Divina Commedia, Canto 7 Inferno: testo, parafrasi e analisi

Divina Commedia, Canto 7 Inferno: testo, parafrasi e figure retoriche

Divina Commedia, Canto 7 Inferno: testo, parafrasi e figure retoriche

Collocato a cavallo tra il quarto e il quinto cerchio infernale, il canto 7 dell’Inferno della Divina Commedia offre una rappresentazione potente dei peccati legati all’uso improprio della ricchezza e alle passioni dell’animo. Da un lato gli avari e i prodighi, condannati a spingere pesi in direzioni opposte, dall’altro gli iracondi e accidiosi, immersi nella palude Stigia.

Indice:

Canto 7 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi

Per la migliore comprensione dell’opera, ecco il testo integrale del canto 7 dell’Inferno della Divina Commedia:

TestoParafrasi
“«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», cominciò Pluto con la voce chioccia; e quel savio gentil, che tutto seppe, disse per confortarmi: «Non ti noccia la tua paura; ché, poder ch’elli abbia, non ci torrà lo scender questa roccia». “«Oh, Satana, oh, Satana, re dell’Inferno!» cominciò a dire Pluto con la voce roca; e quel nobile saggio che seppe ogni cosa, per confortarmi disse: «Non farti sopraffare dalla paura, poiché, per potere che abbia questo demone, non ci impedirà di scendere questa roccia».
“Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia. “
Poi si rivolse a quel volto gonfio d’ira e disse: «Taci, maledetto lupo! consuma dentro di te con la tua rabbia.
“Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo». “
Non è senza ragione il nostro viaggio verso il fondo dell’Inferno: si vuole così in Cielo, dove l’arcangelo Michele vendicò il supremo peccato di Lucifero».
“Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele. “
Come le vele gonfiate dal vento cadono ravvolte, se l’albero della nave si spezza, così cadde a terra la belva crudele.
“Così scendemmo ne la quarta lacca
pigliando più de la dolente ripa
che ’l mal de l’universo tutto insacca.”
Allora scendemmo nel IV Cerchio, procedendo più in basso in quella dolorosa voragine che contiene tutto il male del mondo.
“Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?”
Ahimè, giustizia divina, chi mai ammassa tante pene e tormenti quanti ne vidi io in quel luogo? e perché la nostra colpa ci strazia in tal modo?
“Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa,
così convien che qui la gente riddi. “
Come fa l’onda presso Cariddi, quando si infrange con quella che proviene da Scilla, così quei dannati devono danzare la ridda.
“Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’urli,
voltando pesi per forza di poppa. “
Qui vidi più dannati che in qualunque altro luogo d’Inferno, che da una parte e da quella opposta facevano rotolare massi con la forza del petto, urlando.
“Percoteansi ’ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».”
Andavano a cozzare gli uni contro gli altri, quindi ciascuna schiera si voltava indietro e gridavano reciprocamente: «Perché tieni stretto il masso?» e «Perché lo fai rotolare?»
“Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro; “
Così tornavano indietro nel Cerchio buio da ogni lato al punto opposto, continuando a gridare le parole ingiuriose;
“poi si volgea ciascun, quand’era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
E io, ch’avea lo cor quasi compunto, dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra». “
poi, una volta arrivati dall’altra parte, tornavano a voltarsi e ricominciavano la giostra. E io, che avevo il cuore gonfio di angoscia, dissi: «Maestro mio, mostrami che dannati sono questi e se questi alla nostra sinistra che hanno la tonsura furono tutti chierici».
“Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci. “
E lui a me: «Tutti quanti in vita ebbero la mente ottenebrata, così che non fecero alcuna spesa con misura.
“Assai la voce lor chiaro l’abbaia
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia. “
La loro voce lo esprime chiaramente quando giungono ai due punti del Cerchio, dove la loro colpa opposta li separa in due schiere distinte.
“Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio». “
Questi, che non hanno i capelli sul capo, furono chierici, e papi e cardinali, in cui l’avarizia esercita il suo eccesso».
“E io: «Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali». “
E io: «Maestro, io dovrei certo riconoscere alcuni fra questi dannati, che si macchiarono di queste colpe».
“Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi
ad ogne conoscenza or li fa bruni. “
E lui a me: «Il tuo pensiero è vano: la vita dissennata che li fece peccare, ora li rende del tutto irriconoscibili.
“In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.”
Verranno a cozzare in eterno: gli avari risorgeranno dalla tomba col pugno chiuso, i prodighi coi capelli tagliati.
“Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro. “
Il troppo spendere e il troppo risparmio ha tolto loro il Paradiso, e li ha posti a questa contesa: non uso altre parole per descrivere la loro pena.
“Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabbuffa; “
Ora, figliuolo, puoi vedere la corta durata dei beni che sono affidati alla fortuna, per cui l’umanità si affanna tanto;
“ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’anime stanche
non poterebbe farne posare una». “
infatti, tutto l’oro del mondo e che già fu in passato, non potrebbe far acquietare neppure una di queste anime».
“«Maestro mio», diss’io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?» “
Io dissi: «Maestro mio, ora spiegami: questa fortuna di cui tu mi parli, e che ha i beni del mondo tra i suoi artigli, che cos’è?»
“E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche. “
E lui mi rispose: «O uomini sciocchi, quanta ignoranza vi danneggia! Ora voglio che ascolti attentamente le mie parole.
“Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì ch’ogne parte ad ogne parte splende, distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani; “
Colui la cui sapienza supera tutto (Dio) creò i cieli, e dispose delle intelligenze angeliche per governarli, così che la sua luce si rifletta di cielo in cielo e si riverberi egualmente nell’Universo. Allo stesso modo, dispose un’intelligenza per governare e amministrare i beni terreni, che li trasmutasse al momento opportuno tra le varie famiglie e le varie stirpi, al di là dell’opposizione del senno degli uomini;
“per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue. “
perciò una famiglia prospera e un’altra decade, in base al giudizio della fortuna che è nascosto, come il serpente che si annida tra l’erba.
“Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi. “
La vostra sapienza non la può contrastare: essa provvede, giudica e attua i suoi decreti, proprio come le altre intelligenze angeliche.
“Le sue permutazion non hanno triegue;
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue. “
Le sue trasmutazioni non hanno tregua; deve essere veloce per ottemperare il volere divino; così succede spesso che vi siano mutamenti di condizione.
“Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce; “
La fortuna è colei che è tanto criticata anche da coloro che dovrebbero elogiarla, e che invece la biasimano e insultano a torto:
“ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode. “
ma lei è felice e non sente tutto ciò: lieta, insieme agli altri angeli, fa girare la sua ruota e gode la sua serenità.
“Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand’io mi mossi, e ’l troppo star si vieta».”
Ora è tempo di scendere a una angoscia maggiore; ormai sta tramontando ogni stella che sorgeva quando lasciai il Limbo (sono passate dodici ore) e non possiamo perdere troppo tempo».
“Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
sovr’una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva. “
Noi attraversammo il Cerchio fino all’argine opposto, sopra una sorgente che ribolle e si riversa lungo un fossato che inizia da essa.
“L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa. “
L’acqua era molto scura e noi, seguendo le onde nere, scendemmo lungo una via malagevole.
“In la palude va c’ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’è disceso
al piè de le maligne piagge grige. “
Questo triste ruscello va nella palude chiamata Stige, una volta che è sceso ai piedi di quel tetro pendio infernale.
“E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso. “
E io, che guardavo attentamente, vidi dei dannati immersi in quel pantano fangoso, tutti nudi e con aspetto crucciato.
“Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.”
Essi si colpivano non solo con le mani, ma con la testa, il petto, i piedi, strappandosi la carne a morsi.
“Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
e anche vo’ che tu per certo credi che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira. “
Il buon maestro disse: «Figlio, ora  vedi le anime che furono sopraffatte dall’ira; e voglio anche che tu creda per certo che sotto l’acqua ci sono anime che sospirano, e fanno gorgogliare la superficie dell’acqua, come puoi vedere ovunque volgi lo sguardo.
“Fitti nel limo, dicon: “Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidioso fummo: or ci attristiam ne la belletta negra”.
Quest’inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra».”
Coperti dal fango dicono: “Noi fummo tristi nell’aria dolce che trae allegria dal sole, covando dentro l’animo un’ira inespressa: ora ci rattristiamo nel fango nero”. Fanno gorgogliare queste parole in gola, poiché non possono pronunciarle con voce chiara».
“Così girammo de la lorda pozza
grand’arco tra la ripa secca e ’l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.Venimmo al piè d’una torre al da sezzo. “
Così costeggiammo quella sozza palude per un grande arco, tra l’argine roccioso e l’acqua, con gli occhi rivolti alle anime immerse nel fango. Alla fine giungemmo ai piedi di una torre.

