Divina Commedia, Canto 32 Inferno: testo, parafrasi e commento

Divina Commedia, Canto 32 Inferno: testo, parafrasi e figure retoriche

Nel Canto 32 dell‘Inferno della Divina Commedia sono puniti i traditori. Il nono cerchio, strutturato come un lago ghiacciato chiamato Cocito, è suddiviso in quattro zone concentriche che rappresentano diverse forme di tradimento. Dante e la sua guida Virgilio attraversano le prime due zone del Cocito: la Caina, dove sono puniti i traditori dei parenti, e l’Antenora, dove soffrono i traditori della patria. L’ambiente è caratterizzato da un freddo intenso: il tradimento è infatti descritto come un peccato “freddo”, privo di passione e calcolato, in contrasto con i peccati “caldi” come la lussuria o l’ira.

Indice:

Canto 32 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi

Testo originaleParafrasi
S’io avessi le rime aspre e chiocce,Se io avessi rime dal suono aspro e roco,
come si converrebbe al tristo bucocome si addicono a questo triste luogo
sovra ‘l qual pontan tutte l’altre rocce,sul quale si appoggiano tutte le altre rocce,
io premerei di mio concetto il sucoio esprimerei il succo del mio pensiero
più pienamente; ma parch’io non l’abbo,più compiutamente; ma poiché non le ho,
non sanza tema a dicer mi conduco;mi accingo a parlare non senza timore;
ché non è impresa da pigliare a gabboperché non è un’impresa da prendere alla leggera
discriver fondo a tutto l’universo,descrivere il fondo di tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.né è impresa alla portata di persone inesperte.
Ma quelle donne aiutino il mio versoMa quelle Muse mi aiutino nel mio canto
ch’aiutaro Anfione a chiuder Tebe,che aiutarono Anfione a costruire le mura di Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.in modo che le mie parole non siano inadeguate a descrivere ciò che ho visto.
Oh sovra tutte mal creata plebeOh voi, peggiore di tutte le stirpi di dannati,
che stai nel loco onde parlare è duro,che vi trovate in un luogo di cui è difficile parlare,
mei foste state qui pecore o zebe!sarebbe stato meglio per voi essere state pecore o capre!
Come noi fummo giù nel pozzo scuroAppena fummo scesi nel pozzo oscuro,
sotto i piè del gigante assai più bassi,molto più in basso dei piedi del gigante,
e io mirava ancora a l’alto muro,e io guardavo ancora verso l’alta parete,
dicere udi’mi: «Guarda come passi:mi sentii dire: «Guarda dove metti i piedi:
va sì, che tu non calchi con le piantecammina in modo da non calpestare
le teste de’ fratei miseri lassi».con i piedi le teste di questi miseri fratelli esausti».
Per ch’io mi volsi, e vidimi davantePerciò mi voltai, e vidi davanti
e sotto i piedi un lago che per geloe sotto i miei piedi un lago che per il gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.aveva l’aspetto del vetro e non dell’acqua.
Non fece al corso suo sì grosso veloNon formò un velo così spesso al suo corso
di verno la Danoia in Osterlicchi,d’inverno il Danubio in Austria,
né Tanaï là sotto \’l freddo cielo,né il Don là sotto il freddo cielo,
com’era quivi; che se Tambernicchicome era in quel luogo; che se il monte Tambernic
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,vi fosse caduto sopra, o Pietrapana,
non avria pur da l’orlo fatto cricchi.non avrebbe fatto neppure un piccolo rumore sul bordo.
E come a gracidar si sta la ranaE come la rana sta a gracidare
col muso fuor de l’acqua, quando sognacon il muso fuori dall’acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,spesso la contadina di spigolare,
livide, insin là dove appar vergognacosì, livide fino al volto dove appare la vergogna,
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,erano le anime dolenti nel ghiaccio,
mettendo i denti in nota di cicogna.battendo i denti come il verso della cicogna.
Ognuna in giù tenea volta la faccia;Ognuna teneva il volto rivolto in giù;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristodalla bocca il freddo, e dagli occhi il cuore triste
tra lor testimonianza si procaccia.si procurano testimonianza tra di loro.
Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto,Quando ebbi guardato un po’ attorno a me,
