Il Canto 3 del Purgatorio rappresenta una tappa fondamentale nel percorso di purificazione intrapreso da Dante nella seconda cantica della Divina Commedia. Questo canto, dominato dall’incontro con le anime dei contumaci della Chiesa e con Manfredi di Svevia, affronta temi cruciali come la misericordia divina e i limiti del giudizio umano.
L’analisi del testo, della parafrasi e delle figure retoriche ci permette di cogliere appieno la profondità del messaggio dantesco e la maestria poetica con cui l’Alighieri costruisce il suo viaggio ultraterreno.
Indice:
- Canto 3 Purgatorio della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 3 Purgatorio della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 3 Purgatorio della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 3 del Purgatorio: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 3 del Purgatorio della Divina Commedia
- Temi principali del 3 canto del Purgatorio della Divina Commedia
- Il Canto 3 del Purgatorio in pillole
Canto 3 Purgatorio della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
| Testo originale | Parafrasi |
|---|---|
| Avvegna che la subitana fuga dispergesse color per la campagna, rivolti al monte ove ragion ne fruga, | Benché la fuga improvvisa avesse disperso quelle anime per la spiaggia, esse rimasero rivolte verso il monte dove la giustizia divina le esamina. |
| i’ mi ristrinsi a la fida compagna: e come sarei io sanza lui corso? chi m’avria tratto su per la montagna? | Io mi avvicinai al mio fedele compagno Virgilio: come avrei potuto procedere senza di lui? Chi mi avrebbe guidato su per la montagna? |
| El mi parea da sé stesso rimorso: o dignitosa coscienza e netta, come t’è picciol fallo amaro morso! | Egli mi sembrava tormentato dal rimorso: oh coscienza dignitosa e pura, quanto ti addolora anche il più piccolo errore! |
| Quando li piedi suoi lasciar la fretta, che l’onestade ad ogn’ atto dismaga, la mente mia, che prima era ristretta, | Quando i suoi piedi rallentarono il passo affrettato, che toglie dignità a ogni azione, la mia mente, che prima era concentrata solo sul presente, |
| lo ‘ntento rallargò, sì come vaga, e diedi ‘l viso mio incontr’ al poggio che ‘nverso ‘l ciel più alto si dislaga. | allargò la sua attenzione, desiderosa di osservare, e rivolsi il mio sguardo verso il colle che si innalza verso il cielo. |
| Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio, rotto m’era dinanzi a la figura, ch’avea in me de’ suoi raggi l’appoggio. | Il sole, che splendeva rosso dietro di me, risultava interrotto davanti dalla mia figura, che tratteneva i suoi raggi. |
| Io mi volsi dallato con paura d’essere abbandonato, quand’ io vidi solo dinanzi a me la terra oscura; | Mi girai di lato con paura di essere stato abbandonato, quando vidi davanti a me solo la terra oscurata dalla mia ombra; |
| e ‘l mio conforto: «Perché pur diffidi?» a dir mi cominciò tutto rivolto; «non credi tu me teco e ch’io ti guidi? | e la mia guida mi disse, voltandosi completamente verso di me: “Perché continui a dubitare? Non credi che io sia con te e che ti stia guidando? |
| Vespero è già colà dov’ è sepolto lo corpo dentro al quale io facea ombra; Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto. | È già sera là dove è sepolto il mio corpo, col quale facevo ombra: si trova a Napoli, trasportato da Brindisi. |
| Ora, se dinanzi a me nulla s’aombra, non ti maravigliar più che d’i cieli che l’uno a l’altro raggio non ingombra. | Ora, se davanti a me non si proietta alcuna ombra, non meravigliartene più di quanto non ti meravigli dei cieli, che non ostacolano i raggi l’uno all’altro. |
| A sofferir tormenti, caldi e geli simili corpi la Virtù dispone che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli. | Per soffrire tormenti, caldi e geli, la Potenza divina predispone corpi simili ai nostri, ma non vuole che ci sia rivelato come ciò avvenga. |
| Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone. | Folle è chi spera che la nostra ragione possa comprendere l’infinita natura di una sostanza divina in tre persone. |
| State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria; | Accontentatevi, o uomini, del “quia” (del sapere che è così); perché, se aveste potuto vedere tutto, non sarebbe stato necessario che Maria partorisse Cristo; |
| e disïar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, ch’etternalmente è dato lor per lutto: | e vedeste desiderare invano coloro il cui desiderio sarebbe stato appagato, ma che ora è dato loro eternamente come fonte di dolore: |
