Nel Canto 29 dell’Inferno della Divina Commedia, il Sommo Poeta esplora il tema della falsificazione nelle sue molteplici manifestazioni, presentando ai lettori anime condannate all’eterna sofferenza per aver utilizzato l’intelletto a fini fraudolenti. La narrazione si sviluppa attraverso un paesaggio infernale caratterizzato da malattie, sofferenze e fetore, elementi che rispecchiano perfettamente, secondo il principio del contrappasso, la corruzione morale dei dannati.
Indice:
- Canto 29 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 29 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 29 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 29 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 29 dell’Inferno della Divina Commedia
- Temi principali del 29 canto dell’Inferno della Divina Commedia
- Il Canto 29 dell’Inferno in pillole
Canto 29 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
Testo originale | Parafrasi |
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La molta gente e le diverse piaghe avean le luci mie sì inebrïate, che de lo stare a piangere eran vaghe. | La grande quantità di dannati e le loro diverse ferite avevano talmente colmato i miei occhi di orrore, che essi desideravano fermarsi a piangere. |
Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate? perché la vista tua pur si soffolge là giù tra l’ombre triste smozzicate? | Ma Virgilio mi disse: «Perché continui a guardare? Perché il tuo sguardo si sofferma laggiù tra le ombre tristi mutilate? |
Tu non hai fatto sì a l’altre bolge; pensa, se tu annoverar le credi, che miglia ventidue la valle volge. | Tu non ti sei comportato così nelle altre bolge; pensa che, se credi di poterle contare tutte, sappi che la valle si estende per ventidue miglia. |
E già la luna è sotto i nostri piedi; lo tempo è poco omai che n’è concesso, e altro è da veder che tu non credi». | E già la luna è sotto i nostri piedi (è mezzogiorno); ormai il tempo che ci è concesso è poco, e c’è altro da vedere che tu non immagini». |
«Se tu avessi», rispuos’io appresso, «atteso a la cagion per ch’io guardava, forse m’avresti ancor lo star dimesso». | «Se tu avessi prestato attenzione al motivo per cui guardavo», risposi poi, «forse mi avresti concesso di rimanere ancora». |
Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, già faccendo la risposta, e soggiugnendo: «Dentro a quella cava | Intanto il mio maestro se ne andava, e io lo seguivo, già formulando la risposta e aggiungendo: «Dentro quella cavità |
dov’io tenea or li occhi sì a posta, credo ch’un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa». | dove tenevo fissi gli occhi con tanta insistenza, credo che un’anima del mio stesso sangue pianga per la colpa che laggiù costa tanto caro». |
Allor disse ‘l maestro: «Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello. Attendi ad altro, ed ei là si rimanga; | Allora disse il maestro: «Non si spezzi il tuo pensiero da qui in avanti su di lui. Bada ad altro, e lascia che egli rimanga là; |
ch’io vidi lui a piè del ponticello mostrarti e minacciar forte col dito, e udi’ ‘l nominar Geri del Bello. | poiché io lo vidi ai piedi del ponticello indicarti e minacciarti duramente col dito, e lo udii chiamare Geri del Bello. |
Tu eri allor sì del tutto impedito sovra colui che già tenne Altaforte, che non guardasti in là, sì fu partito». | Tu eri allora così completamente concentrato su colui che un tempo possedette Altaforte (Bertran de Born), che non hai guardato nella sua direzione, tant’è vero che se n’è andato». |
«O duca mio, la vïolenta morte che non li è vendicata ancor», diss’io, «per alcun che de l’onta sia consorte, | «O mia guida, la violenta morte che non gli è stata ancora vendicata», dissi, «da alcuno che condivida l’offesa ricevuta, |
fece lui disdegnoso; ond’el sen gio sanza parlarmi, sì com’io estimo: e in ciò m’ha el fatto a sé più pio». | lo rese sdegnoso verso di me; perciò se ne andò senza parlarmi, come io credo, e questo mi ha reso più compassionevole verso di lui». |
Così parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l’altra valle mostra, se più lume vi fosse, tutto ad imo. | Così parlammo fino al primo luogo dello scoglio che mostra l’altra valle, se ci fosse più luce, fino in fondo. |
