Divina Commedia, Canto 6 Paradiso: testo, parafrasi e figure retoriche

Divina Commedia, Canto 6 Paradiso: testo, parafrasi e figure retoriche

Il Canto VI del Paradiso rappresenta uno dei momenti più significativi e politicamente densi dell'intera Divina Commedia di Dante Alighieri.
Divina Commedia, Canto 6 Paradiso: testo, parafrasi e figure retoriche
Il Canto VI del Paradiso rappresenta uno dei momenti più significativi e politicamente densi dell'intera Divina Commedia di Dante Alighieri.

Il Canto VI del Paradiso rappresenta uno dei momenti più significativi e politicamente densi dell’intera Divina Commedia di Dante Alighieri. Siamo nel Cielo di Mercurio, dove risiedono gli spiriti attivi che hanno operato per la gloria terrena pur mantenendo intatta la virtù.

Questo canto si distingue per la straordinaria complessità tematica e strutturale, offrendo attraverso il lungo monologo dell’imperatore Giustiniano una visione provvidenzialistica della storia dell’Impero Romano, dalle origini fino all’epoca contemporanea a Dante.

Testo OriginaleParafrasi
«Poscia che Costantin l’aquila volse / contr’al corso del ciel, ch’ella seguio / dietro a l’antico che Lavina tolse, / cento e cent’anni e più l’uccel di Dio / ne lo stremo d’Europa si ritenne, / vicino a’ monti de’ quai prima uscìo; / e sotto l’ombra de le sacre penne / governò ‘l mondo lì di mano in mano, / e, sì cangiando, in su la mia pervenne.«Dopo che Costantino spostò l’aquila (imperiale) in direzione opposta al movimento del cielo, che essa aveva seguito dietro l’antico (Enea) che prese in moglie Lavinia, per più di duecento anni l’uccello di Dio rimase all’estremità orientale dell’Europa, vicino ai monti della Troade dai quali era primariamente uscito; e sotto l’ombra delle sacre ali governò il mondo lì, passando di mano in mano, finché, attraverso tali mutamenti, pervenne nelle mie.
Cesare fui e son Iustinïano, / che, per voler del primo amor ch’i’ sento, / d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano. / E prima ch’io a l’ovra fossi attento, / una natura in Cristo esser, non piùe, / credea, e di tal fede era contento; / ma ‘l benedetto Agapito, che fue / sommo pastore, a la fede sincera / mi dirizzò con le parole sue.Fui l’imperatore Cesare e sono (lo spirito di) **Giustiniano**, che per volere del primo amore (Dio) che sento (provo), eliminai dalle leggi il superfluo e l’inutile. E prima che io fossi impegnato in quest’opera, credevo che in Cristo ci fosse una sola natura, non di più, ed ero soddisfatto di questa fede; ma il benedetto Agapito, che fu sommo pontefice, mi indirizzò alla fede autentica con le sue parole.
Io li credetti; e ciò che ‘n sua fede era, / vegg’io or chiaro sì, come tu vedi / ogni contradizione e falsa e vera. / Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, / a Dio per grazia piacque di spirarmi / l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi; / e al mio Belisar commisi l’armi, / cui la destra del ciel fu sì congiunta, / che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.Gli credetti; e ciò che era oggetto della sua fede, lo vedo ora chiaramente, così come tu comprendi ogni contraddizione sia falsa che vera. **Non appena con la Chiesa mossi i passi**, a Dio per grazia piacque ispirarmi l’alto lavoro (della codificazione del diritto), e mi dedicai completamente ad esso; e affidai le armi al mio generale Belisario, al quale la mano di Dio fu così favorevole, che fu questo un segno che io dovessi riposarmi (dalle armi e dedicarmi alle leggi).
Or qui a la question prima s’appunta / la mia risposta; ma sua condizione / mi stringe a seguitare alcuna giunta, / perché tu veggi con quanta ragione / si move contr’al sacrosanto segno / e chi ‘l s’appropria e chi a lui s’oppone. / Vedi quanta virtù l’ha fatto degno / di reverenza; e cominciò da l’ora / che Pallante morì per darli regno.Ora qui giunge al punto principale la mia risposta alla tua prima domanda; ma la natura della domanda mi costringe a fare alcune aggiunte, affinché tu veda con quanta ingiustizia si muovono contro il sacrosanto simbolo (dell’aquila) sia chi se ne appropria (i ghibellini) sia chi vi si oppone (i guelfi). **Vedi quanta virtù l’ha reso degno di riverenza**; e cominciò dal momento in cui Pallante morì per dargli potere.
Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora / per trecento anni e oltre, infino al fine / che i tre a’ tre pugnar per lui ancora. / E sai ch’el fé dal mal de le Sabine / al dolor di Lucrezia in sette regi, / vincendo intorno le genti vicine. / Sai quel ch’el fé portato da li egregi / Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro, / incontro a li altri principi e collegi;Tu sai che esso (il sacrosanto segno) fece la sua dimora in Alba (Longa) per più di trecento anni, fino al momento in cui i tre (Orazi) combatterono contro i tre (Curiazi) ancora per esso. E sai che esso fece, dal rapimento delle Sabine al dolore di Lucrezia, sotto sette re, vincendo intorno i popoli vicini. Sai ciò che esso fece portato dagli egregi Romani contro Brenno, contro Pirro e contro gli altri principi e coalizioni;
onde Torquato e Quinzio, che dal cirro / negletto fu nomato, i Deci e ‘ Fabi / ebber la fama che volontier mirro. / Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi / che di retro ad Annibale passaro / l’alpestre rocce, Po, di che tu labi. / Sott’esso giovanetti trïunfaro / Scipïone e Pompeo; e a quel colle / sotto ‘l qual tu nascesti parve amaro.per cui Torquato e Quinzio, che fu soprannominato Cincinnato per la chioma arruffata, i Deci e i Fabi ebbero la fama che volentieri celebro come con la mirra. **Esso atterrò l’orgoglio degli Arabi (Cartaginesi)** che passarono le rocce alpine dietro ad Annibale, o Po, di cui tu scendi. Sotto di esso trionfarono giovani Scipione e Pompeo; e a quel colle sotto il quale tu nascesti (Fiesole) parve amaro.
Poi, presso al tempo che tutto ‘l ciel volle / redur lo mondo a suo modo sereno, / Cesare per voler di Roma il tolle. / E quel che fé da Varo infino a Reno, / Isara vide ed Era e vide Senna / e ogne valle onde Rodano è pieno. / Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna / e saltò Rubicon, fu di tal volo, / che nol seguiteria lingua né penna.Poi, vicino al tempo in cui tutto il cielo volle ricondurre il mondo alla sua pace, Cesare per volere di Roma lo prende. E quello che fece dal Varo fino al Reno, lo videro l’Isère, la Loira e la Senna e ogni valle da cui il Rodano è alimentato. **Quello che fece dopo che uscì da Ravenna e superò il Rubicone, fu di tale portata, che non lo potrebbe seguire né lingua né penna**.
Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo, / poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse / sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo. / Antandro e Simeonta, onde si mosse, / rivide e là dov’ Ettore si cuba; / e mal per Tolomeo poscia si scosse. / Da indi scese folgorando a Iuba; / onde si volse nel vostro occidente, / ove sentia la pompeana tuba.Verso la Spagna rivolse l’esercito, poi verso Durazzo, e colpì Farsalo tanto che presso il caldo Nilo si sentì il dolore. Rivide Antandro e il Simoenta, da dove si mosse (Enea), e il luogo dove riposa Ettore; e poi si scosse con danno per Tolomeo. Da lì scese fulmineo contro Giuba; da dove si volse verso il vostro occidente, dove sentiva la tromba pompeiana.
Di quel che fé col baiulo seguente, / Bruto con Cassio ne l’inferno latra, / e Modena e Perugia fu dolente. / Piangene ancor la trista Cleopatra, / che, fuggendoli innanzi, dal colubro / la morte prese subitana e atra. / Con costui corse infino al lito rubro; / con costui puose il mondo in tanta pace, / che fu serrato a Giano il suo delubro.Di quello che fece con il portatore (Ottaviano) successivo, **Bruto e Cassio latrano nell’inferno**, e Modena e Perugia ne furono dolenti. Ne piange ancora la triste Cleopatra che, fuggendo davanti a lui, prese dal serpente la morte improvvisa e crudele. Con costui corse fino al lido del Mar Rosso; con costui pose il mondo in tanta pace, che fu chiuso a Giano il suo tempio.
Ma ciò che ‘l segno che parlar mi face / fatto avea prima e poi era fatturo / per lo regno mortal ch’a lui soggiace, / diventa in apparenza poco e scuro, / se in mano al terzo Cesare si mira / con occhio chiaro e con affetto puro; / ché la viva giustizia che mi spira, / li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, / gloria di far vendetta a la sua ira.Ma ciò che il segno che mi fa parlare aveva fatto prima e avrebbe fatto dopo per il regno mortale che a lui è soggetto, diventa in apparenza piccolo e scuro, se si guarda in mano al terzo Cesare (Tiberio) con occhio limpido e con animo puro; perché **la viva giustizia che mi ispira**, gli concesse, in mano a colui di cui parlo, la gloria di fare vendetta alla sua ira.
Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco: / poscia con Tito a far vendetta corse / de la vendetta del peccato antico. / E quando il dente longobardo morse / la Santa Chiesa, sotto le sue ali / Carlo Magno, vincendo, la soccorse. / Omai puoi giudicar di quei cotali / ch’io accusai di sopra e di lor falli, / che son cagion di tutti vostri mali.Ora qui stupisciti di ciò che ti ripeto: poi con Tito corse a fare vendetta della vendetta del peccato antico. E quando il dente longobardo morse la Santa Chiesa, sotto le sue ali Carlo Magno, vincendo, la soccorse. **Ormai puoi giudicare di quei tali che accusai sopra e dei loro errori, che sono causa di tutti i vostri mali**.
L’uno al pubblico segno i gigli gialli / oppone, e l’altro appropria quello a parte, / sì ch’è forte a veder chi più si falli. / Faccian li Ghibellin, faccian lor arte / sott’altro segno, ché mal segue quello / sempre chi la giustizia e lui diparte; / e non l’abbatta esto Carlo novello / coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli / ch’a più alto leon trasser lo vello.L’uno (i guelfi/angioini) oppone al simbolo pubblico i gigli gialli (di Francia), e l’altro (i ghibellini) se ne appropria per la propria fazione, così che è difficile vedere chi sbaglia di più. Facciano i Ghibellini, facciano le loro azioni sotto un altro simbolo, perché segue sempre male l’aquila chi separa la giustizia da essa; e non l’abbatta questo nuovo Carlo (Carlo II d’Angiò) con i suoi Guelfi, ma **tema degli artigli che strapparono il pelo a leoni più forti**.
Molte fïate già pianser li figli / per la colpa del padre, e non si creda / che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli! / Questa picciola stella si correda / d’i buoni spirti che son stati attivi / perché onore e fama li succeda: / e quando li disiri poggian quivi, / sì disvïando, pur convien che i raggi / del vero amore in sù poggin men vivi.Molte volte già piansero i figli per la colpa del padre, e non si creda che Dio cambi le armi (l’aquila) per i suoi gigli! Questa piccola stella (Mercurio) si adorna dei buoni spiriti che sono stati attivi affinché onore e fama li seguissero: **e quando i desideri si dirigono qui, deviando così, è inevitabile che i raggi del vero amore salgano meno vivi verso l’alto**.
Ma nel commensurar d’i nostri gaggi / col merto è parte di nostra letizia, / perché non li vedem minor né maggi. / Quindi addolcisce la viva giustizia / in noi l’affetto sì, che non si puote / torcer già mai ad alcuna nequizia. / Diverse voci fanno dolci note; / così diversi scanni in nostra vita / rendon dolce armonia tra queste rote.Ma nel misurare le nostre ricompense col merito sta parte della nostra letizia, perché non le vediamo né minori né maggiori. Perciò la viva giustizia addolcisce in noi il sentimento così, che non si può mai torcere verso alcuna iniquità. **Diverse voci fanno dolci note**; così diversi seggi nella nostra vita rendono dolce armonia tra queste sfere celesti.
E dentro a la presente margarita / luce la luce di Romeo, di cui / fu l’ovra grande e bella mal gradita. / Ma i Provenzai che fecer contra lui / non hanno riso; e perché mal cammina / qual si fa danno del ben fare altrui. / Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, / Ramondo Beringhiere, e ciò li fece / Romeo, persona umìle e peregrina. / E poi il mosser le parole biece / a dimandar ragione a questo giusto, / che li assegnò sette e cinque per diece, / indi partissi povero e vetusto; / e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe».E dentro alla presente perla luce la luce di Romeo, di cui fu l’opera grande e bella mal gradita. Ma i Provenzali che agirono contro di lui non hanno riso; e perché cammina male chi si fa danno del ben fare altrui. **Quattro figlie ebbe, e ciascuna regina, Raimondo Berengario, e ciò gli fece Romeo, persona umile e pellegrina**. E poi lo mossero le parole ostili a chiedere conto a questo giusto, che gli assegnò sette e cinque per dieci, quindi se ne partì povero e vecchio; e se il mondo sapesse il cuore che egli ebbe mendicando la sua vita a pezzo a pezzo, assai lo loda, e più lo loderebbe».