| io dico d’Aristotile e di Plato e di molt’ altri»; e qui chinò la fronte, e più non disse, e rimase turbato. | parlo di Aristotele e di Platone e di molti altri”; e qui chinò il capo, e non disse altro, rimanendo turbato. |
| Noi divenimmo intanto a piè del monte; quivi trovammo la roccia sì erta, che ‘ndarno vi sarien le gambe pronte. | Nel frattempo giungemmo ai piedi del monte; lì trovammo la roccia così ripida che inutilmente vi si sarebbero adoperate gambe agili. |
| Tra Lerice e Turbìa la più diserta, la più rotta ruina è una scala, verso di quella, agevole e aperta. | Tra Lerici e Turbia, la frana più deserta e più impervia è una scala facile e aperta, in confronto a quella. |
| «Or chi sa da qual man la costa cala», disse ‘l maestro mio fermando ‘l passo, «sì che possa salir chi va sanz’ ala?». | “Ora chi sa da che parte il pendio scende”, disse il mio maestro fermando il passo, “così che possa salire chi procede senza ali?”. |
| E mentre ch’e’ tenendo ‘l viso basso essaminava del cammin la mente, e io mirava suso intorno al sasso, | E mentre egli, tenendo il viso basso, rifletteva mentalmente sul cammino da prendere, e io guardavo in alto intorno alla roccia, |
| da man sinistra m’apparì una gente d’anime, che movieno i piè ver’ noi, e non pareva, sì venïan lente. | dal lato sinistro mi apparve un gruppo di anime che muovevano i piedi verso di noi, ma non sembrava, tanto procedevano lentamente. |
| «Leva», diss’ io, «maestro, li occhi tuoi: ecco di qua chi ne darà consiglio, se tu da te medesmo aver nol puoi». | “Alza”, dissi io, “maestro, i tuoi occhi: ecco di qua chi ci darà consiglio, se tu non puoi trovarlo da solo”. |
| Guardò allora, e con libero piglio rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano; e tu ferma la spene, dolce figlio». | Guardò allora, e con atteggiamento sereno rispose: “Andiamo verso di loro, perché vengono lentamente; e tu mantieni salda la speranza, dolce figlio”. |
| Ancora era quel popol di lontano, i’ dico dopo i nostri mille passi, quanto un buon gittator trarria con mano, | Ancora quel gruppo era lontano, dopo che avemmo fatto mille passi, quanto un buon lanciatore potrebbe scagliare con la mano, |
| quando si strinser tutti ai duri massi de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti com’ a guardar, chi va dubbiando, stassi. | quando si strinsero tutti contro le dure rocce dell’alta parete, e rimasero fermi e compatti come chi si ferma a osservare quando procede incerto. |
| «O ben finiti, o già spiriti eletti», Virgilio incominciò, «per quella pace ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti, | “O anime che avete avuto buona morte, o spiriti già eletti”, cominciò Virgilio, “per quella pace che io credo sia attesa da voi tutti, |
| ditene dove la montagna giace, sì che possibil sia l’andare in suso; ché perder tempo a chi più sa più spiace». | diteci dove il monte digrada, così che sia possibile salire; perché perdere tempo dispiace maggiormente a chi più sa”. |
| Come le pecorelle escon del chiuso a una, a due, a tre, e l’altre stanno timidette atterrando l’occhio e ‘l muso; | Come le pecorelle escono dal recinto a una, a due, a tre, e le altre stanno timide abbassando l’occhio e il muso; |
| e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, addossandosi a lei, s’ella s’arresta, semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno; | e ciò che fa la prima, fanno anche le altre, accostandosi a lei se si ferma, semplici e tranquille, senza sapere il perché; |
| sì vid’ io muovere a venir la testa di quella mandra fortunata allotta, pudica in faccia e ne l’andare onesta. | così vidi muoversi per venire le prime di quel gruppo fortunato, pudiche nel volto e dignitose nel camminare. |
| Come color dinanzi vider rotta la luce in terra dal mio destro canto, sì che l’ombra era da me a la grotta, | Appena quelle davanti videro la luce interrotta a terra dal mio lato destro, così che l’ombra si estendeva da me fino alla roccia, |
| restaro, e trasser sé in dietro alquanto, e tutti li altri che venieno appresso, non sappiendo ‘l perché, fenno altrettanto. | si fermarono e indietreggiarono un poco, e tutti gli altri che venivano dietro, non sapendo il motivo, fecero lo stesso. |
| «Sanza vostra domanda io vi confesso che questo è corpo uman che voi vedete; per che ‘l lume del sole in terra è fesso. | “Senza che voi lo chiediate vi confermo che questo che vedete è un corpo umano; per questo la luce del sole è spezzata a terra. |
| Non vi maravigliate, ma credete che non sanza virtù che da ciel vegna cerchi di soverchiar questa parete». | Non meravigliatevi, ma credete che non senza una virtù che viene dal cielo egli cerchi di superare questa parete”. |
