Divina Commedia, Canto 30 Inferno: testo, parafrasi e commento

Divina Commedia, Canto 30 Inferno: testo, parafrasi e figure retoriche

Il Canto 30 dell’Inferno della Divina Commedia è dedicato alla punizione dei falsari, suddivisi in tre categorie: falsificatori di persona, di moneta e di parola. Attraverso un elaborato sistema di contrappasso, le anime dei peccatori subiscono tormenti che riflettono simbolicamente la natura delle loro colpe terrene. Il canto si distingue per la sua struttura complessa, che alterna momenti di alta tensione drammatica a scene di crudo realismo, culminando nella violenta lite tra maestro Adamo e Sinone.

Indice:

Canto 30 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi

Testo originaleParafrasi
Nel tempo che Giunone era crucciataNel tempo in cui Giunone era adirata
per Semelè contra ‘l sangue tebano,contro i tebani a causa di Semele,
come mostrò una e altra fïata,come dimostrò più di una volta,
Atamante divenne tanto insano,Atamante divenne così folle,
che veggendo la moglie con due figliche vedendo sua moglie con i due figli
andar carcata da ciascuna mano,camminare carica di un bambino per ogni mano,
gridò: «Tendiam le reti, sì ch’io pigligridò: «Stendiamo le reti, così che io possa catturare
la leonessa e ‘ leoncini al varco»;la leonessa e i leoncini al passaggio»;
e poi distese i dispietati artigli,e poi stese le spietate mani,
prendendo l’un ch’avea nome Learco,afferrando uno dei figli che si chiamava Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;lo fece roteare e lo sbatté contro una pietra;
e quella s’annegò con l’altro carco.e la moglie si annegò con l’altro figlio che portava.
E quando la fortuna volse in bassoE quando la sorte fece cadere in rovina
l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,la potenza dei Troiani che osava ogni cosa,
sì che ‘nsieme col regno il re fu casso,così che insieme al regno fu distrutto anche il re,
Ecuba trista, misera e cattiva,Ecuba triste, misera e prigioniera,
poscia che vide Polissena morta,dopo che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la rivae del suo Polidoro sulla riva del mare
del mar si fu la dolorosa accorta,si accorse addolorata,
forsennata latrò sì come cane;impazzita per il dolore latrò come un cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.tanto il dolore le sconvolse la mente.
Ma né di Tebe furie né troianeMa né le furie di Tebe né quelle troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,si videro mai tanto crudeli in alcuno,
non punger bestie, nonché membra umane,non pungere bestie, e tanto meno membra umane,
quant’io vidi in due ombre smorte e nude,quanto io vidi in due ombre pallide e nude,
che mordendo correvan di quel modoche correndo mordevano alla maniera
che ‘l porco quando del porcil si schiude.del porco quando esce dal porcile.
L’una giunse a Capocchio, e in sul nodoUna raggiunse Capocchio, e sulla nuca
del collo l’assannò, sì che, tirando,lo azzannò, così che, trascinandolo,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.lo fece strisciare con la pancia sul fondo duro.
E l’Aretin che rimase, tremandoE l’Aretino che rimase, tremando
mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,mi disse: «Quel folle è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando».e va rabbioso maltrattando così gli altri».
«Oh», diss’io lui, «se l’altro non ti ficchi«Oh», dissi a lui, «se l’altro non ti conficca
li denti a dosso, non ti sia faticai denti addosso, non ti sia di disturbo
a dir chi è, pria che di qui si spicchi».dirmi chi è, prima che di qui si allontani».
Ed elli a me: «Quell’è l’anima anticaEd egli a me: «Quella è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divennedella scellerata Mirra, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.amante del padre, al di fuori del giusto amore.
Questa a peccar con esso così venne,Questa giunse a peccare con lui in questo modo,
falsificando sé in altrui forma,falsificando sé stessa sotto l’apparenza di un’altra,
