Il Canto 8 dell’Inferno della Divina Commedia segna l’ingresso di Dante nella città di Dite, dopo l’attraversamento della palude Stigia, e introduce elementi narrativi e simbolici di straordinaria rilevanza per la comprensione dell’intera opera. Il Canto VIII funge da cerniera tra l’Inferno superiore, dove sono puniti i peccati di incontinenza, e l’Inferno inferiore, dove trovano la loro dannazione i peccati di malizia, più gravi e premeditati.
Indice:
- Canto 8 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 8 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 8 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 8 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 8 dell’Inferno della Divina Commedia
- Temi principali dell’8 canto dell’Inferno della Divina Commedia
- Il Canto 8 dell’Inferno in pillole
Canto 8 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
Testo originale | Parafrasi |
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Io dico, seguitando, ch’assai prima | Io continuo il racconto dicendo che molto prima |
che noi fossimo al piè de l’alta torre, | che noi giungessimo ai piedi dell’alta torre, |
li occhi nostri n’andar suso a la cima | i nostri occhi si diressero verso la sua cima |
per due fiammette che i vedemmo porre, | a causa di due piccole fiamme che vedemmo collocare lassù, |
e un’altra da lungi render cenno, | e un’altra fiamma da lontano rispondere al segnale, |
tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre. | tanto che l’occhio a stento poteva distinguerla. |
E io mi volsi al mar di tutto ‘l senno; | E io mi rivolsi a Virgilio, mare di ogni sapienza; |
dissi: “Questo che dice? e che risponde | dissi: “Cosa significa questo segnale? E cosa risponde |
quell’altro foco? e chi son quei che ‘l fenno?”. | quell’altro fuoco? E chi sono coloro che hanno acceso i fuochi?”. |
Ed elli a me: “Su per le sucide onde | Ed egli rispose: “Sulle sporche acque |
già scorgere puoi quello che s’aspetta, | già puoi scorgere ciò che stiamo aspettando, |
se ‘l fummo del pantan nol ti nasconde”. | se il fumo della palude non te lo nasconde”. |
Corda non pinse mai da sé saetta | Corda d’arco non spinse mai una freccia |
che sì corresse via per l’aere snella, | che volasse via così velocemente attraverso l’aria, |
com’io vidi una nave piccioletta | come io vidi una piccola imbarcazione |
venir per l’acqua verso noi in quella, | venire verso di noi in quel momento sull’acqua, |
sotto ‘l governo d’un sol galeoto, | guidata da un solo nocchiero, |
che gridava: “Or se’ giunta, anima fella!”. | che gridava: “Ora sei arrivata, anima malvagia!”. |
“Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto”, | “Flegias, Flegias, tu gridi invano”, |
disse lo mio segnore, “a questa volta: | disse il mio signore (Virgilio), “questa volta: |
più non ci avrai che sol passando il loto”. | ci avrai con te solo per attraversare il fango”. |
Qual è colui che grande inganno ascolta | Come colui che ascolta di essere stato gravemente ingannato |
che li sia fatto, e poi se ne rammarca, | e poi se ne rammarica, |
fecesi Flegiàs ne l’ira accolta. | così si fece Flegias nella rabbia trattenuta. |
Lo duca mio discese ne la barca, | La mia guida (Virgilio) scese nella barca, |
e poi mi fece intrare appresso lui; | e poi mi fece entrare accanto a lui; |
e sol quand’io fui dentro parve carca. | e solo quando io fui dentro sembrò carica. |
Tosto che ‘l duca e io nel legno fui, | Non appena la mia guida ed io fummo nell’imbarcazione, |
segando se ne va l’antica prora | l’antica prua se ne va tagliando (l’acqua) |
de l’acqua più che non suol con altrui. | dell’acqua più profondamente di quanto non faccia solitamente con altri passeggeri. |
Mentre noi corravam la morta gora, | Mentre noi attraversavamo la palude morta, |
dinanzi mi si fece un pien di fango, | mi si parò davanti uno tutto coperto di fango, |
e disse: “Chi se’ tu che vieni anzi ora?”. | e disse: “Chi sei tu che vieni prima del tempo stabilito?”. |
E io a lui: “S’i’ vegno, non rimango; | E io a lui: “Se vengo, non rimango; |
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?”. | ma tu chi sei, che ti sei ridotto così sporco?”. |
Rispuose: “Vedi che son un che piango”. | Rispose: “Vedi che sono uno che piange”. |