Canto 6 Paradiso della Divina Commedia: riassunto e spiegazione

Nel cielo di Mercurio, dimora degli spiriti attivi che operarono virtuosamente per ottenere gloria terrena, Dante incontra l’anima dell’imperatore Giustiniano. Il canto si sviluppa quasi interamente attraverso un lungo monologo del sovrano bizantino che ripercorre la storia dell’Impero Romano sotto il segno dell’aquila imperiale, simbolo di autorità voluta da Dio.

L’imperatore si presenta come colui che, guidato dall’ispirazione divina (“per voler del primo amor ch’i’ sento”), ha compiuto la monumentale opera di codificazione del diritto romano, eliminandone “il troppo e ‘l vano”. Dopo questa breve introduzione personale, Giustiniano inizia una grandiosa narrazione storica che costituisce il nucleo centrale del canto.

La narrazione prende avvio dal trasferimento della capitale dell’Impero da Roma a Costantinopoli, operato dall’imperatore Costantino nel 330 d.C. Questo spostamento viene descritto attraverso la potente immagine dell’aquila che vola “contr’al corso del ciel”, cioè in direzione opposta a quel movimento naturale che aveva portato l’Impero da oriente a occidente, da Troia all’Italia, con Enea (“l’antico che Lavina tolse”).

L’aquila imperiale rimase poi in Oriente per più di duecento anni (“cento e cent’anni e più”), vicino ai luoghi da cui aveva avuto origine, cioè la Troade.

Il volo dell’aquila diventa metafora della storia di Roma, che Giustiniano ripercorre attraverso tappe fondamentali: le guerre contro Alba Longa, la resistenza contro i popoli italici, le guerre puniche contro Cartagine. Il racconto si sofferma sulle vittoriose campagne militari di Pompeo e sulle conquiste di Giulio Cesare, fino a giungere alla pace universale sotto Augusto (“con costui puose il mondo in tanta pace, che fu serrato a Giano il suo delubro”).

La storia prosegue con Tiberio, sotto il cui impero avvenne la crocifissione di Cristo, interpretata da Dante come giusta vendetta divina per il peccato originale, ma anche come ingiusta dal punto di vista umano, poiché Cristo era innocente. L’aquila vendicò poi questa crocifissione attraverso Tito, che distrusse Gerusalemme nel 70 d.C. (“poscia con Tito a far vendetta corse de la vendetta del peccato antico”).

Giustiniano conclude la sua ricostruzione storica menzionando la difesa della Chiesa contro i Longobardi ad opera di Carlo Magno (“e quando il dente longobardo morse la Santa Chiesa, sotto le sue ali Carlo Magno, vincendo, la soccorse”). Questa narrazione culmina in una severa critica alle lotte tra guelfi e ghibellini, colpevoli entrambi di strumentalizzare il simbolo imperiale: i guelfi contrapponendovi il giglio francese, i ghibellini appropriandosene per fini di parte.

Nella parte conclusiva del canto, Giustiniano introduce la figura di Romeo di Villanova, ministro del conte Raimondo Berengario IV di Provenza, che riuscì a combinare illustri matrimoni per tutte e quattro le figlie del suo signore, facendole diventare regine. Nonostante i suoi meriti, Romeo cadde in disgrazia a causa di calunnie e fu costretto a lasciare la corte in povertà. La sua vicenda esemplifica il contrasto tra ingiustizia umana e giustizia divina, tema ricorrente nella Commedia.

L’intero discorso di Giustiniano è permeato dalla visione provvidenzialistica della storia tipica del pensiero dantesco: l’Impero Romano è presentato come strumento della volontà divina, un’istituzione universale voluta da Dio per preparare l’avvento del cristianesimo e garantire l’ordine nel mondo. Attraverso questa ricostruzione storica, Dante non solo celebra la grandezza di Roma, ma ribadisce anche la sua concezione politica dei due poteri universali, Impero e Chiesa, entrambi necessari alla felicità terrena e spirituale dell’umanità.