Quando noi fummo sor l’ultima chiostra di Malebolge, sì che i suoi conversi potean parere a la veduta nostra, | Quando fummo sopra l’ultima cerchia di Malebolge, in modo che i suoi penitenti potevano apparire alla nostra vista, |
lamenti saettaron me diversi, che di pietà ferrati avean li strali; ond’io li orecchi con le man copersi. | mi colpirono diversi lamenti, che avevano dardi armati di compassione; per cui mi coprii le orecchie con le mani. |
Qual dolor fora, se de li spedali di Valdichiana tra ‘l luglio e ‘l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali | Quale dolore ci sarebbe, se dagli ospedali di Valdichiana tra luglio e settembre e i malati di Maremma e di Sardegna |
fossero in una fossa tutti ‘nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n’usciva qual suol venir de le marcite membre. | fossero tutti insieme in una fossa, tale era qui, e ne usciva un tale fetore quale suole venire dalle membra in putrefazione. |
Noi discendemmo in su l’ultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista più viva | Noi scendemmo sull’ultima riva del lungo ponte di roccia, sempre dal lato sinistro; e allora la mia vista divenne più acuta |
giù ver lo fondo, la ‘ve la ministra de l’alto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra. | giù verso il fondo, là dove la ministra dell’alto Signore, l’infallibile giustizia, punisce i falsari che qui registra. |
Non credo ch’a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu l’aere sì pien di malizia, | Non credo che a vedere una tristezza maggiore fosse ad Egina tutto il popolo malato, quando l’aria fu così piena di malignità, |
che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo, | che gli animali, fino al più piccolo verme, morirono tutti, e poi anche gli antichi abitanti, secondo quanto affermano con certezza i poeti, |
si ristorar di seme di formiche; ch’era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche. | si rigenerarono dal seme delle formiche; come era a vedere in quella oscura valle languire gli spiriti in diversi mucchi. |
Qual sovra ‘l ventre, e qual sovra le spalle l’un de l’altro giacea, e qual carpone si trasmutava per lo tristo calle. | Alcuni giacevano sul ventre, altri sulle spalle l’uno dell’altro, e qualcuno si spostava carponi per il triste sentiero. |
Passo passo andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone. | Passo dopo passo andavamo in silenzio, guardando e ascoltando i malati, che non potevano sollevare i loro corpi. |
Io vidi due sedere a sé poggiati, com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al piè di schianze macolati; | Vidi due seduti appoggiati l’uno all’altro, come per scaldarsi si appoggia un tegame all’altro, coperti da croste di scabbia dalla testa ai piedi; |
e non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, né a colui che mal volontier vegghia, | e non vidi mai usare la striglia da un garzone atteso dal suo padrone, né da colui che mal volentieri veglia, |
come ciascun menava spesso il morso de l’unghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor, che non ha più soccorso; | come ciascuno di loro passava rapidamente le unghie su se stesso per la grande rabbia del prurito, che non ha altro rimedio; |
e sì traevan giù l’unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie o d’altro pesce che più larghe l’abbia. | e così le unghie portavano via la scabbia, come il coltello le squame della scardova o di un altro pesce che le abbia più larghe. |
«O tu che con le dita ti dismaglie», cominciò ‘l duca mio a l’un di loro, «e che fai d’esse tal volta tenaglie, | «O tu che con le dita ti scorzi», cominciò la mia guida rivolgendosi a uno di loro, «e che ne fai talvolta delle tenaglie, |
dinne s’alcun Latino è tra costoro che son quinc’entro, se l’unghia ti basti etternalmente a cotesto lavoro». | dicci se c’è qualche italiano tra costoro che sono qui dentro, e che le unghie ti durino eternamente per questo lavoro». |
«Latin siam noi, che tu vedi sì guasti qui ambedue», rispuose l’un piangendo; «ma tu chi se’, che di noi dimandasti?». | «Italiani siamo noi, che tu vedi così malconci qui entrambi», rispose uno piangendo; «ma tu chi sei, che ci hai interrogato?». |
E ‘l duca disse: «I’ son un che discendo con questo vivo giù di balzo in balzo, e di mostrar lo ‘nferno a lui intendo». | E la mia guida disse: «Io sono uno che discendo con questo vivo giù di cerchio in cerchio, e intendo mostrargli l’inferno». |