E io a lui: “Con piangere e con lutto, | E io a lui: “Resta pure con il pianto e con il dolore, |
spirito maladetto, ti rimani; | spirito maledetto, rimani dove sei; |
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto”. | perché ti riconosco, anche se sei tutto sporco”. |
Allor distese al legno ambo le mani; | Allora tese entrambe le mani verso la barca; |
per che ‘l maestro accorto lo sospinse, | per cui il maestro prontamente lo respinse, |
dicendo: “Via costà con li altri cani!”. | dicendo: “Via di là con gli altri cani!”. |
Lo collo poi con le braccia mi cinse; | Poi mi cinse il collo con le braccia; |
basciommi ‘l volto e disse: “Alma sdegnosa, | mi baciò il volto e disse: “Anima sdegnosa, |
benedetta colei che ‘n te s’incinse! | benedetta colei che ti portò in grembo! |
Quei fu al mondo persona orgogliosa; | Costui fu al mondo una persona orgogliosa; |
bontà non è che sua memoria fregi: | non c’è nessuna virtù che adorni la sua memoria: |
così s’è l’ombra sua qui furiosa. | per questo la sua ombra qui è piena di rabbia. |
Quanti si tegnon or là sù gran regi | Quanti si considerano lassù nel mondo grandi sovrani |
che qui staranno come porci in brago, | che qui staranno come maiali nel fango, |
di sé lasciando orribili dispregi!”. | lasciando dietro di sé terribili ricordi di disprezzo!”. |
E io: “Maestro, molto sarei vago | E io: “Maestro, sarei molto desideroso |
di vederlo attuffare in questa broda | di vederlo immergere in questo brodo |
prima che noi uscissimo del lago”. | prima che noi uscissimo dalla palude”. |
Ed elli a me: “Avante che la proda | Ed egli a me: “Prima che la riva |
ti si lasci veder, tu sarai sazio: | ti si lasci vedere, tu sarai soddisfatto: |
di tal disio convien che tu goda”. | è giusto che tu goda di questo desiderio”. |
Dopo ciò poco vid’io quello strazio | Poco dopo vidi quel massacro |
far di costui a le fangose genti, | che fecero di costui le genti fangose, |
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. | che ancora ne lodo e ne ringrazio Dio. |
Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”; | Tutti gridavano: “Addosso a Filippo Argenti!”; |
e ‘l fiorentino spirito bizzarro | e lo spirito fiorentino irascibile |
in sé medesmo si volvea co’ denti. | si mordeva con i propri denti. |
Quivi il lasciammo, che più non ne narro; | Qui lo lasciammo, e non ne racconto più; |
ma ne l’orecchie mi percosse un duolo, | ma nelle orecchie mi colpì un lamento, |
per ch’io avante l’occhio intento sbarro. | per cui spalancai gli occhi attenti davanti a me. |
Lo buon maestro disse: “Omai, figliuolo, | Il buon maestro disse: “Ormai, figliolo, |
s’appressa la città c’ha nome Dite, | si avvicina la città che ha nome Dite, |
coi gravi cittadin, col grande stuolo”. | con i suoi dannati cittadini, con la grande folla”. |
E io: “Maestro, già le sue meschite | E io: “Maestro, già le sue moschee (torri) |
là entro certe ne la valle cerno, | laggiù dentro distinguo chiaramente nella valle, |
vermiglie come se di foco uscite | rosse come se fossero uscite dal fuoco |
fossero”. Ed ei mi disse: “Il foco etterno | fossero”. Ed egli mi disse: “Il fuoco eterno |
ch’entro l’affoca le dimostra rosse, | che le infiamma all’interno le fa apparire rosse, |
come tu vedi in questo basso inferno”. | come tu vedi in questa parte più profonda dell’inferno”. |
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse | Noi finalmente giungemmo dentro le alte fosse |
che vallan quella terra sconsolata: | che circondano quella città desolata: |
le mura mi parean che ferro fosse. | le mura mi sembravano di ferro. |
Non sanza prima far grande aggirata, | Non senza prima fare un lungo giro, |
venimmo in parte dove il nocchier forte | arrivammo in un punto dove il nocchiero con voce forte |
“Usciteci”, gridò: “qui è l’intrata”. | “Scendete”, gridò: “qui è l’entrata”. |
Io vidi più di mille in su le porte | Io vidi più di mille (diavoli) sopra le porte |
da ciel piovuti, che stizzosamente | caduti dal cielo, che con rabbia |
dicean: “Chi è costui che sanza morte | dicevano: “Chi è costui che senza essere morto |
va per lo regno de la morta gente?”. | va per il regno della gente morta?”. |
E ‘l savio mio maestro fece segno | E il mio saggio maestro fece segno |
di voler lor parlar segretamente. | di voler parlare con loro in privato. |
