Il canto è ricco di iperboli che amplificano l’impatto delle descrizioni, come nella rappresentazione del corpo di Maometto, “fesso dal mento infin dove si trulla”, o nell’immagine del sangue che sgorga copioso dalle ferite. Queste esagerazioni non sono gratuite, ma servono a sottolineare la gravità del peccato.
Dante fa ampio uso della sineddoche, dove parti del corpo rappresentano la totalità della colpa. Le lingue tagliate, i volti spaccati e gli organi esposti simboleggiano le divisioni causate dai dannati in vita.
Le allitterazioni di suoni aspri e duri accentuano l’orrore della scena, come nei versi “Vedi come storpiato è Maometto!” o “rotto dal mento infin dove si trulla”, dove la ripetizione di consonanti occulsive crea un effetto sonoro che richiama lo squarcio e la lacerazione.
Il climax si manifesta nella progressione crescente dell’intensità delle descrizioni delle ferite, che culmina nell’immagine di Bertran de Born con la testa staccata dal corpo, rappresentando l’apice dell’efficacia allegorica del contrappasso.
Il chiasmo è presente nella struttura stessa del canto, dove Dante alterna descrizioni delle ferite a dialoghi con i dannati, creando un ritmo narrativo che riflette il movimento circolare dei peccatori nella bolgia.
Anche l’apostrofe trova spazio nei momenti più drammatici, come quando Maometto si rivolge direttamente a Dante: “Or vedi com’io mi dilacco!”, coinvolgendo emotivamente il lettore attraverso questo appello diretto.
L’insieme di queste figure retoriche crea un tessuto linguistico di straordinaria efficacia espressiva, permettendo a Dante di rappresentare visivamente l’orrore della pena e di comunicare in modo incisivo il messaggio morale sottostante: chi divide ciò che dovrebbe restare unito subisce a sua volta una divisione eterna.
Temi principali del 28 canto dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 28 dell’Inferno della Divina Commedia costituisce uno dei momenti più significativi della Divina Commedia dal punto di vista tematico, presentando una ricca stratificazione di significati che si collegano alla visione morale e politica di Dante.
Il tema dominante è indubbiamente quello della discordia, esplorato nelle sue diverse manifestazioni. Dante lo suddivide in tre tipologie principali: discordia religiosa (rappresentata da Maometto e Alì), discordia politica (incarnata da Pier da Medicina, Curione e Mosca dei Lamberti) e discordia familiare (esemplificata da Bertran de Born). Questa tripartizione non è casuale, ma riflette la concezione medievale delle tre sfere fondamentali dell’esistenza umana: spirituale, civile e domestica. La gravità attribuita a questo peccato è tale da collocarlo nell’ottavo cerchio, vicino al fondo dell’Inferno.
Particolarmente rilevante è il tema dell’unità violata, cardine del pensiero politico dantesco. Nelle opere teoriche come il De Monarchia, Dante sostiene la necessità di un’autorità universale che garantisca pace e ordine. I seminatori di discordia agiscono contro questo principio fondamentale, distruggendo l’armonia sociale voluta da Dio. Non è un caso che la punizione avvenga nella nona bolgia, notoriamente associata ai peccati di frode che implicano l’uso distorto della ragione, dono divino per eccellenza.
Il contrappasso raggiunge in questo canto la sua massima espressione simbolica. La punizione non è arbitraria ma specchio perfetto della colpa: chi ha diviso ciò che doveva restare unito viene eternamente diviso nel corpo. Dante introduce esplicitamente questo concetto attraverso le parole di Bertran de Born: “Così s’osserva in me lo contrappasso” (v. 142) – l’unico momento in tutta la Commedia in cui il poeta usa questo termine tecnico della giustizia medievale.
Il tema della parola come strumento di divisione emerge con particolare forza. I dannati hanno tutti utilizzato il linguaggio, dono specificamente umano, per seminare odio e divisioni. La lingua tagliata di Curione, la testa separata di Bertran e le altre mutilazioni simboleggiano l’abuso di questa facoltà. Dante implicitamente contrappone questo uso negativo della parola alla propria opera poetica, concepita invece come strumento di edificazione morale.
La ciclicità della pena rappresenta un ulteriore tema di riflessione. Le ferite dei dannati si rimarginano continuamente per essere riaperte dal demonio, in un ciclo eterno che richiama la perpetuità del male generato dalle loro azioni terrene. Le divisioni religiose, politiche e familiari causano infatti conseguenze che si propagano ben oltre la vita del loro iniziatore, come dimostrato dalle faide tra guelfi e ghibellini ancora vive ai tempi di Dante.
Infine, il tema della corporeità viene esplorato in modo peculiare. Il corpo mutilato diventa metafora visibile dell’anima corrotta, in una sorta di fisiognomica morale che espone all’esterno la perversione interiore. Le descrizioni crude e realistiche delle ferite non sono gratuite, ma servono a materializzare sensibilmente la gravità spirituale del peccato, rendendo visibile ai lettori l’invisibile corruzione morale.
Il Canto 28 dell’Inferno in pillole
Elemento | Descrizione | Esempi dal testo |
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Collocazione | Nona bolgia dell’ottavo cerchio (Malebolge) | “Già veggia, per mezzul perdere o lulla” (v. 22) |
Peccatori | Seminatori di discordia e scismatici | “Chi è colui dalla veduta amara” (v. 93) |
Contrappasso | Corpi eternamente mutilati e squarciati da un diavolo | “Così s’osserva in me lo contrapasso” (v. 142) |
Personaggi principali | Maometto, Alì, Pier da Medicina, Curione, Mosca dei Lamberti, Bertran de Born | “Vedi come storpiato è Maometto!” (v. 31) |
Temi | Discordia religiosa, politica e familiare; giustizia divina | “Io feci il padre e ‘l figlio in sé ribelli” (v. 136) |
Stile | Linguaggio crudo, descrizioni realistiche, similitudini vivide | “Chi poria mai pur con parole sciolte / dicer del sangue e de le piaghe” (vv. 1-2) |
Figure retoriche | Similitudini, metafore, iperboli, sineddoche, allitterazioni, climax | “Com’io vidi un, così non si pertugia, / rotto dal mento infin dove si trulla” (vv. 23-24) |
Profezie | Avvertimento su Fra Dolcino; previsione dell’assassinio di Guido e Angiolello | “Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi” (v. 55) |