| Così ‘l maestro; e quella gente degna «Tornate», disse, «intrate innanzi dunque», coi dossi de le man faccendo insegna. | Così parlò il maestro; e quella gente degna disse: “Tornate indietro, entrate pure avanti”, facendo cenno col dorso delle mani. |
| E un di loro incominciò: «Chiunque tu se’, così andando, volgi ‘l viso: pon mente se di là mi vedesti unque». | E uno di loro cominciò: “Chiunque tu sia, mentre cammini, volgi il viso: rifletti se di là mi hai mai visto”. |
| Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso. | Io mi voltai verso lui e lo guardai attentamente: era biondo e bello e di nobile aspetto, ma un colpo gli aveva diviso uno dei sopraccigli. |
| Quand’ io mi fui umilmente disdetto d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»; e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto. | Quando io umilmente negai di averlo mai visto, egli disse: “Ora guarda”; e mi mostrò una ferita in cima al petto. |
| Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; ond’ io ti priego che, quando tu riedi, | Poi sorridendo disse: “Io sono Manfredi, nipote dell’imperatrice Costanza; perciò ti prego che, quando torni, |
| vadi a mia bella figlia, genitrice de l’onor di Cicilia e d’Aragona, e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice. | vada da mia bella figlia, madre dell’onore di Sicilia e d’Aragona, e le dica la verità, se si dice altro. |
| Poscia ch’io ebbi rotta la persona di due punte mortali, io mi rendei, piangendo, a quei che volontier perdona. | Dopo che ebbi il corpo trafitto da due ferite mortali, mi affidai, piangendo, a colui che volentieri perdona. |
| Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei. | Orribili furono i miei peccati; ma la bontà infinita ha braccia così ampie che accoglie chiunque si rivolga a lei. |
| Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora, avesse in Dio ben letta questa faccia, | Se il vescovo di Cosenza, che fu mandato allora da papa Clemente a perseguitarmi, avesse ben compreso questo aspetto di Dio, |
| l’ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento, sotto la guardia de la grave mora. | le ossa del mio corpo sarebbero ancora all’estremità del ponte presso Benevento, sotto la protezione del pesante mucchio di pietre. |
| Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde, dov’ e’ le trasmutò a lume spento. | Ora le bagna la pioggia e le muove il vento fuori dal regno, quasi lungo il fiume Verde, dove le fece trasportare a candele spente. |
| Per lor maladizion sì non si perde, che non possa tornar, l’etterno amore, se di speranza verde non si perde. | Per la loro maledizione non si perde a tal punto che non possa tornare l’amore eterno, purché non venga meno la speranza. |
| Vero è che quale in contumacia more di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta, star li convien da questa ripa in fore, | È vero che chi muore scomunicato dalla Santa Chiesa, anche se alla fine si pente, deve restare fuori da questo pendio, |
| per ognun tempo ch’elli è stato, trenta, in sua presunzïon, se tal decreto più corto per buon prieghi non diventa. | per ogni periodo in cui è rimasto nella sua presunzione, trenta volte tanto, se tale decreto non viene abbreviato da buone preghiere. |
| Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, revelando a la mia buona Costanza come m’hai visto, e anco esto divieto; | Vedi ora se puoi rendermi felice, rivelando alla mia buona Costanza come mi hai visto, e anche questo divieto; |
| ché qui per quei di là molto s’avanza». | perché qui, grazie alle preghiere di quelli che sono in vita, si progredisce molto”. |
Canto 3 Purgatorio della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
All’alba del primo giorno in Purgatorio, Dante e Virgilio si trovano sulla spiaggia che circonda la montagna. Mentre si avviano verso l’ascesa, Dante si accorge che solo lui proietta un’ombra sul terreno, ricordandogli la natura incorporea di Virgilio. Questo dettaglio fisico diventa il primo elemento di riflessione sull’incontro tra il mondo terreno e quello spirituale, tema centrale di questo canto.
I due poeti iniziano a percorrere la base della montagna cercando un punto di accesso per salire. Durante questa ricerca, Dante nota un gruppo di anime che si avvicinano lentamente. Queste anime, incredule alla vista dell’ombra proiettata da Dante, si meravigliano nel riconoscere un uomo ancora vivo nel regno dei morti. Il loro stupore evidenzia l’eccezionalità del viaggio dantesco, che travalica i confini tra i mondi.