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,mi voltai verso i piedi, e vidi due anime così strette,
che \’l pel del capo avieno insieme misto.che i capelli delle loro teste erano mischiati insieme.
«Ditemi, voi che sì strignete i petti»,«Ditemi, voi che stringete così i petti»,
diss’io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;dissi io, «chi siete?». E quelli piegarono i colli;
e poi ch’ebber li visi a me eretti,e dopo che ebbero alzato i visi verso di me,
li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,i loro occhi, che prima erano solo umidi dentro,
gocciar su per le labbra, e \’l gelo strinsegocciolarono sulle labbra, e il gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.le lacrime tra loro e li chiuse di nuovo.
Con legno legno spranga mai non cinseMai una spranga non strinse così forte legno con legno,
forte così; ond’ei come due becchicosì essi come due capri
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.cozzarono insieme, tanto furono vinti dall’ira.
E un ch’avea perduti ambo li orecchiE uno che aveva perso entrambe le orecchie
per la freddura, pur col viso in giùe,per il freddo, pur con il viso in giù,
disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?disse: «Perché ti rifletti tanto in noi?
Se vuoi saper chi son cotesti due,Se vuoi sapere chi sono questi due,
la valle onde Bisenzo si dichinala valle da cui scende il Bisenzio
del padre loro Alberto e di lor fue.fu del loro padre Alberto e di loro.
D’un corpo usciro; e tutta la CainaUscirono dallo stesso corpo; e cercando in tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombranon troverai un’ombra
degna più d’esser fitta in gelatina:più degna di essere conficcata nel ghiaccio:
non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombranon colui a cui furono spezzati il petto e l’ombra
con esso un colpo per la man d’Artù;con un solo colpo dalla mano di Artù;
non Focaccia; non questi che m’ingombranon Focaccia; non costui che mi ingombra
col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,con la testa in modo tale che non vedo più oltre,
e fu nomato Sassol Mascheroni;e che fu chiamato Sassol Mascheroni;
se tosco se’, ben sai omai chi fu.se sei toscano, ben sai ormai chi fu.
E perché non mi metti in più sermoni,E affinché tu non mi faccia parlare più a lungo,
sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;sappi che io fui Camicion de’ Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni».e aspetto Carlino che mi discolpi».
Poscia vid’io mille visi cagnazziPoi vidi io mille volti lividi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,divenuti così per il freddo; per cui mi viene un brivido,
e verrà sempre, de’ gelati guazzi.e mi verrà sempre, al pensiero degli stagni gelati.
E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzoE mentre che andavamo verso il mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,verso cui ogni cosa pesante si raccoglie,
e io tremava ne l’etterno rezzo;e io tremavo nell’eterna ombra;
se voler fu o destino o fortuna,se fu volontà o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,non so; ma, camminando tra le teste,
forte percossi ‘l piè nel viso ad una.colpii fortemente con il piede il viso di una.
Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?Piangendo mi sgridò: «Perché mi calpesti?
se tu non vieni a crecer la vendettase tu non vieni ad accrescere la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?».di Montaperti, perché mi molesti?».
E io: «Maestro mio, or qui m’aspetta,E io: «Maestro mio, ora aspettami qui,
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;in modo che io esca da un dubbio per mezzo di costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».poi mi farai, quanta vorrai, fretta».
Lo duca stette, e io dissi a coluiLa mia guida si fermò, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:che bestemmiava ancora duramente:
«Chi se’ tu che così rampogni altrui?».«Chi sei tu che rimproveri così gli altri?».
«Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,«E tu chi sei che vai per l’Antenora,