Allor si ruppe lo comun rincalzo; e tremando ciascuno a me si volse con altri che l’udiron di rimbalzo. | Allora si separarono dal loro comune appoggio; e tremando ciascuno si volse verso di me con altri che l’udirono di rimbalzo. |
Lo buon maestro a me tutto s’accolse, dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»; e io incominciai, poscia ch’ei volse: | Il buon maestro si rivolse completamente a me, dicendo: «Di’ a loro ciò che vuoi»; e io cominciai, poiché egli lo permise: |
«Se la vostra memoria non s’imboli nel primo mondo da l’umane menti, ma s’ella viva sotto molti soli, | «Se il vostro ricordo non svanisca nel mondo dei vivi dalle menti umane, ma viva sotto molti soli, |
ditemi chi voi siete e di che genti; la vostra sconcia e fastidiosa pena di palesarvi a me non vi spaventi». | ditemi chi siete e di che popoli; la vostra sconcia e dolorosa pena non vi spaventi dal rivelarvi a me». |
«Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena», rispuose l’un, «mi fé mettere al foco; ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena. | «Io fui di Arezzo, e Albero da Siena», rispose uno, «mi fece condannare al rogo; ma quello per cui morii non è ciò che mi conduce qui. |
Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco: “I’ mi saprei levar per l’aere a volo”; e quei, ch’avea vaghezza e senno poco, | È vero che gli dissi, parlando per scherzo: “Saprei sollevarmi in volo per l’aria”; e chegli, che era curioso e poco intelligente, |
volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo perch’io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l’avea per figliuolo. | volle che gli mostrassi l’arte; e solo perché non lo trasformai in Dedalo, mi fece bruciare da colui che lo considerava come un figlio. |
Ma ne l’ultima bolgia de le diece, me per l’alchìmia che nel mondo usai, dannò Minòs, a cui fallar non lece». | Ma nell’ultima bolgia delle dieci, per l’alchimia che praticai nel mondo, mi condannò Minosse, a cui non è permesso sbagliare». |
E io dissi al poeta: «Or fu già mai gente sì vana come la sanese? Certo non la francesca sì d’assai!». | E io dissi al poeta: «C’è mai stata gente così vana come i senesi? Certamente neanche i francesi lo sono altrettanto!». |
Onde l’altro lebbroso, che m’intese, rispuose al detto mio: «Tra’mene Stricca che seppe far le temperate spese, | Perciò l’altro lebbroso, che mi sentì, rispose alle mie parole: «Toglimi pure Stricca che seppe fare spese moderate, |
e Niccolò che la costuma ricca del garofano prima discoverse ne l’orto dove tal seme s’appicca; | e Niccolò che per primo scoprì la costosa usanza dei chiodi di garofano nell’orto dove tale seme attecchisce; |
e tra’ne la brigata in che disperse Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda, e l’Abbagliato suo senno proferse. | ed escludine la brigata in cui Caccia d’Asciano dissipò la vigna e il grande patrimonio, e l’Abbagliato mostrò il suo senno. |
Ma perché sappi chi sì ti seconda contra i Sanesi, aguzza ver me l’occhio, sì che la faccia mia ben ti risponda: | Ma perché tu sappia chi così ti asseconda contro i senesi, aguzza verso me lo sguardo, così che il mio volto ti risponda bene: |
sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio, che falsai li metalli con l’alchìmia; e te dee ricordar, se ben t’adocchio, | così vedrai che io sono l’ombra di Capocchio, che falsificai i metalli con l’alchimia; e ti devi ricordare, se ben ti guardo, |
com’io fui di natura buona scimia». | come io fui un’ottima scimmia della natura (cioè un abile falsificatore)». |
Canto 29 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il Canto 29 dell’Inferno della Divina Commedia è strutturato in tre parti ben distinte che riflettono l’evoluzione del viaggio dantesco attraverso l’ottavo cerchio di Malebolge. Inizialmente Dante è ancora intento a osservare gli spiriti mutilati della nona bolgia, tanto che Virgilio deve richiamarlo all’ordine: “Ma Virgilio mi disse: ‘Che pur guate? / perché la vista tua pur si soffolge / là giù tra l’ombre triste smozzicate?'”. Questo rimprovero segna il passaggio dalla nona bolgia, dove sono puniti i seminatori di discordie, alla decima, destinata ai falsari.