Virgilio spiega alle anime che Dante è vivo e che il suo viaggio è voluto da Dio. In questo momento il canto introduce un’importante riflessione teologica: le anime accettano umilmente i limiti della comprensione umana davanti ai misteri divini. Virgilio invita Dante a proseguire senza perdere tempo, ricordandogli la transitoria natura della vita e l’urgenza del cammino spirituale.
Tra le anime che si avvicinano ai due poeti spicca quella di Manfredi di Svevia, figura storica di grande rilievo. Figlio naturale dell’imperatore Federico II, Manfredi si presenta con una nobile bellezza, nonostante una ferita sul sopracciglio e una sul petto, segni della violenta morte subita nella battaglia di Benevento nel 1266.
La presenza di Manfredi, nemico politico della Chiesa del tempo, rappresenta una significativa scelta narrativa di Dante, che qui suggerisce come la misericordia divina possa estendersi anche a coloro che furono condannati dalla Chiesa terrena.
Manfredi racconta la sua storia: scomunicato dalla Chiesa, in punto di morte si pentì sinceramente, affidandosi alla misericordia di Dio. Nonostante la condanna ecclesiastica, che portò il vescovo di Cosenza a far diseppellire e disperdere le sue ossa lungo il fiume Verde per ordine di papa Clemente IV, Manfredi è stato accolto in Purgatorio. Questo passaggio costituisce una delle più potenti affermazioni dantesche sulla supremazia della giustizia divina rispetto ai giudizi terreni.
La vicenda di Manfredi illustra un principio fondamentale della teologia dantesca: nessuna scomunica può impedire il ritorno a Dio di chi si pente sinceramente, poiché l’amore divino è infinito e sempre pronto ad accogliere chi si affida ad esso. “Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei” – con queste parole Manfredi sintetizza l’essenza della misericordia divina, elemento chiave nella concezione teologica della Commedia.
Manfredi chiede a Dante di portare notizie di lui alla figlia Costanza, madre di Federico III di Sicilia e di Giacomo II d’Aragona, per informarla della sua salvezza e per richiedere preghiere che possano abbreviare la sua permanenza in Purgatorio. Questa richiesta evidenzia un altro tema centrale del Purgatorio: l’efficacia delle preghiere dei vivi nel ridurre il tempo di espiazione delle anime purganti.
Il canto si conclude con una spiegazione sul funzionamento del Purgatorio: le anime di coloro che muoiono in contumacia della Chiesa, anche se pentiti, devono attendere nell’Antipurgatorio per un periodo trenta volte più lungo della durata della loro contumacia, a meno che questo tempo non venga abbreviato dalle preghiere dei vivi. Questa regola sottolinea l’importanza della comunione tra i vivi e i morti, altro elemento fondamentale nella costruzione teologica dantesca.
Questo terzo canto rappresenta quindi un momento cruciale del viaggio purgatoriale, dove si intrecciano riflessioni sulla misericordia divina, sul pentimento, sul rapporto tra Chiesa e salvezza individuale, e sul valore della preghiera. La figura di Manfredi diventa emblema di speranza per tutti i peccatori che, nonostante gravi colpe e condanne terrene, possono trovare accoglienza nell’amore divino se sinceramente pentiti.
La narrazione si configura anche come una sottile critica alla Chiesa del tempo, rappresentata nella figura del vescovo di Cosenza, che appare più preoccupata del potere temporale che della salvezza delle anime. Dante contrappone a questa Chiesa terrena, talvolta deviata dai suoi compiti spirituali, la perfetta giustizia divina che guarda al cuore dell’uomo più che ai giudizi umani.
La narrazione si sviluppa con una sapiente alternanza di elementi descrittivi, come il paesaggio del Purgatorio e l’aspetto fisico di Manfredi, e riflessioni teologiche sulla misericordia e il pentimento. Questa tecnica narrativa permette a Dante di rendere concreti e comprensibili concetti astratti e complessi, caratteristica distintiva della sua poesia.
Canto 3 Purgatorio della Divina Commedia: i personaggi
Nel terzo canto del Purgatorio, Dante presenta un numero limitato ma significativo di personaggi, ciascuno con un ruolo preciso nel percorso di purificazione e crescita spirituale del poeta.
Il primo personaggio che incontriamo è Virgilio, la guida razionale e intellettuale di Dante. In questo canto, la sua figura assume una connotazione particolare: mostra i propri limiti conoscitivi di fronte ai misteri divini, quando ammette l’inadeguatezza della ragione umana a comprendere i disegni di Dio.