percotendo», rispuose, «altrui le gote,percuotendo», rispose, «le guance altrui,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?».in modo che, se fossi vivo, sarebbe troppo?».
«Vivo son io, e caro esser ti puote»,«Io sono vivo, e può esserti caro»,
fu mia risposta, «se dimandi fama,fu la mia risposta, «se chiedi fama,
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note».che io metta il tuo nome tra le altre note».
Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.Ed egli a me: «Io desidero il contrario.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,Togliti di qui e non darmi più affanno,
ché mal sai lusingar per questa lama!».perché non sai lusingare bene in questa palude ghiacciata!».
Allor lo presi per la cuticagnaAllora lo presi per la collottola
e dissi: «El converrà che tu ti nomi,e dissi: «Sarà necessario che tu ti nomini,
o che capel qui sù non ti rimagna».o che non ti rimanga capello qui sopra».
Ond’elli a me: «Perché tu mi dischiomi,Perciò egli a me: «Sebbene tu mi strappi i capelli,
né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti,non ti dirò chi io sia, né te lo mostrerò,
se mille fiate in sul capo mi tomi».anche se mi cadessi sul capo mille volte».
Io avea già i capelli in mano avvolti,Io avevo già i capelli avvolti in mano,
e tratto glien’avea più d’una ciocca,e gliene avevo strappato più di una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,mentre lui abbaiava con gli occhi rivolti in giù,
quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,non ti basta far rumore con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?».se non abbai? quale diavolo ti tocca?».
«Omai», diss’io, «non vo’ che tu favelle,«Ormai», dissi io, «non voglio che tu parli,
malvagio traditor; ch’a la tua ontamalvagio traditore; poiché a tua vergogna
io porterò di te vere novelle».io porterò di te notizie vere».
«Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;«Vai via», rispose, «e racconta ciò che vuoi;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,ma non tacere, se tu esci di qui,
di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.di colui che ebbe ora la lingua così pronta.
El piange qui l’argento de’ Franceschi:Egli piange qui il denaro dei Francesi:
‘Io vidi’, potrai dir, ‘quel da Duera‘Io vidi’, potrai dire, ‘quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi’.là dove i peccatori stanno al fresco’.
Se fossi domandato altri chi v’era,Se ti fosse chiesto chi altri c’era,
tu hai dallato quel di Beccheriatu hai al tuo fianco quello di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera.a cui Firenze tagliò la gola.
Gianni de’ Soldanier credo che siaGianni de’ Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,più in là con Gano e Tebaldello,
ch’aprì Faenza quando si dormia».che aprì Faenza mentre dormiva».
Noi eravam partiti già da ello,Noi ci eravamo già allontanati da lui,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,quando vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;in modo che una testa faceva da cappello all’altra;
e come \’l pan per fame si manduca,e come il pane si mangia per fame,
così \’l sovran li denti a l’altro posecosì quello di sopra pose i denti a quello di sotto
là \’ve \’l cervel s’aggiugne con la nuca:là dove il cervello si congiunge con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rosenon diversamente Tideo rose
le tempie a Menalippo per disdegno,le tempie a Menalippo per sdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.di come costui faceva col cranio e con le altre parti.
«O tu che mostri per sì bestial segno«O tu che mostri con un segno così bestiale
odio sovra colui che tu ti mangi,odio verso colui che tu mangi,
dimmi \’l perché», diss’io, «per tal convegno,dimmi il perché», dissi io, «a tale condizione,
che se tu a ragion di lui ti piangi,che se tu a ragione ti lamenti di lui,
sappendo chi voi siete e la sua pecca,sapendo io chi voi siete e la sua colpa,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,nel mondo di sopra ancora io te ne ripaghi,
se quella con ch’io parlo non si secca».se questa lingua con cui parlo non si secca».