Canto 7 Inferno della Divina Commedia: i personaggi

Pluto si presenta come guardiano del quarto cerchio infernale, rappresentando una figura complessa e stratificata nel panorama dantesco. Divinità associata alla ricchezza nella mitologia classica, Dante lo trasforma in un demone dalla natura bestiale, come evidenziato dall’appellativo “maledetto lupo” usato da Virgilio.

Questa trasfigurazione non è casuale: collega direttamente la figura mitologica alla custodia dei peccati legati all’uso distorto delle ricchezze. L’aspetto animalesco di Pluto simboleggia la natura degradante dell’avarizia, considerata tra i vizi più pericolosi nella morale medievale. Il suo linguaggio incomprensibile (“Pape Satàn, pape Satàn aleppe!”) comunica immediatamente la sua alterità e la sua natura corrotta, mentre la sua immediata sconfitta di fronte all’autorità di Virgilio dimostra come il potere del male sia limitato quando confrontato con la ragione illuminata dalla volontà divina.

Gli avari e i prodighi rappresentano due polarità opposte dello stesso peccato: l’uso improprio dei beni materiali. La loro condanna esemplifica perfettamente il principio del contrappasso dantesco. Gli avari, che in vita hanno accumulato senza donare, spingono pesanti massi gridando “Perché tieni?”, rimproverando l’eccesso di attaccamento ai beni. Il loro corpo curvo sotto il peso simboleggia l’anima schiacciata dall’ossessione del possesso.

I prodighi, che hanno sperperato irresponsabilmente, spingono in direzione contraria urlando “Perché burli?”, condannando lo spreco. Dante evidenzia anche come tra questi dannati si trovino numerosi ecclesiastici (“cherci, che non han coperchio piloso al capo”), rivolgendo così una critica diretta alla corruzione della Chiesa del suo tempo. L’incapacità di riconoscersi reciprocamente rappresenta un ulteriore elemento punitivo: come in vita non hanno potuto trovare un equilibrio nell’uso delle ricchezze, così nell’aldilà sono condannati all’eterna contrapposizione.

Nel quinto cerchio, gli iracondi emergono dalla palude Stigia, caratterizzati dalla violenza manifesta delle loro azioni. Si percuotono non solo con le mani, ma con ogni parte del corpo, strappandosi a morsi, perpetuando nell’aldilà quella stessa ira incontrollata che ha definito la loro esistenza terrena. Il fango che li ricopre simboleggia la natura contaminante e degradante di questo peccato.

Gli accidiosi, al contrario, sono immersi sotto la superficie fangosa, invisibili al poeta ma presenti attraverso le bolle che affiorano, simbolo dei loro sospiri. La contrapposizione tra queste due categorie di peccatori è significativa: l’ira rappresenta l’eccesso di passione, mentre l’accidia ne rappresenta la mancanza patologica. Entrambe costituiscono un allontanamento dall’equilibrio virtuoso che dovrebbe governare l’animo umano.

La Fortuna occupa una posizione unica nel canto 7 dell’Inferno della Divina Commedia: non come personaggio fisicamente presente ma come concetto esposto da Virgilio in una delle digressioni più significative dell’opera. Dante rivoluziona la tradizionale visione della Fortuna come dea capricciosa, presentandola invece come “general ministra e duce” del disegno divino. Questa intelligenza angelica distribuisce e redistribuisce i beni terreni secondo un piano provvidenziale che trascende la comprensione umana. La calma con cui Virgilio affronta le minacce infernali contrasta con il timore di Dante, rappresentando l’ideale stoico del controllo delle passioni attraverso la ragione.

Analisi del Canto 7 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi

Il contrappasso, principio cardine della giustizia divina nell’Inferno dantesco, trova nel Canto 7 dell’Inferno della Divina Commedia una delle sue più efficaci rappresentazioni poetiche. Ogni pena riflette, per analogia o per contrasto, la natura del peccato punito: gli avari e i prodighi, che hanno fatto un uso squilibrato delle ricchezze, sono condannati a un movimento circolare e opposto; gli iracondi continuano a darsi battaglia nella palude Stigia; gli accidiosi, inerti in vita, sono immobilizzati sotto il fango.

