Il Canto 33 dell’Inferno della Divina Commedia si svolge nel nono cerchio, la zona più profonda dell’oltretomba dove sono puniti i traditori. Il canto si distingue per la straordinaria potenza espressiva e l’impatto emotivo che suscita nel lettore. La narrazione si apre con l’episodio straziante del Conte Ugolino della Gherardesca, per poi condurci attraverso l’agghiacciante panorama della Tolomea, dove i traditori degli ospiti subiscono una punizione tanto crudele quanto simbolica.
Indice:
- Canto 33 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 33 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 33 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 33 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 33 dell’Inferno della Divina Commedia
- Temi principali del Canto 33 dell’Inferno della Divina Commedia
- Il Canto 33 dell’Inferno in pillole
Canto 33 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
Testo Originale | Parafrasi |
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La bocca sollevò dal fiero pasto | Il conte Ugolino sollevò la bocca dal terribile pasto (dal cranio del suo nemico) |
quel peccator, forbendola a’ capelli | quell’anima dannata, pulendola con i capelli |
del capo ch’elli avea di retro guasto. | della testa che aveva già danneggiata nella parte posteriore. |
Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli | Poi iniziò a dire: «Tu vuoi che io rinnovi |
disperato dolor che ‘l cor mi preme | un dolore disperato che mi opprime il cuore |
già pur pensando, pria ch’io ne favelli. | già solo al pensiero, prima ancora che io ne parli. |
Ma se le mie parole esser dien seme | Ma se le mie parole devono essere seme |
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo, | che produca infamia al traditore che io mordo, |
parlar e lagrimar vedrai insieme. | mi vedrai parlare e piangere contemporaneamente. |
Io non so chi tu se’ né per che modo | Io non so chi tu sia né come |
venuto se’ qua giù; ma fiorentino | sei venuto quaggiù; ma fiorentino |
mi sembri veramente quand’io t’odo. | mi sembri veramente quando ti ascolto. |
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, | Devi sapere che io fui il conte Ugolino, |
e questi è l’arcivescovo Ruggieri: | e questi è l’arcivescovo Ruggieri: |
or ti dirò perché i son tal vicino. | ora ti dirò perché gli sono un tale vicino (perché lo mordo). |
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, | Il fatto è che per l’effetto dei suoi malvagi pensieri, |
fidandomi di lui, io fossi preso | fidandomi di lui, io fui catturato |
e poscia morto, dir non è mestieri; | e poi ucciso, non è necessario raccontarlo; |
però quel che non puoi avere inteso, | tuttavia ciò che non puoi aver saputo, |
cioè come la morte mia fu cruda, | cioè quanto crudele fu la mia morte, |
udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso. | lo sentirai, e saprai se mi ha offeso. |
Breve pertugio dentro da la Muda, | Una piccola apertura all’interno della Muda, |
la qual per me ha ‘l titol de la fame, | che a causa mia ha il nome della fame, |
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda, | e nella quale è destino che altri ancora siano rinchiusi, |
m’avea mostrato per lo suo forame | mi aveva mostrato attraverso la sua apertura |
più lune già, quand’io feci ‘l mal sonno | già diverse lune (mesi), quando feci il sogno funesto |
che del futuro mi squarciò ‘l velame. | che mi strappò il velo del futuro. |
Questi pareva a me maestro e donno, | Costui (l’arcivescovo Ruggieri) mi appariva come signore e padrone, |
cacciando il lupo e ‘ lupicini al monte | cacciando il lupo e i suoi cuccioli verso il monte |
per che i Pisan veder Lucca non ponno. | che impedisce ai Pisani di vedere Lucca (Monte San Giuliano). |
Con cagne magre, studïose e conte | Con cagne magre, zelanti e addestrate |
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi | aveva posto davanti a sé le famiglie Gualandi, Sismondi e Lanfranchi |
s’avea messi dinanzi da la fronte. | (i sostenitori dell’arcivescovo contro Ugolino). |
In picciol corso mi parieno stanchi | Dopo una breve corsa mi sembravano stanchi |