Canto 32 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione

Il Canto 32 dell’Inferno della Divina Commedia segna l’ingresso di Dante e Virgilio nel nono cerchio infernale, il punto più profondo dell’universo dantesco destinato ai traditori. La narrazione si apre con una drammatica invocazione alle Muse: il poeta chiede aiuto per trovare parole adeguate («rime aspre e chiocce») alla descrizione di questo abisso terrificante, paragonando la propria difficoltà espressiva a quella di Anfione, che con il suono della lira costruì le mura di Tebe.

L’ambientazione del canto è il lago ghiacciato di Cocito, diviso in quattro zone concentriche che rappresentano diverse forme di tradimento, disposte in ordine di gravità crescente. Nel Canto 32, Dante e Virgilio attraversano le prime due zone:

  • Caina: riservata ai traditori dei parenti, chiamata così in riferimento a Caino, che uccise il fratello Abele. Qui i dannati sono immersi nel ghiaccio fino al collo, con il viso rivolto verso il basso.
  • Antenora: destinata ai traditori della patria o della propria fazione politica, il cui nome deriva da Antenore di Troia, che secondo alcuni resoconti medievali tradì la propria città.

Il ghiaccio non è scelto casualmente come strumento di punizione, ma risponde a una precisa concezione teologica medievale. Il tradimento è considerato un peccato “freddo”, premeditato e calcolato, in contrasto con i peccati “caldi” della passione come lussuria o ira. L’immobilità nel ghiaccio eterno rappresenta il perfetto contrappasso: chi in vita ha “congelato” i legami naturali dell’amore è ora condannato a un’immobilità perpetua.

Camminando sul ghiaccio, Dante nota anime immerse fino al collo, con i denti che battono come cicogne («come una cicogna quando batte il becco»). Tra le prime anime che incontra vi sono i fratelli Alessandro e Napoleone degli Alberti, conti di Mangona, che in vita si uccisero a vicenda per questioni di eredità. La loro punizione li vede eternamente abbracciati, con i capelli congelati insieme, simbolo macabro del legame familiare che hanno spezzato.

Proseguendo il cammino, i poeti giungono nell’Antenora, dove Dante colpisce involontariamente con il piede il volto di un dannato. Si tratta di Bocca degli Abati, guelfo fiorentino che tradì i propri compagni durante la battaglia di Montaperti (1260), causando la sconfitta dei guelfi fiorentini. L’incontro con Bocca è particolarmente significativo: il dannato rifiuta di rivelare la propria identità, e Dante, in uno dei rari momenti di violenza diretta nell’Inferno, gli strappa i capelli per costringerlo a identificarsi.

Il paesaggio ghiacciato è descritto con immagini potenti e inquietanti: il ghiaccio è paragonato a un vetro trasparente, le anime sono immobilizzate in posizioni contorte, e l’atmosfera è dominata da un freddo paralizzante che rappresenta l’assenza totale di amore e il completo isolamento spirituale.

Nel corso del canto, Dante utilizza un linguaggio volutamente aspro e concreto, ricco di allitterazioni e onomatopee («crocchia», «chiocce») che mimano i suoni del ghiaccio e la sofferenza dei dannati. Questa scelta stilistica risponde all’esigenza di rappresentare l’orrore di un luogo che è l’antitesi dell’amore divino, il principio ordinatore dell’universo dantesco.

La struttura narrativa alterna descrizioni paesaggistiche, incontri con i dannati e riflessioni morali, creando un ritmo serrato che culmina nell’episodio di Bocca degli Abati, dove la reticenza del traditore provoca l’ira di Dante. Questo atteggiamento severo del poeta riflette la concezione medievale del tradimento come crimine imperdonabile, meritevole della punizione più dura.

Canto 32 Inferno della Divina Commedia: i personaggi

Nel suo viaggio attraverso le profondità più estreme dell’Inferno, Dante incontra numerosi dannati che incarnano diverse forme di tradimento. La disposizione dei personaggi nel nono cerchio segue una precisa gerarchia morale, riflettendo la gravità crescente delle loro colpe.