come l’altro che là sen va, sostenne,come quell’altro che se ne va là, osò,
per guadagnar la donna de la torma,per ottenere la miglior cavalla della mandria,
falsificare in sé Buoso Donati,falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma».facendo testamento e dando regola al testamento».
E poi che i due rabbiosi fuor passatiE dopo che i due rabbiosi furono passati
sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,sui quali io avevo tenuto lo sguardo,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.lo rivolsi a guardare gli altri dannati.
Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,Io vidi uno, fatto a forma di liuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaiasolo che avesse avuto l’inguine
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.tagliato all’altezza della biforcazione delle gambe.
La grave idropesì, che sì dispaiaLa grave idropisia, che rende così sproporzionate
le membra con l’omor che mal converte,le membra con l’umore che trasforma male,
che ‘l viso non risponde a la ventraia,così che il viso non corrisponde alla pancia,
faceva lui tener le labbra apertelo faceva tenere le labbra aperte
come l’etico fa, che per la setecome fa il tisico, che per la sete
l’un verso ‘l mento e l’altro in sù rinverte.rivolge un labbro verso il mento e l’altro verso l’alto.
«O voi che sanz’alcuna pena siete,«O voi che siete senza alcuna pena,
e non so io perché, nel mondo gramo»,e non so io perché, in questo mondo infelice»,
diss’elli a noi, «guardate e attendetedisse egli a noi, «guardate e fate attenzione
a la miseria del maestro Adamo;alla miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,io ebbi, da vivo, molto di quello che volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.e ora, ahimè!, bramo una goccia d’acqua.
Li ruscelletti che d’i verdi colliI ruscelletti che dai verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,del Casentino scendono giù nell’Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,rendendo i loro letti freddi e umidi,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,mi stanno sempre davanti, e non invano,
ché l’imagine lor vie più m’asciugaperché la loro immagine mi prosciuga molto di più
che ‘l male ond’io nel volto mi discarno.che il male per cui il mio viso diventa scarno.
La rigida giustizia che mi frugaLa rigida giustizia che mi punge
tragge cagion del loco ov’io peccaitrae motivo dal luogo dove io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.per rendere più frequenti i miei sospiri.
Ivi è Romena, là dov’io falsaiLà è Romena, dove io falsificai
la lega suggellata del Batista;la lega sigillata del Battista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai.per cui io lasciai il corpo arso su nel mondo.
Ma s’io vedessi qui l’anima tristaMa se io vedessi qui l’anima malvagia
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,di Guido o di Alessandro o del loro fratello,
per Fonte Branda non darei la vista.per la Fonte Branda non darei la vista.
Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiateDentro c’è già una di esse, se le anime arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;che vanno intorno dicono il vero;
ma che mi val, c’ho le membra legate?ma che mi giova, se ho le membra legate?
S’io fossi pur di tanto ancor leggeroSe io fossi ancora tanto leggero
ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,da poter percorrere un’oncia in cent’anni,
io sarei messo già per lo sentero,io mi sarei già messo per il sentiero,
cercando lui tra questa gente sconcia,cercando lui tra questa gente deforme,
con tutto ch’ella volge undici miglia,nonostante che essa si estenda per undici miglia,
e men d’un mezzo di traverso non ci ha.e non abbia meno di un mezzo miglio di larghezza.
Io son per lor tra sì fatta famiglia;Io sono a causa loro in così fatta compagnia;
e’ m’indussero a batter li fioriniessi mi indussero a battere i fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia».che avevano tre carati di impurità».