Questa corrispondenza tra colpa e pena non è solo un artificio letterario, ma riflette una visione teologica secondo cui il peccato stesso genera la propria punizione, manifestando l’ordine razionale della giustizia divina anche nell’apparente caos infernale.

La critica sociale e religiosa costituisce un elemento fondamentale di questo canto. Dante esprime una forte condanna dell’avarizia, particolarmente quando colpisce le istituzioni ecclesiastiche. L’immagine dei “cherci” tra gli avari, con specifico riferimento a “papi e cardinali”, rivela la preoccupazione del poeta per la corruzione della Chiesa del suo tempo. Questa denuncia si inserisce nel più ampio progetto dantesco di riforma morale della Chiesa, vista come corrotta dall’attaccamento ai beni terreni e dimentica della sua missione spirituale.

Il conflitto tra razionalità e irrazionalità permea l’intero canto attraverso l’opposizione tra Virgilio e Pluto. Il poeta latino, simbolo della ragione umana illuminata dalla fede, neutralizza con poche parole la minaccia del demone, rappresentante delle forze irrazionali del peccato. Questo contrasto si estende ai dannati stessi: l’irrazionalità degli avari e dei prodighi si manifesta nella loro incapacità di trovare un giusto equilibrio nell’uso dei beni materiali; l’irrazionalità degli iracondi si esprime nell’esplosione incontrollata delle passioni.

La vittoria della ragione è però sempre temporanea e parziale nell’Inferno, regno dove la razionalità è stata abbandonata in favore dell’istinto e della passione.

La figura della Fortuna rappresenta un’importante sintesi tra pensiero pagano e cristiano. Trasformandola da dea capricciosa a ministra divina, Dante risolve il problema teologico della distribuzione apparentemente casuale delle ricchezze e dei poteri terreni, inserendola all’interno di un ordine provvidenziale. La Fortuna, come le altre intelligenze angeliche, esegue la volontà di Dio, distribuendo i beni terreni secondo un disegno superiore che sfugge alla comprensione umana. Questa concezione riflette il tentativo dantesco di conciliare il pensiero classico con la visione cristiana della Provvidenza, dimostrando come anche i fenomeni apparentemente casuali rientrino in un disegno divino coerente.

La struttura narrativa del canto si caratterizza per un’abile alternanza tra momenti di azione, spiegazioni dottrinali e riflessioni filosofiche. L’iniziale incontro con Pluto, carico di tensione drammatica, è seguito dalla descrizione della pena degli avari e dei prodighi, per poi lasciare spazio alla digressione filosofica sulla Fortuna. Questa variazione ritmica contribuisce a mantenere alta l’attenzione del lettore e a sottolineare i diversi livelli di significato presenti nel testo. L’equilibrio tra narrazione e riflessione rappresenta una delle caratteristiche più significative dello stile dantesco, capace di fondere l’elemento drammatico con quello didascalico.

La progressione della discesa infernale acquista in questo canto un’accelerazione significativa. La transizione dal quarto al quinto cerchio all’interno dello stesso canto crea un effetto di intensificazione della caduta morale, sottolineando come i peccati si aggravino man mano che Dante si avvicina al fondo dell’abisso. Lo stato emotivo del pellegrino riflette questa progressione: il timore iniziale di fronte a Pluto lascia gradualmente spazio alla compassione per i dannati, ma anche all’accettazione della giustizia divina che li punisce. Il canto si conclude con l’arrivo alla torre che preannuncia l’incontro con Flegias, mantenendo la tensione narrativa e l’attesa per il proseguimento del viaggio.

Figure retoriche nel Canto 7 della Divina Commedia

Il Canto 7 dell’Inferno della Divina Commedia rivela la straordinaria abilità retorica di Dante, che utilizza diversi artifici stilistici per potenziare l’efficacia espressiva e il valore simbolico del testo.

L’allitterazione emerge con forza già nell’incipit, dove le parole incomprensibili di Pluto “Pape Satàn, pape Satàn aleppe!” presentano una marcata ripetizione dei suoni ‘p’ e ‘s’, creando un effetto fonico inquietante che amplifica il carattere demoniaco e minaccioso del guardiano. La qualità sonora di questo verso contribuisce a trasmettere immediatamente un senso di alterità e caos, coerente con la natura infernale dell’ambientazione.

