Il Canto 33 del Paradiso rappresenta il culmine dell’intero viaggio spirituale di Dante nella Divina Commedia, costituendo l’apice mistico e teologico dell’opera. In questi versi sublimi, il poeta tenta di descrivere l’ineffabile: la visione diretta di Dio, attraverso la mediazione della preghiera di San Bernardo alla Vergine Maria.
Situato all’estremo vertice della struttura cosmologica medievale, questo canto finale contiene alcuni tra i versi più densi e complessi dell’intera letteratura italiana, in cui Dante affronta la sfida suprema di esprimere con il linguaggio poetico ciò che trascende ogni possibilità di rappresentazione umana.
Indice:
- Canto 33 Paradiso della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 33 Paradiso della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 33 Paradiso: i personaggi
- Analisi del Canto 33 Paradiso: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 33 Paradiso della Divina Commedia
- Temi principali del 33 canto del Paradiso della Divina Commedia
- Il Canto 33 del Paradiso in pillole
Canto 33 Paradiso della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
| Testo Originale | Parafrasi |
|---|---|
| «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, | «O Vergine Maria, che sei madre di tuo figlio Cristo, più umile e al tempo stesso più elevata di ogni altra creatura, obiettivo prestabilito del disegno divino eterno, |
| tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. | tu sei colei che ha nobilitato la natura umana a tal punto che il suo creatore (Dio) non rifiutò di diventare sua creatura (incarnandosi come uomo). |
| Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore. | Nel tuo grembo si riaccese l’amore divino, grazie al cui calore in questo paradiso eterno è germogliato questo fiore (l’assemblea dei beati disposti a forma di rosa). |
| Qui se’ a noi meridïana face di caritate, e giuso, intra ‘ mortali, se’ di speranza fontana vivace. | Qui in paradiso sei per noi fiaccola meridiana di carità, e giù sulla terra, tra i mortali, sei sorgente viva di speranza. |
| Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre sua disïanza vuol volar sanz’ali. | O Signora, sei così grande e potente che chi desidera una grazia e non si rivolge a te, è come se volesse volare senza ali. |
| La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fïate liberamente al dimandar precorre. | La tua benevolenza non solo soccorre chi ti chiede aiuto, ma spesso spontaneamente anticipa la richiesta stessa. |
| In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate. | In te si trovano misericordia, in te pietà, in te magnificenza, in te si riunisce tutta la bontà che può esistere in una creatura. |
| Or questi, che da l’infima lacuna de l’universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una, | Ora costui (Dante), che dall’infima voragine dell’universo (l’Inferno) fino a qui ha visto le anime dei defunti una per una, |
| supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi più alto verso l’ultima salute. | ti supplica, per grazia, di donargli tanta forza spirituale che possa innalzarsi con lo sguardo ancora più in alto verso la beatitudine suprema (Dio). |
| E io, che mai per mio veder non arsi più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi ti porgo, e priego che non sieno scarsi, | E io (San Bernardo), che non desiderai mai di vedere Dio più intensamente di quanto lo desideri per lui, ti rivolgo tutte le mie preghiere, e ti prego che non siano insufficienti, |
| perché tu ogne nube li disleghi di sua mortalità co’ prieghi tuoi, sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi. | affinché tu, con le tue preghiere, gli dissolva ogni impedimento derivante dalla sua condizione mortale, così che gli si manifesti la visione suprema di Dio. |
| Ancor ti priego, regina, che puoi ciò che tu vuoli, che conservi sani, dopo tanto veder, li affetti suoi. | Ti prego ancora, o regina, che puoi ottenere ciò che vuoi, di mantenere integri i suoi sentimenti dopo una visione così elevata. |
| Vinca tua guardia i movimenti umani: vedi Beatrice con quanti beati per li miei prieghi ti chiudon le mani!». | Il tuo sostegno vinca le debolezze umane: guarda Beatrice e quanti beati insieme a lei, in risposta alle mie preghiere, congiungono le mani in preghiera verso di te!». |