Canto 30 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione

Il Canto 30 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta la conclusione del percorso di Dante e Virgilio nella decima bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i falsari. La narrazione si apre con due potenti riferimenti mitologici che fungono da parallelismo alle pene infernali: Atamante, re di Tebe che, impazzito per volere di Giunone, uccise il figlio Learco scambiandolo per un animale; ed Ecuba, regina di Troia, trasformata in cagna rabbiosa dal dolore per la morte del figlio Polidoro. Questi esempi anticipano il tema della falsificazione e della perdita d’identità.

Dante procede descrivendo tre categorie di falsari, ciascuna punita secondo la legge del contrappasso:

I falsificatori di persona sono i primi ad apparire: Gianni Schicchi, che si finse Buoso Donati sul letto di morte per redigere un falso testamento, e Mirra, che si camuffò per giacere col padre Cinira. Entrambi corrono rabbiosi per la bolgia mordendo altri dannati, simboleggiando come abbiano “falsificato” la propria identità in vita.

Il poeta incontra poi Maestro Adamo, falsario di monete, punito con una grave idropisia che deforma il suo corpo a forma di liuto, con il ventre abnormemente gonfio. Questa malattia rappresenta il perfetto contrappasso: come in vita ha alterato la composizione dei fiorini fiorentini (riducendone il contenuto aureo), così ora i suoi umori corporei sono alterati, provocandogli una sete inestinguibile. Nel suo monologo, Maestro Adamo rivela di aver agito su istigazione dei conti Guidi di Romena e manifesta un profondo rancore nei loro confronti.

La terza categoria comprende i falsificatori di parola, rappresentati da Sinone, il greco che convinse i troiani a introdurre il cavallo di legno nella loro città. La sua punizione è una febbre acuta che lo fa bruciare e fumare, simbolo dell’infiammazione prodotta dalle sue menzogne.

Il culmine del canto è rappresentato dalla violenta lite verbale tra Maestro Adamo e Sinone, che si scambiano insulti degradanti. Questo alterco mostra la totale perdita di dignità umana derivante dalla falsificazione, al punto che persino Virgilio rimprovera Dante per l’eccessivo interesse verso questa scena indecorosa.

La struttura del canto segue un percorso preciso: dall’introduzione mitologica alla rappresentazione delle diverse categorie di falsari, per concludersi con una riflessione sulla degradazione morale che la falsità provoca. Le punizioni fisiche (rabbia bestiale, idropisia, febbre) manifestano visivamente la corruzione interiore: il corpo diventa specchio dell’anima corrotta, in una perfetta applicazione della legge del contrappasso.

Dante riesce a trasmettere una potente lezione morale: la falsificazione non solo danneggia gli altri, ma corrompe profondamente chi la pratica, alterando l’identità stessa del peccatore. In questo modo, il canto si inserisce perfettamente nella struttura allegorica dell’Inferno, dove ogni punizione è simbolo visibile della deformazione spirituale causata dal peccato.

Canto 30 Inferno della Divina Commedia: i personaggi

Il canto 30 dell’Inferno della Divina Commedia è popolato da figure emblematiche che incarnano diverse tipologie di falsificazione. Ciascun personaggio rappresenta un aspetto specifico della frode e subisce un contrappasso direttamente collegato alla natura del proprio peccato.

Maestro Adamo emerge come figura centrale del canto, un falsario di monete la cui punizione riflette in modo esemplare la logica del contrappasso dantesco. Di probabile origine inglese o toscana, Maestro Adamo falsificò fiorini d’oro per conto dei conti Guidi di Romena, riducendone il contenuto aureo ma mantenendo l’aspetto esteriore. La sua condanna al rogo, avvenuta a Firenze nel 1281, si trasforma nell’aldilà in un tormento paradossale: un’idropisia devastante che deforma il suo corpo, rendendolo simile a un liuto con un ventre enormemente gonfio.

Questa deformità fisica simboleggia il “gonfiamento” del valore delle monete falsificate, mentre la sete insaziabile che lo tormenta rappresenta la sua insaziabile avidità terrena. L’immobilità a cui è costretto diviene emblema perfetto della sua falsificazione: come ha alterato il valore delle monete, così il suo corpo appare alterato nella forma; come ha “gonfiato” il valore del denaro, così il suo corpo è gonfio d’acqua.

Sinone, il greco che secondo l’Eneide convinse con l’inganno i troiani a introdurre il cavallo di legno nella loro città, rappresenta la falsificazione della parola. La sua presenza sottolinea la gravità della menzogna che, nel caso specifico, portò alla distruzione di un’intera civiltà. Sinone è punito con una febbre acuta che lo fa bruciare e “fumare” continuamente, simbolo dell’infiammazione prodotta dalle sue parole ingannevoli. Nel canto, si distingue per la violenta tenzone verbale con Maestro Adamo, uno scambio di insulti che rivela come la falsità degradi non solo il corpo ma anche lo spirito, riducendo esseri umani a livelli bestiali di comportamento.