Il suo atteggiamento riflessivo di fronte all’impossibilità di spiegare razionalmente la diversa consistenza dei corpi (il suo non proietta ombra, mentre quello di Dante sì) sottolinea la distinzione tra la dimensione terrena e quella ultraterrena. La frase “State contenti, umana gente, al quia” (v. 37) riassume perfettamente questo limite della ragione umana, invitando ad accettare l’esistenza dei fenomeni senza pretendere di comprenderne sempre la causa.
Il gruppo delle anime dei contumaci rappresenta coloro che, pur scomunicati, si pentirono in punto di morte. Queste anime si muovono lentamente, quasi incerte, e incarnano l’attesa propria di chi, avendo trascurato la propria salvezza in vita, deve ora attendere un tempo supplementare prima di iniziare il percorso di purificazione.
La loro condizione riflette una forma di esilio spirituale, un’ulteriore penitenza che precede l’accesso vero e proprio al Purgatorio.
Tra queste anime spicca la figura di Manfredi, figlio dell’imperatore Federico II e re di Sicilia. Il personaggio storico viene trasfigurato poeticamente da Dante, che ne fa l’emblema del perdono divino che supera i limiti della giustizia umana. Manfredi, scomunicato dalla Chiesa e morto in battaglia, si presenta con parole che sottolineano la sua bellezza fisica (“biondo era e bello e di gentile aspetto”, v. 107), in contrasto con le ferite che ne segnano il corpo, testimonianza della violenta morte a Benevento.
La sua presenza tra i salvati, nonostante la scomunica, trasmette un messaggio profondo sulla misericordia divina, che accoglie il pentimento sincero anche nell’ultimo istante di vita.
La figura di Manfredi assume una dimensione politica oltre che religiosa: attraverso questo personaggio, Dante critica implicitamente l’ingerenza della Chiesa nelle questioni temporali e la presunzione di poter determinare il destino ultraterreno delle anime. Le parole con cui Manfredi racconta la propria sepoltura, prima sotto “la grave mora” e poi lungo il fiume Verde, per ordine di papa Clemente IV, evidenziano il contrasto tra la condanna ecclesiastica e la clemenza divina.
Sebbene non fisicamente presenti, vengono evocati anche altri personaggi fondamentali per comprendere il significato del canto: papa Clemente IV, responsabile della persecuzione contro Manfredi, rappresenta il potere ecclesiastico che presume di poter influenzare il giudizio divino; Federico II, padre di Manfredi, è una figura complessa, imperatore scomunicato ma ammirato da Dante per le sue qualità intellettuali.
La presenza di questi personaggi, con le loro storie di conflitti terreni, pentimento e redenzione, contribuisce in modo determinante alla riflessione sui temi centrali del canto: il pentimento tardivo, i limiti del potere ecclesiastico e la grandezza della misericordia divina, capace di superare ogni barriera umana per accogliere chi sinceramente si pente.
Analisi del Canto 3 del Purgatorio: elementi tematici e narrativi
Il Canto 3 del Purgatorio rappresenta un momento cruciale nel viaggio dantesco verso la redenzione, caratterizzandosi per una ricca trama di elementi tematici e narrativi che si intrecciano in un tessuto poetico di straordinaria intensità. Al centro di questo canto troviamo la riflessione sulla condizione delle anime che, sebbene scomunicate, hanno trovato la via del pentimento prima della morte.
La struttura narrativa del canto si articola in tre momenti fondamentali: l’incipit con la meditazione di Virgilio sul mistero delle anime del Purgatorio, l’incontro con le anime dei contumaci e infine il dialogo con Manfredi. Questa progressione non è casuale, ma riflette un percorso interiore che conduce Dante a una più profonda comprensione della misericordia divina.
Un tema dominante è quello dell’umiltà intellettuale di fronte ai misteri divini. Virgilio, simbolo della ragione umana, riconosce i limiti della conoscenza razionale quando si tratta di comprendere le verità divine: “State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria”.
Questo passaggio è emblematico del messaggio che attraversa l’intero canto: l’intelletto umano deve accettare i propri limiti di fronte all’imperscrutabilità dei disegni divini.
Collegato a questo tema vi è quello della tensione tra la giustizia divina e la misericordia. Le anime degli scomunicati, pur condannate dalla Chiesa terrena, trovano accoglienza nel Purgatorio grazie al pentimento in punto di morte. Questa apparente contraddizione tra il giudizio umano e quello divino è esemplificata nella figura di Manfredi, scomunicato dalla Chiesa ma salvato dalla misericordia divina.
Come afferma lo stesso Manfredi: “Orribil furon li peccati miei; / ma la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei”.