I dannati nella Caina

Nella prima zona del Cocito, riservata ai traditori dei parenti, Dante si imbatte in diverse anime che hanno violato i sacri vincoli familiari:

  • Alessandro e Napoleone degli Alberti: fratelli e conti di Mangona che, accecati dall’odio e dalla brama di potere, si uccisero reciprocamente per questioni di eredità. Dante li descrive con un’immagine potente: “vidi due sì stretti, che ‘l pel del capo avieno insieme misto”, evidenziando come siano costretti a una vicinanza forzata che contrasta con l’odio reciproco manifestato in vita.
  • Mordred: figlio o nipote traditore di Re Artù, che tentò di usurpare il trono paterno e fu trafitto dal sovrano con un colpo di lancia così violento che, secondo la leggenda, un raggio di sole passò attraverso il foro della ferita.
  • Focaccia dei Cancellieri: nobile pistoiese la cui violenza innescò la faida tra Bianchi e Neri, famosa per aver ucciso un suo parente, colpevole solo di aver lanciato una palla di neve.
  • Sassol Mascheroni: fiorentino che assassinò l’unico nipote di cui era tutore per impossessarsi dell’eredità, condannato a morte mediante decapitazione dopo essere stato trascinato per le strade di Firenze in una botte irta di chiodi.
  • Camicion de’ Pazzi: Alberto Camicione dei Pazzi del Valdarno che uccise a tradimento il parente Ubertino, confessa la propria identità e anticipa l’arrivo di un parente ancora più malvagio, Carlino de’ Pazzi, colpevole di aver tradito i Bianchi consegnando il castello di Piantravigne ai Neri fiorentini nel 1302.

I traditori nell’Antenora

Nella seconda zona del Cocito, Dante incontra i traditori della patria o della fazione politica:

  • Bocca degli Abati: protagonista di uno degli incontri più drammatici del canto. Guelfo fiorentino che durante la battaglia di Montaperti (1260) tradì la propria parte tagliando la mano del portabandiera, causando la disfatta dei guelfi. L’atteggiamento di Dante verso di lui è insolitamente violento: il poeta lo calpesta accidentalmente, e quando Bocca si rifiuta di rivelare la propria identità, Dante reagisce tirandogli i capelli con forza: “Io avea già i capelli in mano avvolti, e tratti glien’avea più d’una ciocca”.
  • Buoso da Duera: ghibellino cremonese che, corrotto con denaro da Carlo d’Angiò, permise alle truppe francesi di attraversare la Lombardia senza opporre resistenza.
  • Tesauro dei Beccheria: abate di Vallombrosa e legato pontificio, giustiziato dai fiorentini nel 1258 con l’accusa di tradimento.
  • Gianni de’ Soldanieri: nobile ghibellino fiorentino che si mise a capo del popolo contro il proprio partito dopo la sconfitta e morte di Manfredi a Benevento (1266).

L’atteggiamento di Dante

Particolarmente significativo è il cambiamento nell’atteggiamento di Dante verso questi dannati. Se nei cerchi precedenti il poeta mostrava spesso compassione per i peccatori, qui assume un comportamento più severo e distaccato, arrivando persino alla violenza fisica contro Bocca degli Abati. Questo mutamento riflette la concezione medievale del tradimento come peccato estremo, che distrugge il tessuto sociale e morale della comunità.

La reazione emotiva di Dante si trasforma in sdegno attivo quando afferma: “e cortesia fu lui esser villano”, suggerendo che la vera cortesia, di fronte a certi crimini, consiste nel rifiutare la pietà convenzionale. Questo atteggiamento anticipa il clima spirituale degli ultimi canti dell’Inferno, dove Dante si avvicina alla comprensione più profonda della giustizia divina.

Analisi del Canto 32 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi

Il Canto 32 dell’Inferno della Divina Commedia si distingue per la sua ricchezza di elementi narrativi e tematici che rivelano la complessità della concezione dantesca del peccato e della punizione divina. La scena si svolge nel nono cerchio infernale, precisamente nelle prime due zone del lago ghiacciato di Cocito: la Caina e l’Antenora.

Centralissimo è il contrasto simbolico tra caldo e freddo nell’economia morale dantesca. Se i peccati di passione, come la lussuria e l’ira, sono puniti con il fuoco nei cerchi superiori, il tradimento – peccato “freddo” e calcolato – trova la sua perfetta punizione nel ghiaccio eterno. Questa antitesi non è casuale ma rispecchia la visione teologica medievale: il tradimento rappresenta l’assenza totale di amore, principio divino che governa l’universo. Il ghiaccio diventa così la materializzazione dell’anima del traditore, che ha scelto deliberatamente di spegnere il calore dell’amore naturale verso familiari, patria o benefattori.