| Li occhi da Dio diletti e venerati, fissi ne l’orator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati; | Gli occhi amati e riveriti da Dio (quelli della Vergine), fissi su colui che pregava (Bernardo), dimostrarono quanto le preghiere devote le siano gradite; |
| indi a l’etterno lume s’addrizzaro, nel qual non si dee creder che s’invii per creatura l’occhio tanto chiaro. | poi si rivolsero verso la luce eterna di Dio, nella quale non si deve credere che alcuna creatura possa penetrare con sguardo così limpido. |
| E io ch’al fine di tutt’i disii appropinquava, sì com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii. | E io (Dante) che mi avvicinavo alla meta di tutti i desideri, come era giusto che fosse, portai al culmine l’ardore del mio desiderio. |
| Bernardo m’accennava, e sorridea, perch’io guardassi suso; ma io era già per me stesso tal qual ei volea: | Bernardo mi faceva cenno, sorridendo, di guardare in alto; ma io ero già da me stesso disposto come lui voleva: |
| ché la mia vista, venendo sincera, e più e più intrava per lo raggio de l’alta luce che da sé è vera. | infatti la mia vista, diventando sempre più limpida, penetrava sempre più profondamente nel raggio dell’alta luce che è vera per sua stessa natura. |
| Da quinci innanzi il mio veder fu maggio che ‘l parlar nostro, ch’a tal vista cede, e cede la memoria a tanto oltraggio. | Da questo momento in poi la mia visione fu superiore a quanto possa esprimere il nostro linguaggio, che è inadeguato a descrivere tale visione, e anche la memoria cede di fronte a una tale eccezionale esperienza. |
| Qual è colüi che sognando vede, che dopo ‘l sogno la passione impressa rimane, e l’altro a la mente non riede, | Come colui che vede qualcosa in sogno, e dopo il risveglio gli rimane l’emozione provata, ma non riesce a ricordare ciò che ha sognato, |
| cotal son io, ché quasi tutta cessa mia visïone, e ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa. | così sono io, poiché la mia visione è quasi completamente svanita, ma ancora mi gocciola nel cuore la dolcezza che nacque da essa. |
| Così la neve al sol si disigilla; così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla. | Così la neve si scioglie al sole; così al vento si disperdevano i responsi della Sibilla, scritti su foglie leggere. |
| O somma luce che tanto ti levi da’ concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, | O luce suprema che tanto ti elevi al di sopra dei concetti umani, concedi alla mia mente un poco di quello che mi apparivi, |
| e fa la lingua mia tanto possente, ch’una favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente; | e rendi la mia lingua così potente che possa trasmettere ai posteri anche solo una scintilla della tua gloria; |
| ché, per tornare alquanto a mia memoria e per sonare un poco in questi versi, più si conceperà di tua vittoria. | perché, se mi tornasse anche solo in parte alla memoria e potessi descrivere un po’ in questi versi la tua visione, si comprenderebbe meglio la tua potenza. |
| Io credo, per l’acume ch’io soffersi del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, se li occhi miei da lui fossero aversi. | Credo che per l’intensità del raggio divino che sostenni, mi sarei smarrito se i miei occhi si fossero distolti da esso. |
| E’ mi ricorda ch’io fui più ardito per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi l’aspetto mio col valore infinito. | E ricordo che per questo motivo fui più coraggioso nel sostenere lo sguardo, tanto che giunsi a unire la mia vista con il valore infinito (Dio). |
| Oh abbondante grazia ond’io presunsi ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi! | Oh abbondante grazia per cui osai fissare lo sguardo nella luce eterna, tanto da consumare in essa tutta la mia capacità visiva! |
| Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna: | Nel suo profondo vidi raccogliersi, legato con amore in un unico volume, ciò che nell’universo si disperde in tanti fogli: |
| sustanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume. | le sostanze e gli accidenti e le loro relazioni, come fusi insieme, in modo tale che ciò che dico è solo un pallido barlume. |
| La forma universal di questo nodo credo ch’i’ vidi, perché più di largo, dicendo questo, mi sento ch’i’ godo. | Credo di aver visto la forma universale di questo legame, perché, dicendo questo, sento che provo una gioia più intensa. |
| Un punto solo m’è maggior letargo che venticinque secoli a la ‘mpresa che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo. | Un solo istante mi causa una dimenticanza maggiore di quella causata da venticinque secoli all’impresa che fece ammirare a Nettuno l’ombra della nave Argo (la prima nave). |