lo padre e ‘ figli, e con l’agute scane | il padre e i figli (io e i miei figli), e con i denti aguzzi |
mi parea lor veder fender li fianchi. | mi sembrava di vederli squarciare i nostri fianchi. |
Quando fui desto innanzi la dimane, | Quando mi svegliai prima dell’alba, |
pianger senti’ fra ‘l sonno i miei figliuoli | sentii piangere nel sonno i miei figliuoli |
ch’eran con meco, e dimandar del pane. | che erano con me, e chiedere del pane. |
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli | Sei davvero crudele, se già non ti addolori |
pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava; | pensando a ciò che il mio cuore prevedeva; |
e se non piangi, di che pianger suoli? | e se non piangi, di cosa sei solito piangere? |
Già eran desti, e l’ora s’appressava | Ormai erano svegli, e si avvicinava l’ora |
che ‘l cibo ne solëa essere addotto, | in cui il cibo ci veniva solitamente portato, |
e per suo sogno ciascun dubitava; | e ciascuno, per via del proprio sogno, era inquieto; |
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto | e io sentii chiudere a chiave la porta in basso |
a l’orribile torre; ond’io guardai | dell’orribile torre; per cui guardai |
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto. | in volto i miei figlioli senza dire parola. |
Io non piangëa, sì dentro impetrai: | Io non piangevo, tanto mi ero pietrificato dentro: |
piangevan elli; e Anselmuccio mio | piangevano loro; e il mio Anselmuccio |
disse: ‘Tu guardi sì, padre! che hai?’ | disse: ‘Ci guardi in un modo, padre! che hai?’ |
Perciò non lagrimai né rispuos’io | Perciò non lacrimai né risposi io |
tutto quel giorno né la notte appresso, | per tutto quel giorno né la notte seguente, |
infin che l’altro sol nel mondo uscìo. | finché un nuovo sole sorse nel mondo. |
Come un poco di raggio si fu messo | Appena un po’ di luce si fu introdotto |
nel doloroso carcere, e io scorsi | nel doloroso carcere, e io scorsi |
per quattro visi il mio aspetto stesso, | nei quattro volti il mio stesso aspetto, |
ambo le man per lo dolor mi morsi; | mi morsi entrambe le mani per il dolore; |
ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia | ed essi, pensando che io lo facessi per fame, |
di manicar, di sùbito levorsi | di mangiare, subito si alzarono |
e disser: ‘Padre, assai ci fia men doglia | e dissero: ‘Padre, ci sarà molto minor dolore |
se tu mangi di noi: tu ne vestisti | se mangi di noi: tu ci hai rivestiti |
queste misere carni, e tu le spoglia’. | di queste misere carni, e tu puoi spogliarcene’. |
Queta’mi allor per non farli più tristi; | Mi calmai allora per non farli più tristi; |
lo dì e l’altro stemmo tutti muti; | quel giorno e l’altro restammo tutti in silenzio; |
ahi dura terra, perché non t’apristi? | ah, dura terra, perché non ti apristi? |
Poscia che fummo al quarto dì venuti, | Dopo che giungemmo al quarto giorno, |
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, | Gaddo mi si gettò disteso ai piedi, |
dicendo: ‘Padre mio, ché non m’aiuti?’ | dicendo: ‘Padre mio, perché non mi aiuti?’ |
Quivi morì; e come tu mi vedi, | Lì morì; e come tu ora mi vedi, |
vid’io cascar li tre ad uno ad uno | io vidi cadere gli altri tre uno ad uno |
tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi, | tra il quinto e il sesto giorno; per cui io mi misi, |
già cieco, a brancolar sovra ciascuno, | ormai cieco, a brancolare sopra ciascuno, |
e due dì li chiamai, poi che fur morti. | e per due giorni li chiamai, dopo che furono morti. |
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno». | Poi, più del dolore, poté il digiuno (cioè morì di fame)». |
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti | Quando ebbe detto ciò, con gli occhi stravolti |
riprese ‘l teschio misero co’ denti, | riprese il teschio miserabile con i denti, |
che furo a l’osso, come d’un can, forti. | che furono forti sull’osso, come quelli di un cane. |
Ahi Pisa, vituperio de le genti | Ah Pisa, vergogna dei popoli |
del bel paese là dove ‘l sì suona, | del bel paese dove si parla la lingua del sì, |