Particolarmente significativa è l’immagine delle anime che, riconoscendo Dante come vivo dal modo in cui respira e proietta l’ombra, si meravigliano e indietreggiano “come gente che va dubbiando”. Questo momento narrativo sottolinea la condizione liminale di Dante, sospeso tra il mondo dei vivi e quello dei morti, e prefigura il tema della ricerca che caratterizza tutto il canto.
Il paesaggio stesso diventa elemento narrativo significante: la salita impervia e difficile verso il monte del Purgatorio riflette simbolicamente il cammino di purificazione dell’anima. La descrizione dettagliata della fatica del salire (“tra Lerice e Turbìa la più diserta, / la più rotta ruina è una scala, / verso di quella, agevole e aperta”) rappresenta metaforicamente le difficoltà del percorso di redenzione.
Un altro tema fondamentale è quello della memoria e dell’identità. Manfredi chiede a Dante di portare notizie di lui nel mondo dei vivi, ricordando la sua vera identità contro la condanna della Chiesa: “Io son Manfredi, / nepote di Costanza imperatrice”. In questo passaggio emerge il potere della poesia come strumento di redenzione storica, capace di restituire dignità a figure condannate dalla storia ufficiale.
La narrazione si sviluppa anche attraverso il contrasto tra luce e ombra, elemento ricorrente in tutto il Purgatorio. L’incapacità delle anime di proiettare ombre, a differenza di Dante, diventa segno tangibile della loro condizione di defunti e contemporaneamente metafora della loro ricerca di illuminazione spirituale.
Da notare come Dante costruisca un sottile parallelismo tra la propria condizione di esiliato politico e quella di Manfredi, scomunicato e rifiutato dalla Chiesa. Entrambi sono vittime di un giudizio terreno che non corrisponde necessariamente al giudizio divino, suggerendo una profonda riflessione sul tema della giustizia umana e dei suoi limiti.
Il dialogo tra Dante e Manfredi introduce anche il tema della preghiera come strumento di intercessione. Quando Manfredi chiede a Dante di riferire alla figlia Costanza della sua salvezza affinché preghi per lui, il poeta affronta il tema del legame tra i vivi e i morti e del potere della preghiera di abbreviare il tempo della purificazione.
La dimensione politica, sempre presente nell’opera dantesca, emerge con forza nel racconto della vita e della morte di Manfredi. Attraverso la figura del re svevo, Dante critica implicitamente il potere temporale della Chiesa e la sua ingerenza nelle questioni politiche, tema che sarà ulteriormente sviluppato nei canti successivi.
Il canto si caratterizza anche per una forte componente emotiva che si manifesta nell’atteggiamento di Manfredi, descritto come “biondo era e bello e di gentile aspetto”, immagine che contrasta con la violenta condanna ecclesiastica. Questa rappresentazione positiva del personaggio, nonostante la scomunica, sottolinea ulteriormente il divario tra il giudizio divino e quello umano.
L’evoluzione narrativa del canto segue un crescendo emotivo che culmina nella rivelazione dell’identità di Manfredi e nella sua richiesta di intercessione. Questo movimento ascendente riflette il percorso stesso del Purgatorio: un cammino di purificazione che procede gradualmente verso la luce e la redenzione.
In conclusione, il Canto 3 del Purgatorio si configura come una complessa meditazione sulla misericordia divina, sui limiti del giudizio umano e sulla possibilità di redenzione anche per coloro che sono stati condannati dalla giustizia terrena. La struttura narrativa, i personaggi e le immagini poetiche convergono verso questa riflessione centrale, rendendo il canto un momento chiave nel percorso spirituale della Divina Commedia.
Figure retoriche nel Canto 3 del Purgatorio della Divina Commedia
Il terzo canto del Purgatorio è ricco di figure retoriche che Dante utilizza per potenziare l’espressività e la portata simbolica del suo messaggio poetico. Queste figure non sono meri abbellimenti stilistici, ma strumenti essenziali che permettono al poeta di veicolare concetti teologici e filosofici complessi attraverso un linguaggio evocativo e potente.
La similitudine è una delle figure retoriche più significative in questo canto, presente in diversi passaggi chiave. Particolarmente efficace è l’immagine delle pecore che escono dal recinto: “Come le pecorelle exon del chiuso / ad una, a due, a tre, e l’altre stanno / timidette atterrando l’occhio e ‘l muso”.
Questa similitudine rappresenta le anime che, ancora incerte, si avvicinano con timore a Dante e Virgilio, rispecchiando la condizione di chi, pur nella via della purificazione, porta ancora i segni della propria timidezza terrena.