Il contrappasso, meccanismo punitivo che caratterizza tutto l’Inferno, si manifesta qui in modo particolarmente efficace. I dannati sono immobilizzati nel ghiaccio in diverse posizioni, riflettendo la natura specifica del loro tradimento: chi ha “congelato” i legami naturali dell’amore è ora fisicamente congelato per l’eternità. L’immobilità forzata rappresenta la negazione della libertà che in vita hanno usato per tradire. Particolarmente significativa è l’immagine dei traditori vicini fisicamente ma eternamente separati, incapaci di dare o ricevere conforto, che rispecchia la loro incapacità di amare in vita.

Le lacrime dei dannati che si congelano, impedendo persino il sollievo del pianto (“li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli, / gocciar su per le labbra, e ‘l gelo strinse / le lagrime tra essi e riserrolli” vv. 46-48), rappresentano uno degli aspetti più strazianti del contrappasso: anche l’espressione del dolore diventa ulteriore fonte di tormento.

Dante utilizza in questo canto un linguaggio volutamente aspro e duro, in linea con quanto annunciato nell’invocazione iniziale alle Muse. Il poeta stesso riconosce la difficoltà di trovare parole adeguate per descrivere l’orrore del fondo infernale, segnalando al lettore che sta per entrare in un territorio narrativo particolarmente difficile e oscuro. Quest’ammissione di inadeguatezza linguistica (“S’io avessi le rime aspre e chiocce”, v. 1) non è solo un topos retorico, ma riflette la consapevolezza dei limiti del linguaggio umano di fronte all’indicibile, tema che tornerà con forza nel Paradiso.

Interessante è notare come l’atteggiamento di Dante personaggio subisca una trasformazione significativa. Se nei cerchi superiori prevaleva spesso la pietà o la comprensione verso i dannati, qui troviamo un Dante più duro e implacabile, che non esita a maltrattare fisicamente Bocca degli Abati. Questo cambiamento riflette la gravità morale attribuita al tradimento nella scala etica dantesca e anticipa l’incontro con Lucifero, il traditore supremo.

L’interazione con i dannati assume forme diverse: dalla riluttanza di Bocca degli Abati a rivelare la propria identità, alla triste confessione di Camicion de’ Pazzi che denuncia l’arrivo futuro di un parente ancor più malvagio. Questi scambi non sono meri espedienti narrativi, ma rivelano la psicologia dei traditori: orgoglio, vergogna, desiderio di oblio e, paradossalmente, volontà di denunciare tradimenti altrui.

Infine, la struttura narrativa del canto, con la sua progressiva discesa verso il centro del ghiaccio, rispecchia il movimento discendente dell’intero Inferno e prepara il lettore all’incontro finale con Lucifero. Il passaggio dalla Caina all’Antenora rappresenta non solo un avanzamento fisico, ma anche una progressione nella gravità morale del tradimento, dalla sfera privata dei legami familiari a quella pubblica dei legami civici e politici, riflettendo la concezione medievale dell’ordine sociale come specchio dell’ordine divino.

Figure retoriche nel Canto 32 dell’Inferno della Divina Commedia

Il Canto 32 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta una sfida stilistica che Dante affronta con maestria, impiegando numerose figure retoriche per rendere vividamente l’orrore del nono cerchio. L’uso sofisticato di tali strumenti poetici non è un semplice esercizio formale, ma riflette l’essenza stessa del contenuto morale.

L’apostrofe iniziale alle Muse segnala immediatamente la difficoltà espressiva che il poeta avverte: “S’io avessi le rime aspre e chiocce, / come si converrebbe al tristo buco“. Questa captatio benevolentiae non è solo una convenzione letteraria, ma una vera dichiarazione di inadeguatezza linguistica davanti all’indicibile. Il topos dell’ineffabilità si manifesta così attraverso un ossimoro concettuale: Dante afferma di non poter descrivere ciò che sta per descrivere.