La narrazione è caratterizzata da un tono solenne ed epico, adeguato alla maestà dell’argomento trattato. Il simbolo dell’aquila, personificata e resa protagonista attiva delle vicende storiche, conferisce unità poetica all’intero excursus, trasformando una rassegna di eventi in un grandioso affresco provvidenziale.

Canto 6 Paradiso della Divina Commedia: i personaggi

Nel Cielo di Mercurio, Dante presenta figure emblematiche che incarnano i valori di giustizia e virtù civile. Questo canto è dominato dalla presenza dell’imperatore Giustiniano, ma include anche altri spiriti significativi come Romeo di Villanova, tutti accomunati dall’aver agito per il bene comune pur ricercando una certa gloria terrena.

Giustiniano: l’imperatore della giustizia

Protagonista indiscusso del canto è Giustiniano (482-565 d.C.), imperatore bizantino che si presenta come spirito luminoso, caratteristica tipica delle anime beate del Paradiso:

“Così, volgendosi a la nota sua, / fu viso a me cantare essa sustanza, / sopra la qual doppio lume s’addua.”

Questa “doppia luce” che lo avvolge simboleggia sia la beatitudine celeste sia la gloria terrena conquistata attraverso le sue opere. Giustiniano racconta la propria vicenda personale, soffermandosi sulla conversione dall’eresia monofisita alla fede ortodossa grazie all’intervento di Papa Agapito I:

“Cesare fui e son Iustinïano, / che, per voler del primo amor ch’i’ sento, / d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.”

L’imperatore ricorda la sua opera più importante: la compilazione del Corpus Iuris Civilis, monumentale codificazione del diritto romano che eliminò “il troppo e il vano” dalle leggi. Nel sistema dantesco, Giustiniano rappresenta l’ideale del sovrano illuminato che comprende il ruolo provvidenziale dell’Impero nella storia umana.

Romeo di Villanova: l’umile pellegrino

Nella parte conclusiva del canto, Giustiniano introduce la figura di Romeo di Villanova, personaggio storico del XIII secolo, ministro e amministratore del conte Raimondo Berengario IV di Provenza:

“Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, / Ramondo Beringhiere, e ciò li fece / Romeo, persona umìle e peregrina.”

Romeo, il cui nome evoca il “pellegrino diretto a Roma”, rappresenta l’uomo virtuoso che, nonostante l’origine modesta, seppe amministrare saggiamente il regno, procurando matrimoni regali alle quattro figlie del conte. Tuttavia, vittima di invidie e calunnie, fu costretto a lasciare la corte in povertà:

“Indi partissi povero e vetusto; / e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe.”

La vicenda di Romeo serve a Dante per illustrare la differenza tra giustizia umana, fallace e soggetta a passioni, e giustizia divina, sempre perfetta ed equa. Il ministro fedele diventa simbolo dell’uomo politico integro che agisce per il bene comune, ma viene ingiustamente perseguitato.

Le anime del Cielo di Mercurio

Oltre a questi due personaggi principali, nel Cielo di Mercurio dimorano altre anime che condivisero caratteristiche simili: spiriti attivi che in vita operarono per acquisire onore e fama, ma sempre guidati da rette intenzioni. Queste anime, pur avendo desiderato in qualche misura la gloria terrena, sono comunque beate, sebbene il loro grado di beatitudine sia inferiore rispetto a quello di spiriti più perfetti.

È significativo che Dante collochi in questo cielo personaggi che rivestirono ruoli politici e amministrativi: attraverso di loro, il poeta afferma la dignità dell’impegno civile e l’importanza dell’azione guidata da intenti virtuosi nella sfera pubblica. Tutti questi spiriti rappresentano l’ideale dantesco di unione tra virtù personale e dedizione alla comunità, principio cardine del suo pensiero politico.

Analisi del Canto 6 del Paradiso: elementi tematici e narrativi

Il sesto canto del Paradiso si distingue per la ricchezza e complessità dei suoi elementi narrativi e tematici, costituendo un momento fondamentale nella struttura complessiva della Commedia. La collocazione nel cielo di Mercurio non è casuale: questo è il regno delle anime attive per desiderio di fama terrena, cornice perfetta per una riflessione sulla storia imperiale e le sue implicazioni teologiche.