L’antitesi si manifesta nella contrapposizione tra luce e ombra, elemento ricorrente che sottolinea il passaggio dall’Inferno al Purgatorio: il contrasto tra l’oscurità dell’abisso infernale e la luminosità – seppur ancora non piena – della montagna purgatoriale. Questo elemento retorico si riflette nel verso “Da man sinistra m’apparì una gente / d’anime, che movieno i piè ver’ noi, / e non pareva, sì venïan lente”, dove la percezione visiva contrasta con l’apparente immobilità.
L’allegoria, figura fondamentale in tutta la Commedia, trova nel Canto 3 una particolare espressione nel personaggio di Manfredi, figlio dell’imperatore Federico II. La sua figura rappresenta allegoricamente la possibilità di salvezza anche per chi, in vita, è stato scomunicato: “Orribil furon li peccati miei; / ma la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei”.
In questi versi si esprime l’allegoria della misericordia divina, più ampia del giudizio umano.
Il canto è impreziosito anche dall’uso dell’iperbole, evidente quando Virgilio descrive il corpo di luce che non proietta ombra: “Vespero è già colà dov’è sepolto / lo corpo dentro al quale io facea ombra; / Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto”. L’iperbole serve qui a sottolineare la natura incorporea dello spirito guida, accentuando il contrasto con la fisicità di Dante.
La perifrasi, figura che consiste nell’esprimere un concetto con più parole invece di usarne una sola, è utilizzata da Dante quando si riferisce al suo corpo come “questa soma / de la carne d’Adamo ond’io mi vesto”, evitando il termine diretto per arricchire il verso di sfumature teologiche sul peso del corpo mortale.
Particolarmente rilevante è la metafora del “folle volo” degli “umani ingegni” che tenta di comprendere il giudizio divino. Questa metafora rimanda all’immagine dell’Ulisse dantesco e alla superbia intellettuale, rappresentando il limite della ragione umana di fronte ai misteri divini: “State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria”.
L’anafora, ripetizione di una parola all’inizio di versi o frasi successive, è presente nella triplice ripetizione del “come” nella descrizione delle anime che si avvicinano e nelle ripetizioni che scandiscono la narrazione di Manfredi: “Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso: / biondo era e bello e di gentile aspetto, / ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso”.
La sineddoche, che consiste nell’indicare la parte per il tutto, si rileva quando Dante usa “le tempie” per indicare l’intero volto o la persona di Manfredi: “mostrommi una piaga a sommo ‘l petto. / Poi sorridendo disse: “Io son Manfredi”.
Il canto presenta anche l’uso efficace dell’ossimoro, particolarmente evidente nella descrizione della condizione delle anime dei contumaci, che pur essendo escluse temporaneamente dalla purificazione, non sono condannate: si tratta di un’esclusione che include nella promessa finale di salvezza, un “ritardo salvifico”.
L’apostrofe è utilizzata quando Dante si rivolge direttamente al lettore o quando i personaggi si rivolgono a Dante: “O ben finiti, o già spiriti eletti / cominciò Virgilio, per quella pace / ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti”. Questa figura retorica crea un effetto di immediatezza e coinvolgimento emotivo.
La climax, o gradazione, si manifesta nell’intensificazione progressiva del discorso di Manfredi, che da una semplice presentazione personale passa alla narrazione della sua morte violenta fino alla rivelazione della misericordia divina che lo ha accolto nonostante la scomunica.
Infine, l’uso dell’ironia si può intravedere quando Dante mette in contrasto il giudizio ecclesiastico con quello divino riguardo a Manfredi, suggerendo sottilmente una critica alla Chiesa terrena troppo rigida nelle sue condanne: “Per lor maladizion sì non si perde, / che non possa tornar, l’etterno amore, / mentre che la speranza ha fior del verde”.
Queste figure retoriche non solo arricchiscono il tessuto poetico del canto ma contribuiscono in modo fondamentale alla costruzione del suo significato profondo, permettendo a Dante di esplorare temi complessi come la misericordia divina, i limiti della ragione umana e la possibilità di redenzione anche per chi è stato condannato in terra.
Temi principali del 3 canto del Purgatorio della Divina Commedia
Il terzo canto del Purgatorio sviluppa diversi temi fondamentali che riflettono sia la visione teologica di Dante sia il suo messaggio morale ed esistenziale. Questi temi si intrecciano organicamente nella narrazione, contribuendo alla ricchezza interpretativa dell’opera.
Il tema dell’umiltà emerge con particolare forza nell’incontro con Manfredi e nella descrizione delle anime dei contumaci. La condizione di queste anime, che attendono pazientemente di iniziare il loro percorso di purificazione, simboleggia l’accettazione umile della giustizia divina.