poi che i vicini a te punir son lenti, | poiché i tuoi vicini sono lenti a punirti, |
muovasi la Capraia e la Gorgona, | si muovano Capraia e Gorgona (due isole vicine), |
e faccian siepe ad Arno in su la foce, | e facciano diga sull’Arno alla sua foce, |
sì ch’elli annieghi in te ogne persona! | così che anneghino in te ogni persona! |
Che se ‘l conte Ugolino aveva voce | Perché se il conte Ugolino aveva fama |
d’aver tradita te de le castella, | di aver tradito te cedendo i tuoi castelli, |
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. | non dovevi mettere in croce i suoi figli. |
Innocenti facea l’età novella, | La giovane età li rendeva innocenti, |
novella Tebe, Uguiccione e ‘l Brigata | o novella Tebe, Uguccione e Brigata |
e li altri due che ‘l canto suso appella. | e gli altri due che il canto sopra nomina. |
Noi passammo oltre, là ‘ve la gelata | Noi passammo oltre, là dove il ghiaccio |
ruvidamente un’altra gente fascia, | avvolge rudemente un’altra schiera di dannati, |
non volta in giù, ma tutta riversata. | non volta in giù, ma tutta riversa. |
Lo pianto stesso lì pianger non lascia, | Il pianto stesso lì non lascia piangere, |
e ‘l duol che truova in su li occhi rintoppo, | e il dolore che trova ostacolo sugli occhi, |
si volge in entro a far crescer l’ambascia; | si volge all’interno facendo crescere l’angoscia; |
ché le lagrime prime fanno groppo, | perché le prime lacrime formano un grumo, |
e sì come visiere di cristallo, | e così come visiere di cristallo, |
riempion sotto ‘l ciglio tutto il coppo. | riempiono sotto il ciglio tutta la cavità. |
E avvegna che, sì come d’un callo, | E benché, come per un callo, |
per la freddura ciascun sentimento | per il freddo ogni sensibilità |
cessato avesse del mio viso stallo, | avesse abbandonato il mio volto, |
già mi parea sentire alquanto vento; | già mi sembrava di sentire un certo vento; |
per ch’io: «Maestro mio, questo chi move? | perciò dissi: «Maestro mio, chi muove questo? |
non è qua giù ogne vapore spento?» | non è quaggiù ogni vapore spento?» |
Ond’elli a me: «Avaccio sarai dove | Al che egli a me: «Presto sarai dove |
di ciò ti farà l’occhio la risposta, | di ciò ti darà l’occhio la risposta, |
veggendo la cagion che ‘l fiato piove». | vedendo la causa che fa piovere il fiato». |
E un de’ tristi de la fredda crosta | E uno dei tristi della fredda crosta |
gridò a noi: «O anime crudeli, | gridò a noi: «O anime crudeli, |
tanto che data v’è l’ultima posta, | tanto che vi è data l’ultima posizione, |
levatemi dal viso i duri veli, | toglietemi dal viso i duri veli, |
sì ch’io sfoghi ‘l duol che ‘l cor m’impregna, | così ch’io sfoghi il dolore che mi riempie il cuore, |
un poco, pria che ‘l pianto si raggeli». | un poco, prima che il pianto si congeli di nuovo». |
Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna, | Perciò io a lui: «Se vuoi che ti aiuti, |
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo, | dimmi chi sei, e se non ti libero, |
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna». | possa io andare al fondo del ghiaccio». |
Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo; | Rispose dunque: «Io sono frate Alberigo; |
i’ son quel da le frutta del mal orto, | io sono quello della frutta del male orto, |
che qui riprendo dattero per figo». | che qui ricevo datteri in cambio di fichi». |
«Oh!», diss’io lui, «or se’ tu ancor morto?» | «Oh!», dissi a lui, «dunque sei già morto?» |
Ed elli a me: «Come ‘l mio corpo stea | Ed egli a me: «Come il mio corpo stia |
nel mondo sù, nulla scïenza porto. | nel mondo di sopra, non ho alcuna informazione. |
Cotal vantaggio ha questa Tolomea, | Tale vantaggio ha questa Tolomea, |
che spesse volte l’anima ci cade | che spesso l’anima ci cade |
innanzi ch’Atropòs mossa le dea. | prima che Atropo ne decreti la morte. |
E perché tu più volentier mi rade | E perché tu più volentieri mi tolga |
le ‘nvetriate lagrime dal volto, | le lacrime vetrificate dal volto, |
sappie che, tosto che l’anima trade | sappi che, non appena l’anima tradisce |
come fec’io, il corpo suo l’è tolto | come feci io, il suo corpo le è tolto |