| Così la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar faciesi accesa. | Così la mia mente, totalmente rapita, guardava fissa, immobile e attenta, e la visione la rendeva sempre più desiderosa di contemplare. |
| A quella luce cotal si diventa, che volgersi da lei per altro aspetto è impossibil che mai si consenta; | Di fronte a quella luce si diventa tali che è impossibile acconsentire a distogliere lo sguardo da essa per guardare altro; |
| però che ‘l ben, ch’è del volere obietto, tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella è defettivo ciò ch’è lì perfetto. | perché il bene, che è l’oggetto del desiderio, si raccoglie tutto in essa, e fuori di quella luce è imperfetto ciò che in essa è perfetto. |
| Omai sarà più corta mia favella, pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante che bagni ancor la lingua a la mammella. | Oramai il mio racconto sarà più limitato, anche rispetto a quello che ricordo, del balbettio di un bambino che ancora bagna la lingua al seno materno. |
| Non perché più ch’un semplice sembiante fosse nel vivo lume ch’io mirava, che tal è sempre qual s’era davante; | Non perché nella viva luce che contemplavo ci fosse più di un semplice aspetto, poiché essa rimane sempre uguale a se stessa; |
| ma per la vista che s’avvalorava in me guardando, una sola parvenza, mutandom’io, a me si travagliava. | ma perché la mia vista, che si rafforzava guardando, mentre io mi trasformavo, percepiva in modo diverso la stessa unica apparenza divina. |
| Ne la profonda e chiara sussistenza de l’alto lume parvermi tre giri di tre colori e d’una contenenza; | Nella profonda e chiara essenza dell’alta luce mi apparvero tre cerchi di tre colori e di un’unica dimensione; |
| e l’un da l’altro come iri da iri parea reflesso, e ‘l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri. | e uno sembrava riflesso dall’altro come iride da iride, e il terzo sembrava un fuoco che si sprigionasse ugualmente da entrambi. |
| Oh quanto è corto il dire e come fioco al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, è tanto, che non basta a dicer ‘poco’. | Oh quanto è inadeguato il linguaggio e quanto debole rispetto al mio pensiero! E questo, rispetto a ciò che vidi, è così limitato che non basta nemmeno dire ‘poco’. |
| O luce etterna che sola in te sidi, sola t’intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi! | O luce eterna che sola dimori in te stessa, sola ti comprendi, e da te compresa e comprendente te stessa ami e sorridi! |
| Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso, da li occhi miei alquanto circunspetta, | Quella circolazione che così concepita appariva in te come luce riflessa, osservata per un po’ dai miei occhi, |
| dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che ‘l mio viso in lei tutto era messo. | dentro di sé, del suo stesso colore, mi sembrò dipinta con l’immagine umana: per questo il mio sguardo era tutto concentrato in essa. |
| Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elli indige, | Come il geometra che si concentra completamente per misurare il cerchio, e non trova, pur sforzandosi, quel principio di cui ha bisogno (la quadratura del cerchio), |
| tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova; | così ero io di fronte a quella straordinaria visione: volevo comprendere come l’immagine umana si adattasse al cerchio e come vi si collocasse; |
| ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne. | ma le mie capacità non erano all’altezza: se non che la mia mente fu colpita da un fulgore in cui si realizzò il suo desiderio. |
| A l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa, | Qui venne meno la forza all’alta immaginazione; ma già il mio desiderio e la mia volontà erano mossi, come una ruota che è spinta uniformemente, |
| l’amor che move il sole e l’altre stelle. | dall’amore che muove il sole e le altre stelle. |
Canto 33 Paradiso della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il Canto 33 del Paradiso si articola in tre sezioni principali che seguono un percorso di progressiva elevazione spirituale, conducendo il lettore dalla mediazione alla visione diretta del divino. La struttura tripartita rispecchia il contenuto teologico stesso del canto, culminando nella visione della Trinità.