Le antitesi strutturano l’intero episodio del quarto cerchio, dove avari e prodigi rappresentano opposti comportamentali rispetto all’uso delle ricchezze. Questo contrasto è reso evidente non solo concettualmente, ma anche fisicamente attraverso il loro movimento in direzioni contrarie e le grida contrapposte “Perché tieni?” e “Perché burli?”. La disposizione simmetrica e oppositiva di questi peccatori materializza visivamente il concetto teologico di peccato come allontanamento dall’equilibrio virtuoso.

Dante impiega numerose metafore significative: la “lorda pozza” per indicare la palude Stigia sottolinea la natura impura e contaminata di questo luogo infernale; i massi spinti dai dannati simboleggiano il peso dei beni materiali che in vita hanno dominato le loro anime. Particolarmente efficace è la metafora della Fortuna come “general ministra e duce”, che trasforma un concetto astratto in figura concreta dotata di volontà e funzione nel disegno divino.

Le anafore scandiscono ritmicamente il testo, come nella ripetizione delle domande “Perché tieni?” e “Perché burli?”, creando un effetto di circolarità che rispecchia il movimento eterno e ripetitivo dei dannati. Questo artificio contribuisce a trasmettere il senso di monotonia e immutabilità della pena infernale.

L’iperbole caratterizza la descrizione della moltitudine dei dannati (“Più eran di color che da le tombe…”) enfatizzando la quantità innumerevole di anime condannate per avarizia e prodigalità. Questa esagerazione quantitativa sottolinea la diffusione di questi peccati nella società umana, rafforzando la critica morale di Dante.

Le similitudini arricchiscono il testo di immagini vivide: Pluto che cade è paragonato alle “gonfiate vele / caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca”, evocando l’immagine di una nave con l’albero spezzato. Questa similitudine nautica comunica efficacemente il crollo improvviso dell’autorità del demone di fronte alla ragione rappresentata da Virgilio.

Non mancano le onomatopee, come l’aggettivo “chioccia” riferito alla voce di Pluto, che imita il suono rauco e animale della sua parlata, degradandolo a creatura bestiale e irrazionale.

Il registro stilistico varia notevolmente all’interno del canto: solenne e dottrinale nei versi dedicati alla spiegazione della Fortuna, aspro e violento nella rappresentazione delle pene, meditativo nelle riflessioni morali. Questa variazione contribuisce alla ricchezza espressiva del testo e alla sua capacità di modulare toni diversi a seconda del contenuto trattato.

Particolarmente rilevante è il chiasmo nella descrizione del movimento dei dannati: “da ogne mano a l’opposto punto”, che riflette formalmente l’incrocio perpetuo dei due gruppi di peccatori, visualizzando geometricamente il loro eterno conflitto.

Attraverso questi artifici retorici, Dante non si limita a descrivere l’Inferno, ma lo rende percepibile ai sensi del lettore, trasformando concetti teologici astratti in esperienze concrete e memorabili, in perfetta coerenza con il suo progetto poetico di rendere visibile l’invisibile.

Temi principali del 7 canto dell’Inferno della Divina Commedia

Il canto 7 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta un punto cruciale nel viaggio dantesco attraverso i regni ultraterreni, offrendo al lettore un’esplorazione profonda di tematiche morali, teologiche e filosofiche. Al centro dell’intero canto troviamo il contrappasso, principio fondamentale della giustizia divina, che stabilisce una corrispondenza perfetta tra colpa e pena. Per gli avari e i prodighi, condannati a spingere pesi in direzioni opposte, la punizione rispecchia con precisione geometrica il loro squilibrio morale in vita: chi ha accumulato senza donare e chi ha sperperato senza misura sono ora costretti a un movimento circolare eterno e privo di scopo.

La critica all’eccesso e alla mancanza emerge con particolare forza nella rappresentazione di questi peccatori. Dante sottolinea come entrambi i comportamenti, apparentemente opposti, siano in realtà manifestazioni dello stesso vizio: un rapporto distorto con i beni materiali. L’eccesso nell’accumulare (avarizia) o nello spendere (prodigalità) rappresenta un allontanamento dalla virtù della moderazione, tema caro alla filosofia medievale che vedeva nella “giusta misura” il fondamento dell’equilibrio morale.