Particolarmente significative sono le similitudini animalesche che punteggiano il canto. I dannati vengono paragonati a rane che fuggono davanti al serpente: “Come le rane innanzi a la nimica / biscia per l’acqua si dileguan tutte“. Questa similitudine zoomorfa non solo rende concreta l’immagine dei peccatori, ma li degrada a un livello subumano, coerentemente con la loro colpa morale.

L’allitterazione è una figura fonica dominante, evidenziata già nell’incipit con l’accostamento di suoni aspri: “rime aspre e chiocce“. Il tessuto fonico del canto è caratterizzato da consonanti dure e ripetizioni che riproducono mimeticamente il freddo dell’ambiente: “crocchia“, “scricchia“, “ghiaccia“. Questa partitura sonora crea un effetto acustico che amplifica l’esperienza sensoriale del lettore.

Un’altra figura di grande impatto è la sinestesia, la fusione di sensazioni appartenenti a sfere sensoriali diverse. Quando Dante descrive il ghiaccio come “trasparente come vetro” crea un’immagine visiva che si fonde con la sensazione tattile del freddo, generando un effetto di straniamento che potenzia la rappresentazione dell’ambiente infernale.

Le metafore estese costituiscono l’ossatura simbolica del canto. Il ghiaccio non è solo l’elemento fisico della punizione, ma diventa metafora dell’assenza di amore e della durezza morale dei traditori. Questa corrispondenza tra elemento naturale e significato morale si estende all’intero paesaggio infernale, creando un sistema allegorico coerente.

L’uso dell’iperbole è evidente nelle descrizioni estreme del freddo: “non fece al corso suo sì grosso velo / d’inverno la Danoia in Osterlicchi“. Il paragone con il fiume Danubio ghiacciato amplifica l’intensità del freddo infernale, rendendolo superiore a qualsiasi fenomeno terreno.

Nel dialogo con Bocca degli Abati, l’ironia drammatica diventa pungente strumento espressivo. Quando Dante finge di voler celebrare la memoria del traditore – “se tu non vieni a crescer la vendetta / di Montaperti” – crea un contrasto ironico che sottolinea la perfidia del personaggio.

Non manca l’uso dell’antitesi, particolarmente efficace nella descrizione delle anime congelate: “livide, insin là dove appar vergogna / eran l’ombre dolenti nella ghiaccia“. Il contrasto tra il calore della vergogna e il freddo del ghiaccio intensifica la rappresentazione del supplizio.

L’anafora struttura ritmicamente alcuni passaggi cruciali: “Oh quanto parve a me gran maraviglia / quand’io vidi […] / Oh vendetta di Dio“. Questa ripetizione all’inizio dei versi accentua il crescendo emotivo della narrazione, guidando l’attenzione del lettore.

La metonimia appare quando Dante si riferisce ai dannati attraverso parti del loro corpo: “le teste de’ frati miseri lassi“. Questo procedimento non solo economizza la descrizione, ma disumanizza ulteriormente i peccatori, riducendoli letteralmente a frammenti.

Temi principali del 32 canto dell’Inferno della Divina Commedia

Il Canto 32 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta uno dei punti più profondi del viaggio dantesco, sia letteralmente che metaforicamente. In questo canto emergono temi fondamentali che illuminano l’intera concezione teologica e morale di Dante.

Il tradimento come negazione dell’amore costituisce il fulcro tematico del canto. Nell’universo dantesco, l’amore è la forza che muove tutte le cose e mantiene l’ordine cosmico. I traditori hanno deliberatamente scelto di spezzare questo principio fondamentale, congelando i legami naturali che dovrebbero unire gli esseri umani. Il ghiaccio di Cocito simboleggia questa completa assenza di calore umano: chi ha “congelato” l’amore in vita è condannato all’eterno gelo nell’aldilà.