Nella prima sezione (vv. 1-39), San Bernardo di Chiaravalle pronuncia una sublime preghiera alla Vergine Maria, invocandone l’intercessione affinché Dante possa godere della visione beatifica di Dio. Questa preghiera, considerata uno dei vertici lirici dell’intera Commedia, si apre con il celebre verso paradossale “Vergine madre, figlia del tuo figlio”, sintetizzando il mistero dell’Incarnazione.
San Bernardo esalta le virtù di Maria con una serie di epiteti che ne sottolineano il ruolo di mediatrice tra l’umanità e Dio, definendola “meridiana face di caritate” e “di speranza fontana vivace”. La supplica si conclude con la richiesta che a Dante sia concesso di contemplare direttamente la maestà divina.
La seconda sezione (vv. 40-93) rappresenta la transizione verso l’esperienza mistica. Dopo l’intercessione della Vergine, lo sguardo di Dante può finalmente volgersi all'”ultimo salute”, cioè a Dio stesso. Il poeta inizia subito a confrontarsi con l’impossibilità di esprimere a parole ciò che sta contemplando.
Questo tema dell’ineffabilità diventa centrale: “Da quinci innanzi il mio veder fu maggio / che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede, / e cede la memoria a tanto oltraggio”. Dante paragona la sua condizione a quella di chi, dopo il risveglio, conserva solo l’impressione emotiva di un sogno i cui dettagli sono ormai dimenticati. Ciò nonostante, tenta di descrivere la sua visione dell’universo unificato nell’essenza divina, utilizzando la potente metafora del libro i cui fogli sparsi (le singole creature) sono raccolti in un unico volume.
Nella terza e culminante sezione (vv. 94-145), Dante descrive la visione di Dio stesso, rappresentato allegoricamente attraverso tre cerchi di uguale dimensione ma di colore diverso, simbolo della Trinità. Il secondo cerchio appare come riflesso del primo, mentre il terzo sembra un fuoco che procede dagli altri due, rappresentando rispettivamente il Figlio e lo Spirito Santo che procedono dal Padre.
Nel cerchio centrale, il poeta intravede un’effigie umana, simbolo del mistero dell’Incarnazione, in cui natura divina e umana si fondono in Cristo. Davanti a questo mistero, Dante paragona il suo sforzo intellettivo a quello di un geometra che tenta invano di “quadrare il cerchio”, problema matematico irrisolvibile che rappresenta perfettamente i limiti della ragione umana di fronte al mistero divino.
Il canto e l’intero poema si concludono con l’immagine dell’intelletto e della volontà del poeta ormai completamente armonizzati con il volere divino, mossi dall'”amor che move il sole e l’altre stelle”. Questa conclusione cosmica riprende il motivo stellare che chiude ciascuna cantica, creando una perfetta circolarità all’intero viaggio dantesco, dalla “selva oscura” dell’Inferno alla luce eterna del Paradiso.
Particolarmente significativa è la lotta di Dante con i limiti del linguaggio umano. Attraverso metafore, similitudini e paradossi, il poeta cerca di suggerire l’inesprimibile, sottolineando ripetutamente come la visione superi le capacità espressive della parola e persino i limiti della memoria. La visione finale dei tre cerchi trinitari rappresenta il coronamento allegorico dell’intero poema, unificando tutte le tensioni che lo hanno attraversato: il rapporto tra umano e divino, tra conoscenza terrena e verità celeste, tra frammentazione del peccato e unità della grazia divina.
Canto 33 Paradiso: i personaggi
Il Canto XXXIII del Paradiso, pur concentrandosi sulla visione suprema di Dio, presenta un numero limitato ma significativo di figure che assumono un profondo valore simbolico e teologico nell’economia narrativa dantesca.