Allor chiusero un poco il gran disdegno, | Allora moderarono un po’ il grande sdegno, |
e disser: “Vien tu solo, e quei sen vada, | e dissero: “Vieni tu solo, e quello se ne vada, |
che sì ardito intrò per questo regno. | che così arditamente è entrato in questo regno. |
Sol si ritorni per la folle strada: | Torni indietro da solo per la folle strada: |
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai | provi, se è capace; perché tu qui rimarrai |
che li ha’ iscorta sì buia contrada”. | che gli hai fatto da guida in questa buia contrada”. |
Pensa, lettor, se io mi sconfortai | Pensa, o lettore, se io mi scoraggiai |
nel suon de le parole maladette, | nel suono di quelle parole maledette, |
ché non credetti ritornarci mai. | perché non credetti di poter mai tornare indietro. |
“O caro duca mio, che più di sette | “O caro mio duca (guida), che più di sette |
volte m’hai sicurtà renduta e tratto | volte mi hai rassicurato e tratto |
d’alto periglio che ‘ncontra mi stette, | da grave pericolo che mi si parò davanti, |
non mi lasciar”, diss’io, “così disfatto; | non mi lasciare”, dissi, “così abbandonato; |
e se ‘l pasar più oltre ci è negato, | e se il procedere oltre ci è negato, |
ritroviam l’orme nostre insieme ratto”. | ritroviamo rapidamente insieme le nostre orme”. |
E quel segnor che lì m’avea menato, | E quella guida che mi aveva condotto fin lì, |
mi disse: “Non temer; ché ‘l nostro passo | mi disse: “Non temere; perché il nostro cammino |
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato. | non ci può essere impedito da nessuno: ci è stato concesso da qualcuno così potente. |
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso | Ma aspettami qui, e conforta |
conforta e ciba di speranza buona, | e nutri di buona speranza il tuo spirito stanco, |
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso”. | perché io non ti lascerò nel mondo infernale”. |
Canto 8 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il Canto ottavo dell’Inferno si apre con la famosa formula “Io dico, seguitando”, espressione che ha fatto ipotizzare agli studiosi una possibile interruzione nella composizione dell’opera. Dante e Virgilio si trovano sulla riva della palude Stigia, dove notano delle fiammelle che brillano in cima a un’alta torre, segnali che annunciano il loro arrivo e provocano l’immediata reazione di Flegiàs, il nocchiero infernale.
Flegiàs giunge rapidamente con la sua imbarcazione, gridando con rabbia: “Or se’ giunta, anima fella!”, scambiando Dante per un’anima dannata. Virgilio lo corregge prontamente, spiegandogli che il loro passaggio è voluto dal cielo e che dovranno soltanto attraversare la palude. Inizia così la prima delle tre sequenze narrative che compongono il canto: la traversata dello Stige.
Durante il tragitto avviene l’episodio centrale del canto: l’incontro con Filippo Argenti. Dal fango emerge un dannato che si rivolge a Dante chiedendogli chi sia e perché giunga in quel luogo prima della morte. La risposta del poeta è aspra e immediata: “S’i’ vegno, non rimango; ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?”. Quando Dante riconosce in quella figura fangosa Filippo Argenti, membro della famiglia Adimari e suo nemico politico a Firenze, mostra verso di lui un’inusuale durezza.
L’episodio rappresenta uno dei rari momenti in cui Dante manifesta soddisfazione per la punizione di un dannato: “Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda”. Quando Argenti tenta di aggrapparsi alla barca, Virgilio lo respinge con violenza dicendo: “Via costà con li altri cani!”. La scena si conclude con le altre anime che si avventano contro Argenti, realizzando il desiderio di Dante e completando il contrappasso.
La seconda parte del canto inizia con l’avvistamento della città di Dite. Dante nota delle strutture che definisce “meschite” (moschee), rosseggianti come se fossero arroventate dal fuoco. Virgilio spiega che il colore vermiglio è dovuto al fuoco eterno che le incendia dall’interno.
La terza sequenza narrativa vede Dante e Virgilio giungere alle porte della città infernale, dove incontrano l’opposizione di “più di mille” demoni, ostacolando il loro ingresso. Virgilio tenta di dialogare, ma viene respinto, lasciando i pellegrini bloccati alle porte di Dite.