Nella prima parte (versi 1-36), il poeta si sofferma ancora sulla nona bolgia, attratto dalla vista delle anime mutilate dei seminatori di discordia. Virgilio lo ammonisce per questa eccessiva curiosità, ricordandogli che il tempo a loro disposizione è limitato. In questo frangente, Dante apprende che tra i dannati vi è anche un suo parente, Geri del Bello, che lo guarda con rabbia per non essere stato ancora vendicato dalla famiglia.
La seconda parte (versi 37-84) introduce la decima bolgia, caratterizzata da un’atmosfera di sofferenza estrema e da un fetore insopportabile. Dante utilizza una potente similitudine per descrivere l’ambiente: “Qual dolor fora, se de li spedali / di Valdichiana tra ‘l luglio e ‘l settembre / e di Maremma e di Sardigna i mali / fossero in una fossa tutti ‘nsembre, / tal era quivi”. Il poeta paragona l’olezzo pestilenziale della bolgia a quello che si sprigionerebbe se tutte le malattie degli ospedali delle zone più malariche dell’Italia centrale (Valdichiana, Maremma e Sardegna) fossero concentrate in un’unica fossa.
Nella terza parte (versi 85-139), Dante e Virgilio entrano in contatto diretto con i falsari. Qui incontrano due alchimisti, Griffolino d’Arezzo e Capocchio, colpevoli di aver cercato di falsificare i metalli tramite l’alchimia. Questi dannati sono afflitti da una scabbia così intensa che li costringe a grattarsi furiosamente, senza mai trovare sollievo: “come ciascun menava spesso il morso / de l’unghie sopra sé per la gran rabbia / del pizzicor, che non ha più soccorso”.
Il contrappasso, principio fondamentale della giustizia divina nell’Inferno dantesco, si manifesta con particolare efficacia in questo canto. I falsari, che in vita hanno corrotto e falsificato la verità, ora vedono corrotti i loro corpi da malattie ripugnanti. Come hanno alterato la natura delle cose con i loro inganni, così la loro natura corporea è alterata dalla malattia. La scabbia che li tormenta simboleggia la corruzione morale che hanno generato in vita, mentre l’insaziabile prurito rappresenta l’insaziabile desiderio di ingannare che li ha caratterizzati.
La parafrasi di alcuni passi chiave del canto aiuta a comprendere la crudezza della rappresentazione dantesca. Quando Dante descrive i due alchimisti appoggiati l’uno all’altro (“Io vidi due sedere a sé poggiati, / com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia, / dal capo al piè di schianze macolati”), sta dipingendo un’immagine di degradazione fisica che riflette la degradazione morale dei falsari. La traduzione moderna di questi versi sarebbe: “Vidi due seduti appoggiati l’uno all’altro, come si appoggiano le teglie per scaldarle, coperti da croste dalla testa ai piedi”.
Il dialogo tra Dante e i falsari è particolarmente significativo perché rivela la natura dei loro crimini. Griffolino racconta di essere stato arso vivo non tanto per la pratica dell’alchimia, quanto per aver ingannato un giovane senese, Albero, promettendogli di insegnargli a volare. Questo episodio evidenzia come la giustizia divina sia più sottile e profonda di quella umana: mentre sulla terra Griffolino fu punito per un inganno specifico, nell’aldilà sconta la colpa più generale di aver falsificato la natura attraverso l’alchimia.
Il canto 29 dell’Inferno, dunque, non è solo una tappa del viaggio oltremondano di Dante, ma anche una profonda riflessione sulla perversione dell’intelletto umano quando viene utilizzato per ingannare e corrompere. I falsari rappresentano l’uso distorto di uno dei doni più preziosi concessi da Dio all’uomo: l’intelligenza. La loro punizione è tanto più severa in quanto hanno tradito la particolare fiducia che la società ripone negli esperti e nei detentori di conoscenze specialistiche.
Canto 29 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
Nel canto 29 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante presenta diversi personaggi emblematici, ognuno rappresentante una specifica forma di falsificazione. Questi dannati incarnano la perversione dell’intelletto umano, utilizzato non per avvicinarsi alla verità, ma per distorcerla a proprio vantaggio.