San Bernardo di Chiaravalle
San Bernardo (1090-1153) rappresenta l’ultima guida di Dante nel suo percorso ultraterreno, sostituendo Beatrice per il culmine mistico del viaggio. La scelta di questo personaggio non è casuale: figura centrale del monachesimo cistercense medievale, Bernardo era noto per:
- La sua profonda devozione mariana, testimoniata dai suoi scritti teologici dedicati alla Vergine, che lo rende il candidato ideale per pronunciare la sublime preghiera che apre il canto
- La sua teologia mistica, che privilegiava l’esperienza contemplativa diretta rispetto alla speculazione filosofica
- Il ruolo di predicatore della seconda crociata e riformatore monastico, che ne faceva una figura di autorità spirituale riconosciuta
San Bernardo incarna l’ideale della contemplazione mistica come via privilegiata alla conoscenza divina. Nel canto, svolge due funzioni essenziali: formula la preghiera di intercessione alla Vergine (vv. 1-39) e orienta lo sguardo di Dante verso la visione beatifica, rappresentando così il culmine della mediazione spirituale che ha accompagnato il poeta attraverso i tre regni.
La Vergine Maria
Sebbene non compaia come personaggio attivo nel dialogo, Maria assume un ruolo centrale nel canto attraverso l’invocazione di San Bernardo. Essa rappresenta:
- Il vertice della santità umana, come dimostra la sua posizione privilegiata nella rosa dei beati
- La mediatrice perfetta tra umanità e divinità, essenziale per ottenere la grazia necessaria alla visione ultima
- Il modello supremo di umiltà che ha reso possibile l’Incarnazione, riparando così alla superbia originaria di Eva
La Vergine viene celebrata attraverso una serie di paradossi teologici mirabilmente espressi nel verso iniziale: “Vergine madre, figlia del tuo figlio”. Nella teologia dantesca, Maria incarna la perfezione dell’umanità redenta e rappresenta il punto di congiunzione tra natura umana e divina.
Dante personaggio
Dante stesso, come personaggio del poema, assume in questo canto una dimensione peculiare. Non è più semplicemente il pellegrino o l’osservatore, ma diventa:
- Il destinatario privilegiato della visione divina, per speciale concessione della grazia
- Il testimone che affronta il paradosso dell’ineffabilità, tentando di comunicare l’incomunicabile
- L’emblema dell’umanità intera che, attraverso il suo viaggio, accede alla comprensione dei misteri divini
Il poeta-personaggio sperimenta qui lo scarto doloroso tra l’intensità dell’esperienza mistica e l’inadeguatezza della memoria e del linguaggio, diventando così figura dell’eterno conflitto tra l’aspirazione umana all’infinito e i limiti della condizione terrena.
I tre cerchi trinitari
In senso lato, anche la rappresentazione simbolica della Trinità può essere considerata una “presenza” nel canto. I tre cerchi di diverso colore ma uguale dimensione, che appaiono nella visione finale, non sono propriamente personaggi, ma assumono una funzione personificata come manifestazione visibile del mistero trinitario:
- Il primo cerchio, riflesso di pura luce, simboleggia il Padre
- Il secondo cerchio, che appare come riflesso del primo, rappresenta il Figlio
- Il terzo cerchio, descritto come “fiamma” che procede dagli altri due, incarna lo Spirito Santo
Questa rappresentazione geometrica della Trinità costituisce la culminazione visiva del canto e dell’intero poema, portando a compimento il percorso di rivelazione iniziato nella “selva oscura”.
Analisi del Canto 33 Paradiso: elementi tematici e narrativi
Il Canto 33 del Paradiso rappresenta il culmine dell’esperienza mistica di Dante e si contraddistingue per una straordinaria complessità tematica e narrativa. L’intero canto è costruito attorno alla tensione fondamentale tra l’esperienza trascendente vissuta dal poeta e l’inadeguatezza degli strumenti linguistici umani per esprimerla.