Gianni Schicchi, fiorentino della famiglia Cavalcanti, incarna il falsificatore d’identità. La sua colpa consistette nell’impersonare Buoso Donati sul letto di morte per dettare un falso testamento in favore di Simone Donati, ottenendo come ricompensa una pregiata cavalla. Nel canto, appare come un dannato consumato dalla rabbia, costretto a mordere gli altri dannati in un’eterna imitazione della frenesia animalesca. La sua punizione riflette la perdita dell’identità umana, conseguenza diretta dell’aver falsificato l’identità altrui.

Mirra, figura mitologica, completa il quadro dei falsificatori di persona. Figlia di Cinira, re di Cipro, si finse un’altra donna per giacere incestuosamente con il padre. La sua trasgressione è presentata da Dante come una forma di falsificazione particolarmente grave poiché corrompe i legami familiari fondamentali. Come Gianni Schicchi, anche Mirra è condannata a una rabbia bestiale che la spinge ad aggredire gli altri dannati, perdendo così ogni traccia della sua umanità.

Nel presentare questi personaggi, Dante crea un microcosmo della falsificazione, mostrando come l’inganno corrompa ogni aspetto dell’essere umano: il corpo (Maestro Adamo), la parola (Sinone) e l’identità stessa (Gianni Schicchi e Mirra). Le loro punizioni non sono arbitrarie ma rivelano una profonda comprensione della natura del peccato e delle sue conseguenze sulla dignità umana.

Analisi del Canto 30 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi

Il canto 30 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta uno dei momenti più complessi dell’architettura morale dantesca, dove la falsificazione viene esplorata in tutte le sue sfaccettature. Dante sviluppa un’articolata riflessione sulla corruzione dell’autenticità umana attraverso molteplici elementi tematici e narrativi che si intrecciano in un tessuto denso di significati.

Il tema centrale della falsificazione si declina in tre distinte categorie che Dante presenta con precisione chirurgica. La falsificazione di persona, rappresentata da Gianni Schicchi e Mirra, costituisce la prima trasgressione dell’ordine naturale: l’usurpazione dell’identità altrui viola il principio di individualità che, nella concezione medievale, è dono divino inalienabile.

La falsificazione di moneta, incarnata da maestro Adamo, attacca invece il fondamento stesso della società civile, alterando lo strumento che regola gli scambi economici e sociali. Infine, la falsificazione della parola, esemplificata da Sinone, corrompe il veicolo primario della verità, trasformando il linguaggio – facoltà che distingue l’uomo dalle bestie – in strumento d’inganno.

Particolarmente significativo è il modo in cui Dante intreccia questi temi con la riflessione sull’autenticità. In un universo morale dove l’essere umano è chiamato a realizzare pienamente la propria essenza secondo un disegno divino, la falsificazione rappresenta una sovversione dell’ordine cosmico. I falsari hanno tradito non solo il prossimo, ma la propria natura umana, degradandosi volontariamente a un livello sub-umano, come suggerito dalle malattie bestiali che li affliggono.

Il contrappasso, principio cardine della giustizia dantesca, si manifesta nel Canto 30 con raffinata coerenza: chi ha falsificato l’identità altrui è condannato a perdere il controllo della propria, chi ha alterato la materia è afflitto dall’alterazione del proprio corpo, chi ha avvelenato le parole è consumato da una febbre che lo brucia dall’interno. La pena non è mai arbitraria ma specchio della colpa, in un sistema dove giustizia e poesia si fondono in perfetta simmetria.

Dal punto di vista narrativo, il canto si distingue per la sua struttura tripartita che riflette le tre categorie di falsari. L’esordio mitologico con le figure di Atamante ed Ecuba stabilisce immediatamente un parallelismo tra la follia divina e quella umana, suggerendo che la falsificazione sia una forma di pazzia morale che sovverte l’ordine naturale. Questa introduzione elevata contrasta volutamente con la degradazione successiva della scena, in particolare nella lite triviale tra maestro Adamo e Sinone.

Dante utilizza magistralmente la tensione narrativa, costruendo un crescendo che culmina nello scontro verbale tra i due dannati. Questo episodio rappresenta uno dei rari momenti della Commedia in cui il poeta permette ai personaggi di dialogare estesamente tra loro, creando una scena di straordinaria vivacità drammatica. La progressione dalla solennità mitologica iniziale alla bassezza della rissa finale rispecchia la caduta morale dei falsari, che dalla dignità umana sono precipitati in una condizione bestiale.