da un demonio, che poscia il governa | da un demonio, che poi lo governa |
mentre che ‘l tempo suo tutto sia vòlto. | finché il suo tempo sia tutto compiuto. |
Ella ruina in sì fatta cisterna; | Essa (l’anima) precipita in una simile cisterna; |
e forse pare ancor lo corpo suso | e forse appare ancora il corpo nel mondo |
de l’ombra che di qua dietro mi verna. | dell’ombra che qui dietro di me sverna. |
Tu ‘l dei saper, se tu vien pur mo giuso: | Tu lo devi sapere, se sei giunto quaggiù solo adesso: |
elli è ser Branca Doria, e son più anni | egli è ser Branca Doria, e sono passati più anni |
poscia passati ch’el fu sì racchiuso». | da quando fu così rinchiuso». |
«Io credo», diss’io lui, «che tu m’inganni; | «Io credo», dissi a lui, «che tu m’inganni; |
ché Branca Doria non morì unquanche, | perché Branca Doria non è ancora morto, |
e mangia e bee e dorme e veste panni». | e mangia e beve e dorme e veste panni». |
«Nel fosso sù», diss’el, «de’ Malebranche, | «Nel fossato sopra», disse egli, «dei Malebranche, |
là dove bolle la tenace pece, | là dove bolle la tenace pece, |
non era ancora giunto Michel Zanche, | non era ancora giunto Michele Zanche, |
che questi lasciò il diavolo in sua vece | quando costui lasciò un diavolo al suo posto |
nel corpo suo, ed un suo prossimano | nel suo corpo, e un suo parente |
che ‘l tradimento insieme con lui fece. | che commise il tradimento insieme con lui. |
Ma distendi oggimai in qua la mano; | Ma stendi ormai qua la mano; |
aprimi li occhi». E io non gliel’apersi; | aprimi gli occhi». E io non glieli aprii; |
e cortesia fu lui esser villano. | ed essere scortese con lui fu un atto di cortesia. |
Ahi Genovesi, uomini diversi | Ah Genovesi, uomini diversi |
d’ogne costume e pien d’ogne magagna, | da ogni buon costume e pieni di ogni difetto, |
perché non siete voi del mondo spersi? | perché non siete cancellati dal mondo? |
Ché col peggiore spirto di Romagna | Perché con il peggiore spirto di Romagna |
trovai di voi un tal, che per sua opra | ho trovato uno di voi tale che per le sue azioni |
in anima in Cocito già si bagna, | in anima già si bagna nel Cocito, |
e in corpo par vivo ancor di sopra. | e in corpo sembra ancora vivo sulla terra. |
Canto 33 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
All’interno dell’architettura complessiva della Divina Commedia, il trentatreesimo canto occupa una posizione strategica: siamo ormai prossimi all’incontro con Lucifero, il punto più basso dell’Inferno e dell’intero universo dantesco. La gravità dei peccati qui puniti riflette questa prossimità al male assoluto, mentre la narrazione esplora i temi della vendetta, della disperazione e della giustizia divina attraverso alcune delle anime più dannate dell’oltretomba cristiano.
Il Canto 33 dell’Inferno della Divina Commedia si svolge nel nono cerchio, la zona più profonda dell’oltretomba dantesco, riservata ai traditori. Qui il ghiaccio del Cocito immobilizza i dannati, suddivisi in quattro zone concentriche che rappresentano gravità crescenti di tradimento: Caina (traditori dei parenti), Antenora (traditori della patria), Tolomea (traditori degli ospiti) e Giudecca (traditori dei benefattori).
La narrazione si apre con una delle scene più agghiaccianti dell’intero poema: il conte Ugolino della Gherardesca che rode il cranio dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini. Dante, incuriosito, chiede a Ugolino di raccontare la sua storia, dando inizio a uno dei passi più drammatici e celebri della Divina Commedia.
Ugolino narra come l’arcivescovo Ruggieri lo tradì, facendolo imprigionare insieme ai figli e nipoti nella Torre della Muda a Pisa. I prigionieri furono condannati a morire di fame, e il conte dovette assistere impotente all’agonia dei suoi discendenti, che implorarono il suo aiuto senza possibilità di salvezza: “Padre mio, ché non m’aiuti?”, chiese il figlio Gaddo prima di morire. Il racconto culmina nel verso enigmatico “Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”, lasciando il dubbio se Ugolino, spinto dalla fame, si sia cibato dei corpi dei figli.