Uno degli elementi centrali è il tema dell’ineffabilità, che pervade l’intera composizione. Dante ripetutamente sottolinea l’impossibilità di tradurre in parole la visione divina: “Da quinci innanzi il mio veder fu maggio / che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede, / e cede la memoria a tanto oltraggio”. Questa ammissione di inadeguatezza non rappresenta un fallimento poetico, ma un paradossale trionfo espressivo, poiché proprio attraverso la confessione dei limiti linguistici Dante riesce a suggerire la trascendenza dell’esperienza.
La narrativa del canto si sviluppa secondo una progressione ascendente che riflette il graduale avvicinamento all’essenza divina. Si parte dalla mediazione umana (la preghiera di San Bernardo), per giungere alla visione diretta dell’Assoluto. Questa struttura ascensionale è evidenziata anche dal lessico che si fa progressivamente più astratto e rarefatto, con termini come “alta fantasia”, “luce etterna”, “amor” che dominano la parte finale.
Particolarmente significativa è la parafrasi dei versi 55-66, dove Dante utilizza la metafora del sogno dimenticato per descrivere l’evanescenza della visione divina nella memoria: “Qual è colüi che sognando vede, / che dopo ‘l sogno la passione impressa / rimane, e l’altro a la mente non riede”. Questa similitudine comunica efficacemente come dell’esperienza mistica rimanga un’impressione emotiva profonda, mentre i dettagli sfuggono alla memoria razionale.
Un altro elemento tematico fondamentale è l’unità cosmica rivelata nella visione divina. Nei versi 85-93, Dante descrive la visione dell’universo legato in un unico volume: “Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna”. Questa potente metafora libraria rappresenta come nell’essenza divina tutte le realtà disperse nel cosmo (“squadernate”) ritrovino la loro unità originaria e il loro significato ultimo.
L’elemento narrativo della visione trinitaria (vv. 115-126) costituisce il punto culminante del canto e dell’intero poema. Dante utilizza la metafora geometrica dei tre cerchi di diverso colore ma uguale dimensione per rappresentare il mistero trinitario: “tre giri / di tre colori e d’una contenenza”. La complessità di questa immagine, con il secondo cerchio che appare come riflesso del primo e il terzo come un fuoco che procede da entrambi, riflette perfettamente la dottrina cristiana delle tre Persone in un’unica sostanza divina.
L’ultimo elemento tematico fondamentale è il mistero dell’Incarnazione, raffigurato nella visione dell’effigie umana nel cerchio divino (vv. 127-139). Questo passaggio rappresenta il culmine teologico del poema: l’unione tra umano e divino nella persona di Cristo. Significativamente, è proprio questa visione che conclude il percorso conoscitivo di Dante, sottolineando come l’Incarnazione costituisca il punto di congiunzione tra finito e infinito, tra umano e divino.
La struttura narrativa si chiude con l’immagine del “fulmine” della comprensione divina e con l’armonizzazione della volontà del poeta con quella divina, espressa attraverso la metafora della ruota mossa uniformemente: “ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle”.
Il lessico impiegato da Dante in questo canto finale riflette la tensione tra visione mistica e limiti espressivi. Abbondano termini legati alla luce (“lume”, “raggio”, “fulgor”) e alla visione (“veder”, “vista”, “mirava”), affiancati da un vocabolario dell’insufficienza (“difettivo”, “corto”, “poco”). Questa dialettica linguistica è parte integrante della strategia poetica dantesca per comunicare l’inesprimibile.
Figure retoriche nel Canto 33 Paradiso della Divina Commedia
Il Canto 33 del Paradiso rappresenta il vertice espressivo della poesia dantesca, dove l’autore si confronta con il limite massimo del linguaggio umano dinanzi all’ineffabile esperienza divina. Per esprimere l’inesprimibile, Dante impiega un ricchissimo apparato retorico che meriterebbe un’analisi ben più vasta di quanto sia possibile qui proporre.
Il canto si apre con una delle più celebri figure retoriche dell’intera Commedia: l’ossimoro teologico “Vergine madre, figlia del tuo figlio”. Questa straordinaria antitesi racchiude il paradosso centrale del cristianesimo: Maria è simultaneamente vergine e madre, e come creatura è figlia di Cristo che è suo figlio nella carne. La figura dell’ossimoro continua nei versi successivi con “umile e alta più che creatura”, evidenziando come i normali limiti logici del linguaggio vengano superati quando si tenta di descrivere il divino.