Il primo personaggio significativo è Griffolino d’Arezzo, alchimista del XIII secolo condannato al rogo. Egli racconta a Dante di essere stato giustiziato per volere del vescovo di Siena, Alberto, non tanto per la pratica dell’alchimia quanto per aver ingannato suo figlio Albero. Griffolino aveva infatti promesso di insegnargli a volare, sfruttando la credulità e la vanità del giovane senese. Il poeta fiorentino ci presenta questo personaggio come emblema della falsificazione alchemica – la pretesa di trasformare metalli vili in preziosi – considerata nel Medioevo una grave perversione delle leggi naturali stabilite da Dio.
L’episodio di Griffolino introduce anche una riflessione sulla differenza tra giustizia umana e divina: mentre sulla terra fu condannato per una specifica truffa, nell’oltretomba paga per il peccato più ampio della falsificazione alchemica, con una pena che rispecchia perfettamente la natura del suo crimine. La sua figura simboleggia l’uso distorto dell’ingegno e la presunzione di poter manipolare le leggi naturali per tornaconto personale.
Il secondo personaggio rilevante è Capocchio, un altro alchimista che condivide la pena con Griffolino. Di origine senese, Capocchio era rinomato per la straordinaria capacità di imitazione, talento che deviò verso la falsificazione dei metalli, portandolo al rogo a Siena nel 1293. Nella sua rappresentazione emerge il tema dell’artista che corrompe il proprio talento piegandolo a scopi illeciti.
Dante indica di aver conosciuto personalmente Capocchio, aggiungendo così un elemento autobiografico che conferisce maggiore autenticità al racconto. Nel dialogo con il poeta, Capocchio pronuncia una sarcastica invettiva contro i senesi, descrivendoli come popolo vano e spendaccione, introducendo così una digressione sulla follia collettiva della città toscana. Questo passaggio amplia la riflessione dalla colpa individuale a quella sociale, suggerendo come anche un’intera comunità possa essere corrotta dalla vanità e dalla superficialità.
Verso la conclusione del canto, vengono menzionati altri dannati che saranno protagonisti del canto successivo: Gianni Schicchi, falsario di persone che si finse Buoso Donati sul letto di morte per dettare un testamento in proprio favore, e Mirra, che si travestì per giacere con il proprio padre. La loro presenza anticipa le altre categorie di falsari che Dante incontrerà: i falsificatori di persona, i mentitori e i falsificatori di moneta.
I personaggi del canto, attraverso le loro storie individuali, compongono un affresco della corruzione morale che deriva dall’uso distorto dell’intelletto umano. Le loro figure sono funzionali non solo alla narrazione, ma anche all’insegnamento morale che permea l’intera Divina Commedia: l’ingegno, dono divino, quando svincolato dall’etica e dalla virtù, conduce inevitabilmente alla dannazione eterna.
Analisi del Canto 29 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi
Il Canto 29 dell’Inferno della Divina Commedia costituisce un momento cruciale nel percorso allegorico intrapreso da Dante, poiché segna il passaggio dalla nona alla decima bolgia dell’ottavo cerchio. In questo segmento del viaggio oltremondano, emergono numerosi elementi narrativi di straordinaria potenza evocativa che meritano un’attenta analisi.
La struttura narrativa del canto si articola in tre movimenti distinti: inizialmente, Dante conclude l’osservazione dei seminatori di discordia nella nona bolgia; successivamente, avviene il passaggio verso la decima bolgia; infine, il poeta si immerge nella realtà dei falsari e delle loro terribili punizioni. Questa progressione spaziale riflette anche uno sviluppo tematico che conduce il lettore dal peccato della divisione sociale a quello della falsificazione, considerato ancora più grave nella gerarchia morale dantesca.
L’ambiente della decima bolgia si configura come una rappresentazione fisica della corruzione morale: la descrizione sensoriale, caratterizzata dall’insistenza sul fetore nauseabondo e sullo stato di degrado dei corpi, trasmette l’idea di un disfacimento che non è solo corporeo ma anche spirituale. La similitudine con gli ospedali della Valdichiana, della Maremma e della Sardegna evoca un panorama desolante di malattia e sofferenza che rispecchia la natura del peccato punito.
Un elemento tematico fondamentale è la perversione dell’intelletto umano. I falsari rappresentano infatti coloro che hanno deliberatamente utilizzato le proprie capacità intellettive per ingannare il prossimo, tradendo il dono divino della ragione. L’alchimista, figura emblematica di questa bolgia, viene condannato non tanto per la ricerca della conoscenza in sé, quanto per la presunzione di voler imitare e sostituirsi all’opera creatrice di Dio, tentando di trasformare artificialmente i metalli vili in oro.