La narrazione si sviluppa attraverso una struttura ben definita che alterna momenti descrittivi, riflessioni storiche e considerazioni politico-teologiche. Il lungo monologo di Giustiniano rappresenta il nucleo centrale, articolandosi come un’ampia digressione sulla storia romana vista nella prospettiva provvidenzialistica. Questa struttura narrativa consente a Dante di elevare la storia umana a manifestazione del disegno divino, dove ogni evento acquista significato all’interno di un piano trascendente.

Uno degli elementi narrativi più significativi è la progressione storica che Giustiniano delinea: dall’origine troiana dell’Impero con Enea, passando per le guerre puniche, l’epoca augustea, fino all’Impero cristiano e Carlo Magno. Questo percorso non è una semplice cronologia, ma una vera e propria epopea sacra in cui l’aquila, simbolo imperiale, diventa segno tangibile della Provvidenza:

“Vedi quanta virtù l’ha fatto degno\ndi reverenza; e cominciò da l’ora\nche Pallante morì per darli regno.”

Centralissimo è il tema della provvidenzialità dell’Impero Romano. Dante, attraverso le parole di Giustiniano, interpreta la storia romana come parte di un disegno divino, in cui l’Impero non è semplicemente un’istituzione politica, ma uno strumento della volontà di Dio per preparare l’umanità all’avvento di Cristo. Questa lettura teologica della storia imperiale si manifesta in modo particolare quando Giustiniano ricorda che sotto Tiberio, imperatore romano, si compì la crocifissione di Cristo:

“Ma ciò che ‘l segno che parlar mi face\nfatto avea prima e poi era fatturo\nper lo regno mortal ch’a lui soggiace,\ndiventa in apparenza poco e scuro,\nse in mano al terzo Cesare si mira\ncon occhio chiaro e con affetto puro.”

La giustizia divina rappresenta un altro tema portante del canto. Essa si manifesta non solo nella storia imperiale descritta da Giustiniano, ma anche nel racconto di Romeo di Villanova, presentato come esempio di virtù ingiustamente calunniata e poi riabilitata nel giudizio divino. Attraverso questa figura, Dante sottolinea la differenza tra la giustizia umana, fallibile e spesso corrotta, e quella divina, sempre perfetta e infallibile.

Il tema della legittimità del potere si intreccia con quello della giustizia. Giustiniano ricorda la propria opera di codificazione del diritto romano, il Corpus Iuris Civilis, come un atto ispirato da Dio stesso (“per voler del primo amor”). In questo modo, Dante stabilisce una connessione diretta tra diritto umano e legge divina, suggerendo che l’autorità imperiale deriva la sua legittimazione proprio dalla conformità alla volontà di Dio.

L’equilibrio tra potere temporale e spirituale costituisce un ulteriore elemento tematico di grande rilevanza. Il discorso di Giustiniano riecheggia la teoria dantesca dei “due soli” (esposta nel Monarchia), secondo cui Impero e Chiesa rappresentano due autorità universali, entrambe volute da Dio ma con finalità distinte. L’imperatore bizantino diventa così portavoce della concezione politica dantesca, che vedeva nella separazione e nel reciproco rispetto tra i due poteri la condizione necessaria per la pace e il benessere dell’umanità.

Particolarmente significativa è la critica alle divisioni politiche contemporanee. Attraverso Giustiniano, Dante condanna sia i guelfi, che subordinano l’interesse imperiale a quello francese (“L’uno al pubblico segno i gigli gialli oppone”), sia i ghibellini, che strumentalizzano il simbolo imperiale per interessi di parte. Questa doppia critica rivela la posizione super partes del poeta, che vede nelle fazioni della sua epoca un tradimento dell’ideale imperiale universale.

La dimensione escatologica rappresenta uno sfondo costante del canto. La storia narrata da Giustiniano non è fine a se stessa, ma si proietta verso il compimento ultimo del disegno divino. L’imperatore è ora una luce beata nel cielo di Mercurio, simbolo di come l’azione politica guidata da retti principi conduca alla beatitudine eterna. In questa prospettiva, Giustiniano incarna l’ideale del governante che, pur agendo nella storia, mantiene lo sguardo rivolto all’eternità.