Particolarmente significativo è l’uso dell’anafora nella preghiera di San Bernardo, dove la ripetizione di “In te” nei versi 7-9 crea un ritmo solenne e liturgico:
“In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.”
Questa struttura anaforica non è solo un abbellimento formale, ma un modo per trasmettere l’idea della convergenza di tutte le virtù nella figura della Vergine.
Il testo è intriso di metafore luminose che ricorrono per suggerire l’ineffabilità della visione divina. Maria è descritta come “meridiana face di caritate” (fiaccola meridiana di carità) e “di speranza fontana vivace” (viva fonte di speranza), immagini che fondono l’elemento luminoso con quello vitale e dinamico.
La struttura sintattica del canto è ricca di chiasmi, figure in cui i termini si dispongono secondo uno schema incrociato. Un esempio notevole appare nei versi 19-21:
“La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.”
Dove l’inversione tra il “soccorrere a chi domanda” e il “precorrere al dimandar” crea una struttura a specchio che rafforza il concetto della grazia divina che anticipa persino la richiesta.
Nella sezione dedicata alla visione divina, predominano i paradossi e le similitudini. Memorabile è la similitudine con cui Dante paragona la sua memoria deficitaria al sogno dimenticato:
“Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ‘l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede.”
L’adynaton, figura dell’impossibile, appare quando Dante paragona il suo tentativo di descrivere Dio alla sfida matematica della quadratura del cerchio:
“Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige.”
Nelle sezioni finali predomina l’uso della sinestesia, fusione di percezioni sensoriali diverse, come quando la visione diventa quasi tattile e gustativa: “nel caldo suo calor” o quando parla della “dolcezza” che nasce dalla visione.
Significativo è anche l’uso delle iperboli che sottolineano l’eccezionalità dell’esperienza mistica, come quando afferma che “un punto solo m’è maggior letargo / che venticinque secoli” per indicare come un attimo della visione divina abbia cancellato millenni di storia umana.
La gradatio, o climax ascendente, caratterizza l’intero canto, che progressivamente intensifica la tensione espressiva fino al culmine dell’esperienza mistica. Il lettore viene condotto attraverso una scala di figure retoriche sempre più ardite fino alla sublimazione finale.
Molto particolare è l’uso dell’apofasi o preterizione, figura con cui Dante dichiara ripetutamente di non poter dire ciò che proprio in quel momento sta cercando di esprimere. Questa tensione tra impossibilità espressiva e necessità comunicativa è al centro del canto:
“Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.”
Le figure retoriche nel Canto 33 non sono quindi meri ornamenti stilistici, ma strumenti essenziali attraverso cui Dante tenta di trascendere i limiti del linguaggio umano per suggerire l’ineffabile esperienza del divino. L’apparato retorico diventa così parte integrante dell’esperienza mistica stessa, trasformando il linguaggio poetico in veicolo di una conoscenza che va oltre la razionalità ordinaria.
Temi principali del 33 canto del Paradiso della Divina Commedia
Il Canto conclusivo del Paradiso e dell’intera Commedia racchiude una straordinaria densità tematica che corona il percorso spirituale di Dante. Attraverso una complessa trama di immagini e concetti, l’ultimo canto sviluppa temi fondamentali che rappresentano il culmine della visione teologica e poetica dantesca.
Il primo tema dominante è l’ineffabilità dell’esperienza divina. Dante ripetutamente sottolinea l’inadeguatezza del linguaggio umano di fronte alla visione suprema: “Da quinci innanzi il mio veder fu maggio / che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede, / e cede la memoria a tanto oltraggio”. L’impossibilità di tradurre l’esperienza mistica in parole diventa essa stessa oggetto di riflessione poetica, trasformando il limite espressivo in una potente metafora della trascendenza divina.