Canto 8 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
Filippo Argenti
Protagonista dell’episodio più drammatico del canto, Filippo Argenti rappresenta l’incarnazione dell’ira incontrollata. Appartenente alla nobile famiglia fiorentina degli Adimari, era un uomo noto per la sua impetuosità e arroganza. Il soprannome “Argenti” gli derivava dall’abitudine di ferrare il suo cavallo con argento, ostentazione che rifletteva la sua vanità e superbia.
La storia personale tra Dante e Filippo era segnata da profonda ostilità: gli Adimari erano avversari politici di Dante e, secondo alcune fonti storiche come il Boccaccio, durante l’esilio del poeta avrebbero occupato parte dei suoi beni. Questo spiegherebbe l’insolita durezza con cui Dante tratta questo dannato, in contrasto con la compassione mostrata verso altri peccatori.
Nel canto, Filippo emerge dal fango della palude Stigia tentando di afferrare la barca. La reazione di Dante è sorprendentemente aspra: “Con piangere e con lutto, / spirito maledetto, ti rimani” (vv. 37-38). Questo atteggiamento riceve l’approvazione di Virgilio, che abbraccia e loda il suo discepolo per lo sdegno manifestato.
Flegiàs
Flegiàs è il custode e traghettatore della palude Stigia. La sua figura deriva dalla mitologia classica, dove era un re dei Lapiti che, per vendicare l’oltraggio subito dalla figlia Coronide, incendiò il tempio di Apollo a Delfi. Dante lo reinterpreta come demone infernale, mantenendone la natura iraconda ma assegnandogli un ruolo funzionale alla struttura del viaggio.
Il suo arrivo è descritto con una similitudine che ne evidenzia l’impetuosità: giunge “più avaccio / che saetta non corre al segno” (vv. 13-14). Il suo grido iniziale “Or se’ giunta, anima fella!” (v. 18) rivela come egli scambi Dante per un’anima dannata, mostrando l’automatismo della punizione infernale.
Come tutti i custodi infernali, Flegiàs deve piegarsi alla volontà divina quando Virgilio pronuncia la formula rituale “Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole” (vv. 22-23). Questo sottomettersi rappresenta la subordinazione di ogni potere infernale all’ordine divino.
Dante personaggio
In questo canto, il Dante personaggio mostra un’evoluzione significativa. Se nei cerchi precedenti aveva spesso manifestato pietà verso i dannati, qui rivela un atteggiamento nuovo, quasi feroce, verso Filippo Argenti. Questo cambiamento segnala una maturazione del pellegrino nel suo percorso di comprensione della giustizia divina: l’indignazione verso il male diventa parte del processo di purificazione.
Quando Virgilio lo abbraccia e lo definisce “anima sdegnosa” (v. 44), conferma la legittimità di questa reazione. Il contrasto tra l’atteggiamento compassionevole mostrato verso altri dannati e la durezza verso Filippo Argenti riflette la complessità del giudizio morale dantesco: la pietà è virtù solo quando non compromette il riconoscimento del male.
Virgilio
Il ruolo di Virgilio in questo canto è particolarmente significativo. Egli passa dall’essere guida sicura e autorevole a mostrare i primi segni di limite. Dopo aver affrontato con successo Flegiàs, trova opposizione insormontabile davanti alle mura di Dite, dove i demoni gli chiudono le porte in faccia.
Il ritorno di Virgilio da Dante con il “viso ingiù” (v. 118) segna un momento cruciale: la ragione umana (rappresentata da Virgilio) si rivela insufficiente di fronte alle forme più gravi di male. Pur cercando di rassicurare il discepolo, il maestro lascia trasparire la necessità di un aiuto superiore, anticipando l’intervento del “messo del cielo” che giungerà nel canto successivo.
Questa limitazione di Virgilio prepara uno dei temi fondamentali dell’intera Commedia: la necessità della grazia divina per completare il percorso di salvezza, che la sola ragione umana non può garantire.
Analisi del Canto 8 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
Il Canto 8 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta un nodo cruciale nell’architettura dell’Inferno dantesco, segnando una transizione fondamentale sia sul piano narrativo che su quello simbolico. L’episodio è costruito su una progressiva intensificazione drammatica che culmina nell’opposizione dei demoni alle porte della città di Dite.