Il canto si caratterizza infine per una profonda riflessione sul significato della gloria terrena. Le anime del cielo di Mercurio, tra cui Giustiniano, hanno agito spinte da desiderio di fama, ma l’hanno fatto in modo virtuoso. Dante suggerisce così che la ricerca della gloria non è di per sé negativa, se orientata al bene comune e consapevole della propria subordinazione a un fine più alto.

Figure retoriche nel Canto 6 del Paradiso della Divina Commedia

Il Canto VI del Paradiso dispiega un ricco apparato retorico che contribuisce alla straordinaria complessità stilistica del testo. Al centro della costruzione retorica dantesca si colloca la metafora dell’aquila imperiale, simbolo che attraversa l’intero canto conferendogli unità e coerenza simbolica.

La metafora dell’aquila assume diverse sfumature: viene definita “uccel di Dio” (v. 4) per evidenziarne l’origine divina e “sacre penne” (v. 7) per sottolineare la sacralità dell’autorità imperiale. Questa personificazione costante trasforma il simbolo araldico in un vero e proprio attore della storia:

“Poscia che Costantin l’aquila volse / contr’al corso del ciel, ch’ella seguio / dietro all’antico che Lavina tolse”

Particolarmente efficace è l’uso dell’anafora nei versi dedicati alle gesta dell’aquila imperiale, dove la ripetizione di strutture sintattiche simili crea un effetto di accumulo che amplifica la grandezza delle imprese romane:

“Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna / e saltò Rubicon, fu di tal volo, / che nol seguiteria lingua né penna.”

L’enumerazione è un’altra figura ampiamente utilizzata nel canto. Giustiniano elenca sistematicamente le tappe fondamentali della storia romana – battaglie, imperatori, città conquistate, nemici sconfitti – creando un effetto di grandiosità epica che si addice alla narrazione della storia provvidenziale:

“Con costui pose il mondo in tanta pace, / che fu serrato a Giano il suo delubro.”

Significativo è anche l’impiego dell’iperbole, figura che esalta la dimensione sovrumana delle imprese imperiali. Quando Giustiniano afferma che le gesta di Cesare furono “di tal volo, / che nol seguiteria lingua né penna”, esprime l’indicibilità di un’impresa che trascende le possibilità della narrazione umana.

La similitudine compare in momenti cruciali del canto, come quando la successione degli eventi storici è paragonata a un fluire naturale e inevitabile:

“E quando il dente longobardo morse / la Santa Chiesa, sotto le sue ali / Carlo Magno, vincendo, la soccorse.”

Di grande efficacia è anche il chiasmo che Dante impiega nel descrivere la figura di Romeo di Villanova: “luce la luce di Romeo” (v. 127), dove la ripetizione del termine “luce” in posizioni invertite intensifica il concetto di splendore spirituale.

L’antitesi è utilizzata per contrapporre la grandezza dell’ideale imperiale alla meschinità delle lotte contemporanee:

“L’uno al pubblico segno i gigli gialli / oppone, e l’altro appropria quello a parte, / sì ch’è forte a veder chi più si falli.”

Qui l’opposizione tra le fazioni guelfa e ghibellina è sottolineata dall’uso di termini contrapposti.

Il canto presenta anche numerosi parallelismi sintattici che strutturano il discorso di Giustiniano, conferendogli ritmo e solennità, mentre l’uso frequente di apostrofi (“Ahi gente che dovresti esser devota”) intensifica il tono di deplorazione per le divisioni politiche contemporanee.

Infine, la sineddoche è impiegata quando Giustiniano parla del “dente longobardo” per riferirsi alla minaccia longobarda contro la Chiesa, parte che rappresenta il tutto in una personificazione minacciosa.

L’insieme di queste figure retoriche non costituisce un mero ornamento, ma è funzionale alla costruzione di un discorso che fonde storia, teologia e politica in un’unica visione provvidenziale, dove la forma stessa del linguaggio riflette la grandiosità del disegno divino.

Temi principali del 6 canto della Paradiso della Divina Commedia

Il Canto VI del Paradiso rappresenta uno dei momenti più concettualmente densi dell’intera Commedia, sviluppando temi fondamentali che sintetizzano la visione politica e teologica dantesca. Al centro dell’intero canto emerge la concezione provvidenzialistica dell’Impero, istituzione che per Dante non è semplicemente una struttura politica, ma uno strumento voluto da Dio per guidare l’umanità verso il bene terreno.