Dopo questa straziante narrazione, Dante prorompe in un’invettiva contro Pisa, definendola “vituperio delle genti” per la crudeltà dimostrata verso cittadini innocenti, invocando che le isole di Capraia e Gorgona blocchino la foce dell’Arno per sommergere la città.
Nella seconda parte del canto, Dante e Virgilio si spostano nella Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti. Qui i dannati sono immersi nel ghiaccio con il viso rivolto verso l’alto, e le loro lacrime si congelano impedendo persino il sollievo del pianto. Questo rappresenta un perfetto esempio di contrappasso: chi ha tradito il calore dell’ospitalità è ora condannato al freddo eterno, e chi ha nascosto la propria freddezza d’animo dietro un volto amichevole ora ha il volto paralizzato dal ghiaccio.
In questa zona Dante incontra Frate Alberigo dei Manfredi, che fece assassinare i suoi parenti durante un banchetto dopo aver ordinato di servire la frutta (da cui l’espressione “le frutta di frate Alberigo” per indicare un tradimento). Alberigo rivela a Dante un aspetto ancora più terrificante della punizione divina: alcuni traditori sono così abominevoli che le loro anime precipitano all’Inferno mentre i loro corpi, posseduti da demoni, continuano a vivere sulla terra.
Questa rivelazione segna uno dei momenti più inquietanti dell’intero Inferno, suggerendo che il tradimento può essere così grave da anticipare il giudizio divino. Tra questi casi c’è anche Branca Doria, nobile genovese che uccise a tradimento il suocero Michele Zanche durante un banchetto.
Il contrappasso nel Canto 33 è particolarmente raffinato: Ugolino, che tradì Pisa, è condannato a mordere eternamente il cranio del suo traditore; i traditori degli ospiti hanno il viso congelato nel ghiaccio come congelato era il loro cuore; le anime più perfide cadono all’Inferno prima della morte del corpo, anticipando la punizione come avevano anticipato la malvagità con i loro atti di estremo tradimento.
Questo canto rappresenta il culmine della rappresentazione della malvagità umana nell’Inferno dantesco e prepara il lettore all’incontro con Lucifero nel canto successivo, l’ultimo della cantica, dove il poeta troverà il traditore supremo, simbolo del male assoluto e punto più basso dell’universo.
Canto 33 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
Il canto 33 dell’Inferno della Divina Commedia presenta un cast di personaggi che incarnano diverse sfaccettature del tradimento, ciascuno con un profondo significato allegorico e storico all’interno dell’opera dantesca.
Il protagonista indiscusso è Ugolino della Gherardesca (1220-1289), nobile pisano la cui tragica storia domina la prima parte del canto. Figura complessa e contraddittoria, Ugolino rappresenta il paradosso del traditore tradito: collocato nell’Antenora per aver tradito la sua fazione politica, è al contempo vittima di un tradimento ancora più odioso. La sua tragedia familiare, che coinvolge l’innocenza dei figli e nipoti condannati a morire con lui, trasforma Ugolino in simbolo dell’amore paterno ridotto all’impotenza. Dante riesce a suscitare compassione per lui pur non negando la giustizia della sua condanna, creando così una tensione morale che è tra le più potenti del poema.
L’antagonista di Ugolino è l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, la cui testa è eternamente divorata dal conte. Rappresentante degli interessi ghibellini a Pisa, Ruggieri incarna l’abuso del potere religioso a fini politici. La sua figura è emblematica di come Dante considerasse particolarmente grave il tradimento da parte di chi detiene responsabilità pubbliche e spirituali.
I figli e nipoti di Ugolino – Gaddo, Uguccione, Nino (detto il Brigata) e Anselmuccio – pur comparendo solo come vittime innocenti, svolgono un ruolo fondamentale nel canto. La loro innocenza martirizzata rappresenta le vittime collaterali dei conflitti politici e l’ingiustizia di un sistema che colpisce chi non ha colpa. I loro nomi, pronunciati con affetto da Ugolino, umanizzano profondamente il racconto e ne amplificano la dimensione tragica.