Particolarmente severa è la condanna della corruzione ecclesiastica legata all’avarizia. Quando Dante osserva che molti degli avari sono “cherci” (chierici), inclusi “papi e cardinali”, esprime una delle critiche più dirette alle istituzioni religiose del suo tempo. Questa denuncia si inserisce nel più ampio progetto dantesco di riforma morale della Chiesa, vista come corrotta dall’attaccamento ai beni terreni e dimentica della sua missione spirituale.

Nel quinto cerchio, la rappresentazione degli iracondi e degli accidiosi introduce un’altra dualità fondamentale: quella tra eccesso e mancanza di passione nell’anima. Gli iracondi, che manifestano la loro rabbia anche nell’aldilà combattendosi sulla superficie della palude Stigia, rappresentano lo squilibrio verso l’eccesso emotivo; gli accidiosi, sommersi e invisibili nel fango, incarnano invece l’assenza di slancio vitale e l’inerzia spirituale. Questa doppia manifestazione del disordine interiore riflette la concezione medievale dell’equilibrio come virtù essenziale dell’anima.

Un tema di straordinaria importanza filosofica è quello del rapporto tra Fortuna e Provvidenza divina. Attraverso le parole di Virgilio, Dante presenta una visione rivoluzionaria della Fortuna: non più dea capricciosa e cieca, ma intelligenza angelica al servizio di Dio, incaricata di redistribuire i beni terreni secondo un disegno provvidenziale che sfugge alla comprensione umana. Questa conciliazione tra caso apparente e ordine divino rappresenta una sintesi originale tra la tradizione classica e la teologia cristiana, risolvendo la tensione tra libertà umana e predestinazione in una visione armonica dell’universo governato da Dio.

La riflessione sul rapporto tra l’uomo, i beni materiali e la giustizia ultraterrena attraversa l’intero canto. Dante suggerisce che l’attaccamento ossessivo alle ricchezze, sia per accumularle che per sperperarle, distorce la natura umana e impedisce il corretto orientamento verso il bene spirituale. La vanità dei beni terreni è sottolineata dalla loro transitorietà, simboleggiata dal movimento della ruota della Fortuna che innalza e abbassa continuamente le sorti umane.

Infine, il canto si inserisce nel più ampio processo di purificazione e discesa verso la conoscenza che caratterizza il viaggio di Dante. L’incontro con i peccatori e la comprensione della natura delle loro colpe rappresenta per il protagonista un passo fondamentale verso la consapevolezza morale e l’illuminazione spirituale. La discesa fisica nell’abisso infernale diventa così metafora della discesa interiore necessaria per riconoscere e superare le proprie inclinazioni al peccato, in vista dell’ascesa purificatrice che condurrà, nei cantici successivi, alla salvezza.

Il Canto 7 dell’Inferno in pillole

AspettoDescrizione sintetica
AmbientazioneQuarto cerchio (avari e prodighi), quinto cerchio (palude Stigia con iracondi e accidiosi)
Personaggi principaliDante, Virgilio, Pluto, avari, prodighi, iracondi, accidiosi, Fortuna
Pena/ContrappassoAvari e prodighi spingono massi in direzioni opposte; iracondi combattono nel fango; accidiosi sommersi
Messaggio moraleCondanna dell’uso squilibrato delle ricchezze e dei peccati dell’animo (eccesso e assenza di passione)
Figure retoriche chiaveAllitterazioni (“Pape Satàn”), antitesi (avari/prodighi), metafore (“lorda pozza”), anafore, iperbole
Temi principaliContrappasso, Fortuna come ministra divina, critica alla cupidigia ecclesiastica, equilibrio morale
Linguaggio e stileAlternanza tra toni solenni nelle spiegazioni dottrinali e aspri nella rappresentazione delle pene
Impatto narrativoAccelerazione nella discesa infernale con transizione tra due cerchi all’interno dello stesso canto
Funzione nel poemaCompleta l’esplorazione dei peccati d’incontinenza prima dei peccati di violenza e frode
Citazione emblematicaColui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce” (sulla Fortuna come volere divino)

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