Nella concezione teologica medievale che permea la Divina Commedia, questa è una colpa particolarmente grave perché sovverte l’ordine naturale stabilito dal Creatore. La visione dantesca si inserisce nel dibattito medievale sul valore dell’alchimia, considerata al confine tra scienza e magia, tra ricerca legittima e manipolazione demoniaca della natura.
Il principio del contrappasso, cardine della giustizia divina rappresentata nell’Inferno, si manifesta in questo canto con particolare evidenza: i falsari, che hanno corrotto la verità e l’integrità della natura, sono puniti con malattie che corrompono e falsificano i loro corpi. Le croste, la scabbia e la lebbra che li affliggono rappresentano la materializzazione fisica della loro corruzione morale, mentre il prurito incessante che li spinge a grattarsi furiosamente simboleggia il tormento interiore che accompagna la falsificazione della verità.
Significativo è anche il tema della dimensione sociale del peccato: la falsificazione (di metalli, monete, persone o parole) si configura come un crimine che mina le fondamenta stesse della convivenza civile, basata sulla fiducia reciproca. In questo senso, la rappresentazione dei falsari come malati contagiosi, isolati in una fossa fetida, rispecchia la loro esclusione dalla comunità umana a causa della rottura del patto sociale implicito nei loro inganni.
La narrazione evolve attraverso un sapiente uso del dialogo, elemento caratteristico dello stile dantesco, che permette al poeta di dare voce ai dannati e di far emergere le loro storie personali. I racconti di Griffolino d’Arezzo e Capocchio non sono semplici digressioni narrative, ma esemplificazioni concrete che rendono più comprensibile il peccato astratto della falsificazione, collegandolo a episodi e personaggi storici noti al pubblico dell’epoca.
Un ulteriore elemento di interesse è la progressiva immedesimazione di Dante con la situazione che osserva: il suo disgusto iniziale per il fetore si trasforma in un’attenzione sempre più intensa verso le storie individuali dei dannati, rivelando la duplice natura del suo viaggio come esperienza sensoriale e morale. Il rimprovero di Virgilio all’inizio del canto, quando nota l’eccessiva attenzione di Dante verso le anime della nona bolgia, sottolinea l’importanza di questo processo di osservazione e comprensione nel percorso di formazione del poeta.
La conclusione del canto, con l’anticipazione di altri falsari che verranno descritti nel canto successivo, crea un effetto di continuità narrativa tipico della Commedia, dove i confini tra i canti spesso si sfumano per sottolineare l’unitarietà del viaggio dantesco attraverso i regni dell’aldilà, un percorso che è insieme geografico, morale e spirituale.
Figure retoriche nel Canto 29 dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 29 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta un vertice dell’abilità retorica dantesca, dove l’orrore della decima bolgia viene reso attraverso un ricco tessuto di figure stilistiche che intensificano l’impatto emotivo della narrazione.
Similitudini
Dante impiega similitudini di straordinaria efficacia per rendere tangibile il mondo ultraterreno, collegandolo all’esperienza quotidiana dei lettori:
- La similitudine degli ospedali (vv. 46-51): “Qual dolor fora, se de li spedali / di Valdichiana tra ‘l luglio e ‘l settembre / e di Maremma e di Sardigna i mali / fossero in una fossa tutti ‘nsembre”. Paragona il fetore emanato dai falsari al miasma degli ospedali nelle zone malariche, evocando un’immagine di corruzione fisica e morale che colpisce immediatamente i sensi del lettore.
- La similitudine della striglia (vv. 76-81): “e non vidi già mai menare stregghia / a ragazzo aspettato dal segnorso, / né a colui che mal volontier vegghia”. Qui Dante accosta il frenetico grattarsi dei dannati all’azione di un garzone che strigliava frettolosamente i cavalli, rendendo visibile la disperazione dei falsari tormentati dal prurito.
- La comparazione dei lebbrosi (vv. 124-126): “Come ciascun di gratter s’affatica / per la gran rabbia del pizzicor che non ha più soccorso”, che evoca la sofferenza incessante e senza rimedio dei malati.