I riferimenti mitologici, lungi dall’essere mero ornamento erudito, funzionano come potenti amplificatori del messaggio morale. Le storie di Atamante ed Ecuba non solo anticipano tematicamente la follia dei falsari, ma collegano la loro condizione a un archetipo universale di sovversione dell’ordine naturale. Dante stabilisce così un legame tra il mito classico e la teologia cristiana, mostrando come la falsificazione rappresenti una costante nella storia della caduta umana.

La maestria narrativa di Dante si rivela anche nella gestione del tempo poetico: il canto si apre con un ampio respiro temporale («Nel tempo che Giunone era crucciata») per poi concentrarsi progressivamente sul presente eterno della punizione, fino all’immediatezza drammatica della lite finale. Questa compressione temporale accentua l’effetto claustrofobico della bolgia, dove i dannati sono inchiodati per l’eternità alla conseguenza delle loro azioni.

Figure retoriche nel Canto 30 dell’Inferno della Divina Commedia

Il Canto 30 dell’Inferno della Divina Commedia si distingue per la ricchezza e la varietà di figure retoriche impiegate da Dante, strumenti attraverso cui il poeta intensifica l’impatto emozionale e morale della narrazione.

Le similitudini abbondano e contribuiscono a rendere tangibile l’orrore delle punizioni infernali. Particolarmente potente è il paragone del corpo idropico di maestro Adamo a un “liuto”: “E io vidi un, fatto a guisa di liuto”. Questa similitudine rende immediatamente percepibile la deformità fisica del dannato, con il ventre abnormemente dilatato e le estremità assottigliate. Altrettanto efficace è la comparazione tra il suono prodotto dal ventre percosso di maestro Adamo e quello di “un tamburo”, che accentua la degradazione fisica e morale del personaggio.

Le metafore permeano l’intero canto, a partire dal “puzzo” che aleggia nella bolgia, chiara rappresentazione della corruzione morale dei falsari. La sete che tormenta maestro Adamo diventa metafora dell’insaziabile avidità che lo spinse alla falsificazione. Significativa è anche la metafora delle “spalle che fanno schermo al capo”, immagine dell’impossibilità di sfuggire alla giustizia divina.

Dante fa ampio uso di iperboli nella descrizione delle deformazioni fisiche dei dannati. Il corpo di maestro Adamo è iperbolicamente descritto come gonfio “dal mento infin dove si trulla”, mentre la sua sete è esagerata al punto da fargli desiderare “un gocciol d’acqua” più di qualsiasi altra cosa al mondo. Queste esagerazioni retoriche amplificano l’effetto del contrappasso e la gravità del peccato.

Le antitesi abbondano, specialmente nel contrasto tra la sete perenne di maestro Adamo e l’abbondanza delle acque dell’Arno evocate nei suoi ricordi. Significativa è anche l’antitesi tra la pesantezza del corpo idropico e la leggerezza della parola ingannatrice: “Ancor che mi sia tolto / lo muover per le membra che son gravi, / ho io il braccio a tal mestiere sciolto”.

Notevole è anche l’uso dell’ironia drammatica, soprattutto nel litigio tra maestro Adamo e Sinone, dove i due falsari si accusano reciprocamente di menzogna, senza rendersi conto dell’assurdità della situazione. Il climax ascendente nella progressione della lite intensifica la tensione narrativa, culminando nel rimprovero di Virgilio.

L’allitterazione appare in versi come “falsificare in sé Buoso Donati, / testando e dando al testamento norma”, dove la ripetizione del suono “t” richiama il battere del martello nella falsificazione delle monete. Simile effetto produce la ripetizione della “s” in “sì dispaia le membra con l’omor che mal converte”.

L’insieme di queste figure retoriche non è mero ornamento stilistico, ma strumento essenziale attraverso cui Dante costruisce un quadro vivido e indimenticabile della corruzione morale. Attraverso il linguaggio figurato, il poeta rende tangibile il contrasto tra l’ideale divino e la degradazione umana, trasformando la lettura in un’esperienza emotiva intensa che rafforza il messaggio etico del canto.