Intimamente collegato all’ineffabilità è il tema della tensione tra finito e infinito. Il poeta si trova nell’impossibile posizione di contenere l’illimitato nel limitato, di esprimere l’eterno nel temporale. Questa tensione si materializza nell’immagine dei tre cerchi trinitari, dove l’umano e il divino si incontrano nell’incarnazione: “mi parve pinta de la nostra effige”. La mente umana, finita per natura, si sforza di comprendere l’infinito divino, creando una dinamica di attrazione e inadeguatezza che costituisce l’essenza stessa dell’esperienza mistica.
Centrale nel canto è il mistero trinitario, rappresentato attraverso l’ardita immagine dei “tre giri / di tre colori e d’una contenenza”. La Trinità, fondamento della teologia cristiana, viene raffigurata come tre cerchi di diverso colore ma identica dimensione, esprimendo poeticamente il paradosso dell’unità nella trinità. Questa rappresentazione geometrica dell’inconoscibile divino dimostra come Dante riesca a coniugare astrazione teologica e concretezza visiva.
Il tema dell’unità cosmica permea l’intero canto, trovando la sua più potente espressione nell’immagine dell’universo come libro: “Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna”. La frammentazione del creato, disperso come fogli sciolti, trova la sua ricongiunzione nell’unità divina, dove tutto è simultaneamente presente e ordinato dall’amore. Questa metafora libraria sintetizza mirabilmente la visione dantesca di un cosmo organicamente unificato dalla sapienza divina.
La mediazione mariana costituisce un altro tema portante, sviluppato principalmente nella preghiera iniziale di San Bernardo. Maria appare come intermediaria indispensabile tra l’umanità e la divinità, modello di perfezione e canale privilegiato della grazia: “In te misericordia, in te pietate, / in te magnificenza, in te s’aduna / quantunque in creatura è di bontate”. La figura mariana incarna la possibilità stessa della comunicazione tra sfera divina e umana.
Influente è anche il tema della trasfigurazione della memoria e dell’intelletto. Di fronte all’esperienza mistica suprema, le capacità cognitive umane subiscono una trasformazione radicale: la memoria diventa insufficiente, l’intelletto è sopraffatto, eppure paradossalmente potenziato. Dante paragona la sua condizione a quella di un sognatore che al risveglio conserva solo l’impressione emotiva del sogno: “Qual è colüi che sognando vede, / che dopo ‘l sogno la passione impressa / rimane, e l’altro a la mente non riede”.
Il canto culmina nel tema dell’amore come forza cosmica unificante. Il verso conclusivo dell’intera Commedia, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, identifica nell’amore divino il principio dinamico che muove armonicamente l’intero universo, riconciliando filosofia aristotelica e teologia cristiana in una sintesi poetica di straordinaria potenza. L’amore divino diventa così la chiave interpretativa dell’intero viaggio dantesco e della stessa creazione.
Il Canto 33 del Paradiso in pillole
| Aspetto | Dettaglio |
|---|---|
| Posizione nell’opera | Ultimo canto del Paradiso e dell’intera Divina Commedia |
| Struttura | Tripartita: preghiera di San Bernardo (vv. 1-39), transizione (vv. 40-72), visione dell’Empireo (vv. 73-145) |
| Personaggi principali | San Bernardo di Chiaravalle, Vergine Maria, Dante, Dio |
| Incipit celebre | “Vergine madre, figlia del tuo figlio” |
| Evento centrale | Visione diretta di Dio da parte di Dante |
| Temi dominanti | Ineffabilità divina, limiti del linguaggio umano, unità cosmica, mistero della Trinità, Incarnazione |
| Figure retoriche principali | Ossimori, paradossi, antitesi, metafore di luce, similitudini matematiche, anafore |
| Immagini mistiche | L’universo legato in un volume, i tre cerchi trinitari, l’effigie umana nel cerchio divino |
| Difficoltà narrativa | Rappresentazione dell’inesprimibile attraverso la parola poetica |
| Conclusione | “l’amor che move il sole e l’altre stelle” – armonia tra volontà umana e divina |