Metafore
Le metafore nel canto contribuiscono a creare un’atmosfera di degrado e corruzione:
- La metafora dell’ebbrezza (v. 2): “avean le luci mie sì inebriate”, dove lo stordimento provocato dalla vista delle anime mutilate è paragonato all’effetto dell’alcol, suggerendo lo smarrimento dei sensi davanti all’orrore.
- La metafora del morso (v. 79-80): “come ciascun menava spesso il morso / de l’unghie sopra sé”, che trasforma il gesto del grattarsi in un’azione violenta e autodistruttiva, quasi animalesca.
Allitterazioni e onomatopee
Dante arricchisce il testo con figure di suono che amplificano l’impatto sensoriale:
- Allitterazione della “s” in “schianze”, “schifare”, “smorta”, che riproduce fonicamente il suono del grattamento e dello sfregamento.
- L’insistenza sui suoni aspri nei versi che descrivono le malattie, contribuendo alla creazione di un ambiente sonoro sgradevole che rispecchia la condizione dei dannati.
Iperboli
L’esagerazione retorica viene impiegata per enfatizzare la gravità delle pene:
- L’iperbole del fetore (vv. 50-51): “tal era quivi, e tal puzzo n’usciva / qual suol venir de le marcite membre”, che amplifica l’orrore olfattivo della bolgia.
Antitesi
Il contrasto tra condizioni opposte evidenzia la natura paradossale della giustizia divina:
- L’antitesi tra ingegno e degrado emerge nel dialogo con Capocchio, dove l’abilità intellettuale che in vita gli permise di essere “buona scimmia” (imitatore) si contrappone alla degradazione fisica della sua punizione.
Ironia e sarcasmo
L’uso dell’ironia, particolarmente nelle parole di Capocchio contro i senesi, introduce un elemento di amara riflessione:
- L’invettiva sarcastica (vv. 121-123): “Or fu già mai / gente sì vana come la sanese? / Certo non la francesca sì d’assai!”, che contrappone la vanità dei senesi persino a quella proverbiale dei francesi.
Funzione delle figure retoriche
Queste figure retoriche non sono meri ornamenti, ma svolgono funzioni cruciali:
- Funzione rappresentativa: rendono percepibili realtà altrimenti inconcepibili, avvicinando l’esperienza infernale all’orizzonte conoscitivo del lettore.
- Funzione espressiva: intensificano l’impatto emotivo del testo, suscitando disgusto e orrore proporzionati alla gravità dei peccati descritti.
- Funzione strutturale: creano collegamenti tra diverse sezioni del canto e dell’intera cantica, contribuendo all’unità compositiva dell’opera.
- Funzione morale: il linguaggio figurato sostiene l’insegnamento etico sotteso al viaggio dantesco, rendendo evidente il legame tra colpa e pena.
L’uso magistrale delle figure retoriche trasforma così la rappresentazione dei falsari in un’esperienza sensoriale completa, dove vista, olfatto e udito sono coinvolti nell’apprendimento morale. Attraverso questo raffinato strumentario stilistico, Dante realizza pienamente l’obiettivo didattico della sua poesia, rendendo immediatamente comprensibile la gravità del peccato di falsificazione e la giustizia della punizione divina.
Temi principali del 29 canto dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 29 dell’Inferno della Divina Commedia affronta numerosi temi di profondo significato teologico e morale, che si intrecciano nella rappresentazione delle anime dannate nella decima bolgia.
La falsificazione come perversione dell’intelletto costituisce il tema centrale del canto. Secondo la visione medievale, l’intelletto è un dono divino che dovrebbe guidare l’uomo verso la verità e la virtù. I falsari hanno invece distorto questa facoltà, utilizzandola per ingannare e corrompere. L’alchimia, praticata da Griffolino d’Arezzo e Capocchio, rappresenta emblematicamente questa perversione: invece di cercare la conoscenza autentica, gli alchimisti tentavano di imitare artificialmente i processi naturali, sfidando l’ordine divino della creazione.
Il tema della corruzione dell’ordine naturale emerge chiaramente nella rappresentazione delle pene. I falsari hanno alterato la natura delle cose (metalli, persone, parole), e per contrappasso la loro natura corporea viene alterata dalle malattie. Le piaghe, la scabbia e il fetore che li affliggono sono manifestazioni fisiche della loro corruzione morale, secondo il principio medievale per cui l’aspetto esteriore riflette la condizione dell’anima.