Temi principali del 30 canto dell’Inferno della Divina Commedia

Il Canto 30 dell’Inferno della Divina Commedia presenta una ricca complessità tematica che si intreccia con la struttura morale dell’intera opera dantesca. Al centro della narrazione troviamo il tema della falsificazione, declinato in tre distinte categorie che riflettono la classificazione medievale del peccato.

La falsificazione di persona rappresentata da Gianni Schicchi e Mirra costituisce una violazione dell’identità umana, vista come dono divino inviolabile. Attraverso l’appropriazione fraudolenta dell’identità altrui, questi peccatori hanno sovvertito l’ordine naturale delle cose, minando alla base il concetto di autenticità personale. Dante sottolinea la gravità di tale colpa attraverso la punizione della rabbia bestiale che li divora, annullando paradossalmente proprio quella identità che avevano falsificato in vita.

La falsificazione di moneta, incarnata da maestro Adamo, affronta invece il tema della corruzione economica e sociale. Nel Medioevo, alterare la moneta non rappresentava solo una frode economica, ma un attentato all’autorità stessa dello Stato e, per estensione, all’ordine divino che quella autorità legittimava. L’idropisia che deforma il corpo del falsario sintetizza visivamente il concetto di valore falsamente “gonfiato” e di economia alterata. La sete inestinguibile simboleggia inoltre l’insaziabile avidità che muove questo tipo di peccato.

Infine, la falsificazione della parola, rappresentata da Sinone, tocca forse la dimensione più profonda della critica dantesca. La parola, strumento di comunicazione della verità e mezzo attraverso cui l’uomo si distingue dagli animali, viene qui degradata a veicolo d’inganno. La febbre ardente che tormenta il greco traditore simboleggia il potere distruttivo della menzogna, capace di “infiammare” situazioni e causare danni irreparabili, come la distruzione di Troia.

Il tema del contrappasso emerge come principio organizzatore della giustizia divina, mostrando una perfetta corrispondenza tra colpa e pena: chi ha alterato la realtà subisce l’alterazione del proprio corpo; chi ha “gonfiato” il valore della moneta si ritrova con un corpo patologicamente gonfio; chi ha usato parole infuocate per ingannare brucia di febbre perpetua.

Un altro tema fondamentale è quello della degradazione dell’identità umana. La violenta disputa tra maestro Adamo e Sinone, con il loro scambio di insulti volgari, rappresenta la massima espressione dell’abbrutimento morale. Dante suggerisce che la falsità corrompe non solo l’anima ma anche la dignità umana, riducendo persino i dannati colti e intelligenti a comportamenti bestiali.

Infine, il canto affronta il tema della giustizia poetica, mostrando come le conseguenze morali delle proprie azioni siano inevitabili nel disegno divino. Il rimprovero che Virgilio rivolge a Dante per il suo eccessivo interesse verso la lite tra i dannati evidenzia l’importanza di non lasciarsi affascinare dal male, ma di comprenderlo solo nella misura necessaria per evitarlo.

Il Canto 30 dell’Inferno in pillole

AspettoDescrizione
CollocazioneDecima bolgia dell’ottavo cerchio (Malebolge), dove sono puniti i falsari
ContrappassoI falsari sono puniti con malattie che deformano il corpo, riflettendo la deformazione morale delle loro azioni
Categorie di falsariFalsari di persona (rabbia bestiale), falsari di moneta (idropisia), falsari di parola (febbre acuta)
Personaggi principaliMaestro Adamo (falsario di fiorini, punito con idropisia), Sinone (ingannatore dei Troiani, punito con febbre ardente), Gianni Schicchi e Mirra (falsificatori d’identità)
Riferimenti mitologiciAtamante ed Ecuba come esempi di follia e perdita d’identità
Tema centraleLa falsificazione come degradazione dell’autenticità umana e corruzione dell’ordine divino
Elementi narrativiApertura mitologica, incontri con dannati emblematici, lite violenta tra Adamo e Sinone
Figure retoricheSimilitudine del liuto per il corpo deforme, metafore della sete e del gonfiore come simboli di avidità, linguaggio che passa dal sublime al grottesco
Ruolo di VirgilioRimprovera Dante per l’eccessivo interesse verso la lite tra dannati
Significato moraleDenuncia della falsità che corrompe i fondamenti della convivenza sociale: identità, economia e comunicazione

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