La disumanizzazione del traditore emerge come tema correlato. I dannati del nono cerchio hanno perso non solo la loro libertà, ma anche i tratti distintivi della loro umanità. Sono descritti attraverso similitudini animalesche (rane, cicogne) o oggetti inanimati, a sottolineare come il tradimento degradi l’essenza stessa dell’essere umano. Le loro facce livide, i visi volti in basso, le lacrime ghiacciate che impediscono persino il sollievo del pianto sono manifestazioni fisiche di un’anima che ha rinnegato la propria natura.

La giustizia divina si manifesta attraverso il contrappasso, principio secondo cui la pena rispecchia o contrasta il peccato. Nel caso dei traditori, il contrappasso è particolarmente evidente: l’immobilità forzata nel ghiaccio punisce chi ha usato la propria libertà per tradire; l’isolamento punisce chi ha rotto i legami sociali; la vicinanza fisica ma l’impossibilità di comunicare punisce chi ha distrutto la comunione tra esseri umani.

L’isolamento come punizione suprema riflette la concezione medievale della società come insieme organico di relazioni. Il tradimento mina le fondamenta stesse della convivenza umana, pertanto i traditori sono condannati a una vicinanza fisica che accentua paradossalmente la loro separazione emotiva. È significativo che, a differenza di altri cerchi dove i dannati possono almeno parlare tra loro, nel Cocito regni un silenzio interrotto solo dall’interrogatorio di Dante.

Il tema della memoria e dell’identità emerge nel dialogo con Bocca degli Abati, che si rifiuta ostinatamente di rivelare il proprio nome. Per i traditori, l’identità diventa un’ulteriore fonte di tormento: essere ricordati significa perpetuare l’infamia delle proprie azioni. Questo spiega la resistenza di Bocca e la successiva rabbia quando viene identificato contro la sua volontà.

La degradazione sociale è un altro tema centrale. Dante sottolinea come il tradimento non solo danneggi le vittime dirette, ma corrompa l’intero tessuto sociale. I traditori hanno violato la fiducia alla base di ogni comunità umana: quella familiare (Caina), politica (Antenora), dell’ospitalità (Tolomea) e della gratitudine (Giudecca). Questa sequenza riflette una progressione dalla sfera più intima a quella più universale delle relazioni umane.

La vendetta come giustizia emerge nell’atteggiamento di Dante stesso. Il poeta, solitamente compassionevole, mostra qui una durezza insolita, arrivando a strappare i capelli a Bocca degli Abati. Questo comportamento riflette la concezione medievale della giustizia come riequilibrio dell’ordine violato, suggerendo che di fronte al tradimento anche la pietà ha un limite.

Il Canto 32 dell’Inferno in pillole

AspettoDettagli principali
Posizione nell’InfernoNono cerchio, primo e secondo girone del lago ghiacciato di Cocito (Caina e Antenora)
Peccatori punitiTraditori dei parenti (Caina) e traditori della patria/fazione politica (Antenora)
ContrappassoImmersione nel ghiaccio eterno come simbolo del cuore privo di amore che ha causato il tradimento
Personaggi principaliAlessandro e Napoleone degli Alberti (fratricidi), Mordred, Focaccia, Sassol Mascheroni, Camicion de’ Pazzi (Caina); Bocca degli Abati, Buoso da Duera, Tesauro dei Beccheria (Antenora)
Incontro centraleScontro con Bocca degli Abati, traditore dei guelfi nella battaglia di Montaperti
Figure retoricheInvocazione alle Muse, similitudini (rane nell’acqua), metafore del ghiaccio, allitterazioni e suoni aspri
Elementi stilisticiLinguaggio ruvido e aspro, ricco di termini duri che mimano la crudeltà del paesaggio
Atteggiamento di DanteDurezza senza pietà verso i traditori, fino alla violenza fisica contro Bocca degli Abati
SimbologiaGhiaccio come assenza totale di amore e carità, immobilità come punizione per chi ha tradito legami naturali
Temi principaliTradimento come negazione dell’amore, giustizia divina, importanza dei legami sociali e familiari

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