Particolarmente significativo è il tema della dimensione sociale del peccato. La falsificazione non è solo un’offesa a Dio, ma anche un crimine contro la società umana: falsificare monete danneggia l’economia collettiva; falsificare persone (come farà Gianni Schicchi, citato verso la fine del canto) compromette la certezza delle relazioni e dei diritti; falsificare la verità con menzogne (come farà Sinone) mina la fiducia reciproca su cui si fonda la convivenza civile. Dante colloca i falsari in una delle bolge più profonde proprio perché il loro peccato attacca i fondamenti stessi della società.
Il contrasto tra apparenza e realtà attraversa tutto il canto: i falsari hanno ingannato facendo apparire una cosa per un’altra, e ora la loro vera natura corrotta è esposta senza possibilità di mascheramento. Questo tema si collega alla più ampia critica dantesca dell’inganno e dell’ipocrisia, vizi particolarmente diffusi nella società del suo tempo.
Affrontando il tema del corpo come manifestazione dell’anima, Dante mostra come le malattie che affliggono i dannati non siano casuali, ma riflettano precisamente la natura del loro peccato: la lebbra che corrode i corpi rappresenta la corruzione morale; il prurito insopportabile simboleggia il tormento interiore di chi ha vissuto nell’inganno; l’impossibilità di trovare sollievo riflette l’irreversibilità della condanna divina.
Influenzato dalla teologia medievale, Dante esplora anche il tema della giustizia divina come perfetta corrispondenza tra colpa e pena: se in vita i falsari hanno alterato l’ordine naturale per lucro o inganno, nell’aldilà subiscono una condizione in cui è la loro stessa natura ad essere alterata e degradata, in un equilibrio perfetto tra la natura del peccato e quella del castigo.
Il Canto 29 dell’Inferno in pillole
Aspetto | Descrizione | Riferimenti specifici |
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Collocazione | Ottavo cerchio, transizione tra nona bolgia (seminatori di discordia) e decima bolgia (falsari) | vv. 1-39: passaggio dalla nona alla decima bolgia |
Struttura | Tripartito: congedo dalla nona bolgia, descrizione decima bolgia, dialogo con i falsari | Parte 1: vv. 1-36, Parte 2: vv. 37-84, Parte 3: vv. 85-139 |
Contrappasso | I falsari sono puniti con malattie deturpanti che corrompono i loro corpi come essi hanno corrotto la verità | Scabbia e lebbra come simbolo della corruzione morale |
Personaggi principali | Griffolino d’Arezzo: alchimista arso vivo per ordine del vescovo di Siena Capocchio: alchimista senese condannato al rogo nel 1293 | Griffolino: vv. 109-120 Capocchio: vv. 121-139 |
Temi centrali | Falsificazione come perversione dell’intelletto Corruzione morale Inganno Giustizia divina | L’alchimia come tentativo di falsificare la natura (vv. 118-120) |
Figure retoriche | Similitudine degli ospedali: paragona il fetore della bolgia a quello di ospedali in zone malariche Similitudine della striglia: paragona il grattarsi dei dannati all’uso della striglia sui cavalli Metafora dell’ebbrezza: descrive lo stato di shock visivo di Dante | Similitudine ospedali: vv. 46-51 Similitudine striglia: vv. 76-81 Metafora ebbrezza: v. 2 |
Ambientazione | Luogo fetido, nauseabondo, simile a un lazzaretto | «tal puzzo n’usciva qual suol venir de le marcite membre» (vv. 50-51) |
Linguaggio | Realistico, crudo, con terminologia medica e riferimenti alla vita quotidiana | Termini come “schianze”, “lebbra”, “scabbia”, “grattare” |
Significato simbolico | Rappresentazione della corruzione fisica come specchio della corruzione morale Il fetore come manifestazione del peccato La malattia come punizione divina per chi ha alterato l’ordine naturale | La corrispondenza tra falsificazione della verità e falsificazione del corpo |
Importanza nell’opera | Ponte narrativo verso il Canto 30 dove prosegue l’incontro con i falsari Completamento della rappresentazione della frode intellettuale punita nell’ottavo cerchio | Anticipazione dei falsari di persona, parola e moneta del Canto 30 |