L’Impero come strumento divino si manifesta attraverso il simbolo dell’aquila, metafora ricorrente che Giustiniano utilizza per tracciare il percorso storico da Enea a Carlo Magno. Questo simbolo incarna l’autorità universale, voluta dalla Provvidenza e destinata a portare pace e giustizia tra gli uomini. Quando Giustiniano afferma: “Vedi quanta virtù l’ha fatto degno di reverenza”, sottolinea proprio questa legittimazione divina del potere imperiale.

Strettamente collegato al tema dell’Impero è quello della giustizia divina e umana. Giustiniano stesso rappresenta questa interconnessione: la sua opera di codificazione del diritto (il Corpus Iuris Civilis) diventa espressione terrena di un ordine cosmico superiore. La giustizia umana, quando correttamente amministrata, riflette quella divina e contribuisce all’armonia universale. L’esempio di Romeo di Villanova, ingiustamente calunniato sulla terra ma ricompensato nei cieli, rappresenta il contrappunto narrativo che illustra la perfezione della giustizia divina rispetto all’imperfezione di quella umana.

Un altro tema centrale è la dottrina politica dei “due poteri universali”. Dante, attraverso Giustiniano, delinea una visione in cui Chiesa e Impero sono istituzioni complementari, entrambe necessarie e volute da Dio, ma con funzioni distinte: la prima guida gli uomini alla beatitudine eterna, il secondo alla felicità terrena. Questo concetto emerge chiaramente nei versi che ricordano come Carlo Magno soccorse la Chiesa sotto le ali dell’aquila imperiale, evidenziando la funzione protettrice dell’Impero nei confronti della Chiesa stessa.

Fondamentale è anche la critica alla contemporaneità politica, espressa attraverso la condanna delle fazioni. Quando Giustiniano dichiara: “L’uno al pubblico segno i gigli gialli oppone, e l’altro appropria quello a parte”, denuncia sia i guelfi (alleati con la Francia) sia i ghibellini (che strumentalizzano l’idea imperiale). Per Dante, entrambe le posizioni tradiscono la vera natura universale dell’Impero, degradando un’istituzione divina a strumento di interessi particolari.

Infine, il tema della storia come manifestazione della volontà divina percorre l’intero canto. Il racconto cronologico delle vicende dell’aquila imperiale non è una semplice narrazione storica, ma diventa una teodicea, una giustificazione del disegno provvidenziale di Dio nella storia umana. Particolarmente significativa è l’interpretazione della passione di Cristo sotto Tiberio come evento che acquista significato universale proprio perché avvenuto sotto l’autorità dell’Impero, unificatore del mondo antico.

Il Canto 6 del Paradiso in pillole

AspettoDettaglio
AmbientazioneCielo di Mercurio, dove risiedono gli spiriti attivi che hanno operato per la gloria
Personaggio principaleImperatore Giustiniano, simbolo della giustizia imperiale e compilatore del Corpus Iuris Civilis
Personaggio secondarioRomeo di Villanova, esempio di virtù non riconosciuta in vita ma premiata in cielo
Tema centraleLa provvidenzialità dell’Impero Romano come strumento divino nella storia umana
Simbolo dominanteL’aquila imperiale, che rappresenta l’autorità dell’Impero attraverso i secoli
Struttura narrativaLungo monologo di Giustiniano che ripercorre la storia di Roma da Enea a Carlo Magno
Elementi politiciCritica alle fazioni contemporanee (guelfi e ghibellini) e alla vacanza del trono imperiale
Figura retorica principalePersonificazione dell’aquila come entità storica che attraversa secoli di storia romana
Metafora centraleIl “sacrosanto segno” dell’aquila come simbolo della volontà divina nella storia
Periodo storico trattatoDall’arrivo di Enea in Italia fino all’epoca carolingia, con focus sull’Impero Romano
Contributo teologicoVisione della storia come manifestazione della giustizia divina e dell’ordine provvidenziale
Passaggio chiave“Cesare fui e son Iustinïano, / che, per voler del primo amor ch’i’ sento, / d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano”
Legame con altri cantiTerzo dei canti “politici” numerati VI (Inferno: Firenze; Purgatorio: Italia; Paradiso: Impero)
Rilevanza nell’operaEsprime la concezione dantesca dei due poteri universali: Impero e Chiesa
AttualizzazioneCritica alla situazione politica italiana del ‘300, divisa tra sostenitori del Papa e dell’Imperatore

Ti potrebbe interessare

Link copiato negli appunti