Nella seconda parte del canto emerge la figura di Frate Alberigo dei Manfredi, dannato della Tolomea per aver ucciso i suoi parenti durante un banchetto, dopo aver ordinato di servire le frutta (da cui l’espressione “le frutta di frate Alberigo”). Il suo caso introduce l’inquietante concetto che alcuni traditori siano così abominevoli che le loro anime precipitano all’Inferno ancora prima della morte fisica, mentre il corpo continua a vivere sulla terra animato da un demonio.
Infine, Branca Doria, nobile genovese che secondo Dante uccise il suocero Michele Zanche, rappresenta un altro esempio di questa condizione eccezionale di dannazione anticipata. La menzione di un personaggio ancora vivo al tempo della composizione del poema dimostra la volontà di Dante di usare l’Inferno anche come strumento di denuncia politica contemporanea.
Questi personaggi, con le loro complesse storie intrecciate tra realtà storica e rielaborazione poetica, consentono a Dante di esplorare molteplici aspetti del tradimento, della vendetta e della giustizia divina, offrendo al lettore un quadro straordinariamente ricco della società medievale italiana e delle sue lacerazioni politiche.
Analisi del Canto 33 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
Il Canto 33 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta un momento di straordinaria intensità emotiva e profondità tematica all’interno della Divina Commedia. Collocato nel nono cerchio infernale, questo canto esplora alcuni degli aspetti più oscuri dell’animo umano attraverso un intreccio narrativo di grande impatto drammatico.
Il tema del tradimento emerge come elemento centrale e viene declinato in molteplici sfaccettature. Dante esplora non solo il tradimento politico, rappresentato dal conte Ugolino, ma anche il tradimento dei legami familiari e di ospitalità, incarnato da figure come Frate Alberigo. Questa stratificazione del concetto di tradimento permette al poeta di costruire una riflessione articolata sulla gravità di questo peccato, considerato il più abominevole nella scala morale dantesca proprio perché viola i legami fondamentali che tengono unita la società umana.
La vendetta è un altro tema cruciale che attraversa il canto. L’immagine di Ugolino che rode eternamente il cranio dell’arcivescovo Ruggieri rappresenta visivamente il concetto di una vendetta che trascende persino i limiti della morte. Tuttavia, Dante non celebra la vendetta ma la presenta come una conseguenza naturale della giustizia divina, inserendola all’interno del sistema del contrappasso.
Particolarmente significativo è il tema della giustizia divina che si manifesta attraverso il contrappasso. I traditori sono immersi nel ghiaccio, simbolo della freddezza dei loro cuori privi di carità umana. Il ghiaccio di Cocito rappresenta l’antitesi del calore dell’amore divino, sottolineando come il tradimento sia essenzialmente un’assenza di amore verso il prossimo e verso Dio.
Sul piano narrativo, Dante utilizza magistralmente la tecnica del racconto nel racconto. La storia di Ugolino occupa gran parte del canto e si distingue per la sua straordinaria efficacia emotiva. Il poeta alterna sapientemente momenti di narrazione, descrizione e dialogo, creando un crescendo di tensione che culmina nell’ambiguo verso “poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”, lasciando al lettore il dubbio terribile sul destino finale di Ugolino e dei suoi figli.
Un elemento fondamentale della costruzione narrativa è l’integrazione di diversi livelli interpretativi. Dante fonde magistralmente:
- La dimensione storica: attraverso il riferimento a eventi e personaggi reali dell’Italia medievale
- La dimensione politica: con la critica feroce alle città di Pisa e Genova
- La dimensione teologica: nella rappresentazione della giustizia divina e del peccato
- La dimensione psicologica: nell’esplorazione delle emozioni estreme di Ugolino
L’episodio dei traditori nella Tolomea introduce inoltre l’inquietante concetto delle anime che precipitano all’Inferno prima della morte fisica, suggerendo che alcuni peccati sono così gravi da anticipare il giudizio divino, elemento che aggiunge ulteriore profondità teologica al canto.
L’abilità narrativa di Dante si manifesta infine nella capacità di suscitare nel lettore sentimenti contrastanti: orrore per la crudeltà descritta ma anche pietà per la sofferenza dei dannati, creando quella tensione emotiva che rende il canto uno dei momenti più memorabili dell’intero poema.