Manfredi stesso, nonostante sia figlio di un imperatore, si presenta con semplicità, senza ostentare il suo lignaggio regale, dimostrando come nel Purgatorio le gerarchie terrene perdano significato davanti alla misericordia divina.
La misericordia di Dio costituisce infatti un altro tema centrale del canto. La storia di Manfredi, morto scomunicato ma salvato grazie al suo pentimento nell’ultimo istante di vita, illustra magnificamente l’infinita capacità di perdono divino. Dante sottolinea come “l’etterno amore” possa accogliere chiunque si penta sinceramente, anche all’ultimo respiro, contraddicendo così l’inflessibilità delle sentenze ecclesiastiche terrene.
Come afferma lo stesso Manfredi: “orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei”.
La contrapposizione tra l’autorità ecclesiastica e la giustizia divina rappresenta un ulteriore tema significativo. Attraverso la figura di Manfredi, scomunicato dal papa ma accolto da Dio, Dante critica implicitamente l’eccessiva rigidità della Chiesa del suo tempo, suggerendo che il giudizio divino si basa sulla sincerità del pentimento piuttosto che su decreti formali.
Questo tema si inserisce nella più ampia critica dantesca alla corruzione ecclesiastica, presente in tutta la Commedia.
Il limite della ragione umana emerge quando Virgilio spiega l’impossibilità di comprendere pienamente i misteri divini. L’episodio delle ombre che non proiettano ombra diventa metafora dei limiti conoscitivi dell’intelletto umano di fronte ai misteri teologici.
Come afferma Virgilio: “Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone”. Questo passaggio sottolinea la necessità di accettare con umiltà i limiti della comprensione umana davanti ai misteri divini.
Il pentimento e la conversione rappresentano temi cruciali, incarnati nella figura di Manfredi. Il suo racconto evidenzia come il pentimento sincero, anche nel momento estremo della vita, possa redimere anche i peccati più gravi. La sua storia diventa emblematica del messaggio cristiano della possibilità di redenzione offerta a tutti gli uomini, indipendentemente dalla gravità delle loro colpe passate.
La speranza permea tutto il canto, differenziandolo nettamente dall’atmosfera dell’Inferno. Le anime incontrate, pur dovendo attendere a lungo prima di iniziare la purificazione, sono sostenute dalla certezza della salvezza futura. Questa speranza si contrappone alla disperazione degli abitanti dell’Inferno, creando quella che è forse la più significativa differenza emotiva tra le due cantiche.
Il rapporto tra vita terrena e vita ultraterrena viene esplorato attraverso la figura di Manfredi, che mantiene nell’aldilà la bellezza che lo caratterizzava in vita, seppur segnato dalla ferita mortale. Questo elemento sottolinea la continuità tra l’esistenza terrena e quella ultraterrena, suggerendo che l’identità personale non viene cancellata dalla morte, ma piuttosto purificata e perfezionata.
In conclusione, il terzo canto del Purgatorio si configura come una profonda riflessione teologica e morale che esplora temi universali come il perdono, la misericordia, i limiti della conoscenza umana e la speranza della redenzione. Questi temi, sviluppati attraverso l’incontro con Manfredi e la spiegazione di Virgilio, offrono ai lettori spunti di meditazione ancora attuali, contribuendo alla perenne rilevanza dell’opera dantesca.
Il Canto 3 del Purgatorio in pillole
| Aspetto | Dettagli |
|---|---|
| Ambientazione | Antipurgatorio, ai piedi della montagna del Purgatorio |
| Personaggi principali | Dante, Virgilio, Manfredi di Svevia e le anime dei contumaci della Chiesa |
| Temi centrali | Pentimento tardivo, misericordia divina, limiti della ragione umana, scomunica |
| Simbologia | L’ombra come limite umano, il sole come simbolo divino, la montagna come percorso di purificazione |
| Eventi chiave | Stupore di Dante per la mancanza di ombra di Virgilio, incontro con le anime dei morti in contumacia della Chiesa, narrazione di Manfredi sulla sua morte e sepoltura |
| Figure retoriche | Similitudini del gregge e della montagna, metafore della luce divina, allegoria del viaggio come percorso spirituale |
| Messaggio morale | La misericordia divina supera i limiti della giustizia terrena; il pentimento sincero, anche tardivo, apre alla salvezza |
| Struttura | Diviso in tre momenti: riflessione filosofica con Virgilio, incontro con le anime, dialogo con Manfredi |
| Versi celebri | “State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria” (vv. 37-39) |