Figure retoriche nel Canto 33 dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 33 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta uno dei vertici della potenza espressiva dantesca, caratterizzato da una straordinaria ricchezza di figure retoriche che amplificano la drammaticità della narrazione e conferiscono profondità poetica al testo.
Le metafore dominano l’intero canto, a partire dall’inquietante immagine iniziale del “fiero pasto” (v. 1), che rappresenta l’odio imperituro tra Ugolino e Ruggieri. Particolarmente efficace è anche la metafora della torre come “pertugio” (v. 22), che simboleggia la speranza tradita dei prigionieri e la progressiva riduzione dello spazio vitale fino alla morte. La metafora della “fame” come operatore più potente del dolore (“Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”, v. 75) racchiude in sé tutta l’ambiguità dell’episodio, lasciando aperta l’interpretazione sul destino finale di Ugolino.
Le similitudini contribuiscono a rendere ancora più vivida e straziante la narrazione. Indimenticabile è il paragone tra i figli di Ugolino e gli agnelli: “e io senti’ chiavar l’uscio di sotto / a l’orribile torre; ond’io guardai / nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto” (vv. 46-48). Questa similitudine implicita accentua l’innocenza delle vittime e la brutalità del supplizio, evocando l’immagine biblica dell’agnello sacrificale.
Gli ossimori riflettono le contraddizioni della condizione dei dannati. L’espressione “pianto congelato” sintetizza efficacemente la natura paradossale della punizione nella Tolomea, dove le lacrime si ghiacciano impedendo persino il sollievo del pianto. Anche il “morto che vive” (riferito a Branca Doria) rappresenta un ossimoro teologico che sottolinea l’eccezionalità del peccato commesso.
Le allitterazioni scandiscono ritmicamente i momenti di maggiore tensione emotiva: “forbendola a’ capelli” (v. 2), “dolor poté il digiuno” (v. 75), “Quivi morir convien chi giunge” (v. 141). Queste ripetizioni consonantiche creano un effetto sonoro che accompagna e amplifica il contenuto semantico dei versi, aumentandone l’impatto emotivo sul lettore.
Gli iperbati e le anastrofi (alterazioni dell’ordine sintattico) sono frequenti e conferiscono solennità al discorso, come in “La bocca sollevò dal fiero pasto / quel peccator” (vv. 1-2), dove il soggetto è posto dopo il verbo e il complemento, creando una sospensione che aumenta la drammaticità della scena.
Significativo è anche l’uso dell’anafora, come nella ripetizione di “vedea” nei versi in cui Ugolino descrive la progressiva morte dei figli: “e io vedea, e non potea dar loro / aiuto alcun” (vv. 50-51). Questa ripetizione enfatizza il tema dell’impotenza paterna e intensifica il pathos della narrazione.
Le iperboli abbondano nell’invettiva contro Pisa, definita “vituperio delle genti” (v. 79), espressione che amplifica l’indignazione di Dante e la sua condanna morale verso la città toscana.
Infine, la sineddoche è evidente nell’uso di “Capraia e Gorgona” (due isole) per indicare elementi naturali chiamati a punire Pisa: “muovasi la Capraia e la Gorgona, / e faccian siepe ad Arno in sulla foce” (vv. 82-83). Questa figura retorica conferisce maggiore concretezza alla maledizione dantesca.
Queste figure retoriche non sono semplici ornamenti, ma strumenti essenziali attraverso cui Dante costruisce un linguaggio capace di esprimere l’ineffabile: il dolore estremo, la disperazione, l’odio eterno. La loro varietà e densità contribuiscono a fare del Canto 33 uno dei momenti più memorabili e poeticamente compiuti dell’intera Divina Commedia, esemplificando la straordinaria capacità dell’Alighieri di fondere rigore teologico e potenza espressiva.
Temi principali del Canto 33 dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 33 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta uno dei momenti di maggiore intensità emotiva e profondità tematica dell’intero poema dantesco. In queste terzine, Dante esplora diverse questioni morali, teologiche e politiche che si intrecciano in una narrazione di straordinaria potenza espressiva.
Il tema del tradimento domina l’intero canto, essendo il peccato punito nel nono cerchio. Dante ci mostra diverse sfaccettature di questo peccato: il tradimento politico (Ugolino e Ruggieri), il tradimento dell’ospitalità (Frate Alberigo e Branca Doria) e, in senso più ampio, il tradimento dei legami umani fondamentali. La gravità di questo peccato è tale che, come rivela Frate Alberigo, per i traditori più infami l’anima precipita all’Inferno ancora prima che il corpo muoia sulla terra, sostituita da un demonio. Questo elemento sottolinea come, nella visione dantesca, il tradimento rappresenti una sorta di morte morale anticipata.
La giustizia divina e il suo manifestarsi attraverso il contrappasso costituiscono un altro tema centrale del canto. Le punizioni inflitte ai dannati rispecchiano perfettamente la natura dei loro peccati: i traditori sono immersi nel ghiaccio, simbolo della freddezza dei loro cuori privi di carità; Ugolino rode eternamente il cranio dell’arcivescovo Ruggieri, replicando in forma simbolica il tormento della fame che lo ha condotto alla morte. La perfezione matematica della giustizia divina è uno degli elementi chiave della teologia dantesca, che vede nell’ordine cosmico il riflesso della razionalità divina.
Il dolore e la disperazione permeano ogni verso del canto, dal racconto straziante di Ugolino che assiste impotente all’agonia dei figli, alla condizione dei dannati della Tolomea, le cui lacrime si congelano negli occhi impedendo loro persino il sollievo del pianto. La rappresentazione del dolore fisico e psicologico raggiunge qui vette raramente eguagliate nella letteratura, trasformandosi in riflessione sulla condizione umana di fronte alla sofferenza estrema.
Un tema di particolare rilevanza è il rapporto tra innocenza e colpa. I figli e i nipoti di Ugolino, vittime innocenti della vendetta politica, sollevano interrogativi sulla giustizia umana e sulla trasmissione della colpa. Sebbene Dante non metta in discussione la colpevolezza di Ugolino, la compassione che mostra per la sorte dei suoi familiari evidenzia la tensione tra giustizia divina e ingiustizia umana.
Il canto offre anche una profonda condanna della corruzione politica dell’Italia del tempo. L’invettiva contro Pisa, definita “vituperio delle genti”, e la menzione di Branca Doria, nobile genovese ancora vivo sulla terra ma già dannato all’Inferno, riflettono il giudizio severo di Dante sulle lotte intestine che dilaniavano le città italiane. Il poeta vede nel tradimento politico non solo un crimine contro individui o fazioni, ma un peccato contro l’intera comunità civile.
Infine, il tema della memoria e del racconto emerge come elemento strutturale del canto. Il racconto di Ugolino, che accetta di narrare la propria storia per rinnovare “al cor dolore” e infamare il suo nemico, sottolinea il potere della parola come strumento di giustizia postuma e di conservazione della memoria storica. Dante stesso, affidando questi racconti alla sua poesia, si fa custode di una memoria che trascende i limiti del tempo umano.
Il Canto 33 dell’Inferno in pillole
Sezione | Punti Chiave | Note |
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Collocazione | Nono cerchio dell’Inferno (Antenora e Tolomea) | Penultimo canto prima dell’incontro con Lucifero |
Tematiche principali | Tradimento, vendetta, giustizia divina, dolore innocente | Esplorazione delle forme più gravi di tradimento umano |
Episodio centrale | Storia del Conte Ugolino e dei suoi figli/nipoti | Uno dei momenti più drammatici dell’intero poema |
Personaggi principali | Conte Ugolino, Arcivescovo Ruggieri, Frate Alberigo, Branca Doria | Figure storiche reinterpretate in chiave allegorica |
Contrappasso | Traditori immersi nel ghiaccio di Cocito | Il freddo simboleggia la mancanza di calore umano nei traditori |
Struttura narrativa | Racconto di Ugolino (vv. 1-90), descrizione della Tolomea (vv. 91-157) | Progressione verso il centro dell’Inferno |
Particolarità | Anima in Inferno mentre il corpo è ancora vivo sulla terra | Elemento unico che accentua la gravità del tradimento degli ospiti |
Figure retoriche principali | Metafore, similitudini, ossimori, allitterazioni | Contribuiscono alla drammaticità e intensità del canto |
Verso emblematico | “Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno” (v. 75) | Celebre per la sua ambiguità interpretativa |
Rilevanza nel poema | Prefigura il passaggio al Purgatorio | Dopo aver toccato il fondo della malvagità umana, si prepara la risalita verso la redenzione |