Il tema del passaggio si manifesta a più livelli. Innanzitutto, sul piano strutturale, avviene il transito dal cosiddetto Alto Inferno (cerchi I-V) al Basso Inferno (cerchi VI-IX), dove sono puniti peccati progressivamente più gravi. Questa demarcazione non è solo geografica ma teologica: si passa dai peccati d’incontinenza (eccessi di impulsi naturali) ai peccati di malizia (perversione deliberata dell’intelletto). L’architettura infernale rispecchia la classificazione aristotelico-tomistica dei vizi, evidenziando la crescente gravità morale delle colpe.
Particolarmente significativo è l’elemento dell’ostacolo che emerge per la prima volta nel viaggio dantesco. Se nei canti precedenti i viaggiatori avevano proceduto senza impedimenti sostanziali, qui incontrano una resistenza attiva: i demoni che chiudono le porte in faccia a Virgilio. Questo evento narrativo introduce una fondamentale tensione drammatica che esalta il senso del percorso spirituale come conquista faticosa.
La rappresentazione dell’impotenza temporanea di Virgilio è straordinariamente efficace sul piano allegorico. La ragione umana, rappresentata dalla guida, mostra per la prima volta i suoi limiti di fronte alle forze del male più profondo. Virgilio torna “con passi lenti” e con “li occhi a la terra e le ciglia avea rase d’ogne baldanza”, in un’immagine di temporanea sconfitta che risulta tanto più drammatica quanto più contrasta con la sua consueta sicurezza. Dante costruisce qui un momento di suspense narrativa che si risolverà solo nel canto successivo con l’intervento del messo celeste.
L’episodio di Filippo Argenti costituisce un altro elemento narrativo fondamentale. La durezza mostrata da Dante verso questo dannato (“Con piangere e con lutto, spirito maledetto, ti rimani”) rappresenta un’evoluzione del personaggio-pellegrino, che apprende a distinguere tra compassione e giusta condanna. L’approvazione di Virgilio (“Alma sdegnosa, benedetta colei che ‘n te s’incinse!”) sottolinea come questo atteggiamento faccia parte del percorso educativo del viaggio.
Il contrappasso si manifesta con particolare evidenza: gli iracondi che in vita si lasciarono trasportare dalla collera, continuano a combattersi e a dilaniarsi a vicenda nel fango della palude Stigia. L’ira che offuscava la mente è simboleggiata dal nero pantano che impedisce una visione chiara, mentre la violenza reciproca perpetua il ciclo autodistruttivo del peccato.
Significativa è anche la funzione di soglia rappresentata dalle mura di Dite, descritte come “vermiglie come se di foco uscite fossero”. Il colore rosso evoca il sangue e il fuoco, simboli della violenza e dell’odio che caratterizzano i peccati puniti nei cerchi inferiori. Questa barriera cromatica e simbolica segnala al lettore il passaggio a una dimensione più grave del male.
La struttura circolare del canto, che si apre con i segnali luminosi tra le torri e si chiude con l’attesa di un segnale divino, crea un’efficace cornice narrativa che accentua il tema della comunicazione tra mondi diversi. La formula iniziale “Io dico, seguitando” suggerisce una consapevole pausa narrativa, come se Dante autore volesse sottolineare l’importanza strutturale di questo punto della narrazione.
Nella progressione spirituale del pellegrino, questo canto rappresenta un momento di prova in cui la fiducia nella guida e nel disegno provvidenziale viene messa in discussione. La tensione tra abbattimento e speranza che Dante-personaggio sperimenta preannuncia le future difficoltà del percorso, ma anche la necessità di un supporto superiore alla sola ragione umana per superare gli ostacoli del cammino verso la redenzione.
Figure retoriche nel Canto 8 dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 8 dell’Inferno della Divina Commedia si distingue per la sua ricchezza stilistica e l’uso magistrale di figure retoriche che potenziano l’impatto emotivo della narrazione e ne amplificano il significato allegorico.
Le similitudini sono tra le figure retoriche più efficaci utilizzate da Dante in questo canto. Particolarmente significativa è quella ai versi 13-15, dove i segnali luminosi tra le torri infernali vengono paragonati a un sistema di comunicazione tra torri distanti: “come i’ vidi un foco ch’i’ segno / fendeasi, e facea a quel rispondere / l’altro che diede voce per lo regno“. Questa similitudine non è meramente descrittiva ma enfatizza l’organizzazione dell’Inferno come regno strutturato e gerarchico.
Notevoli sono anche le metafore che permeano il testo. Le mura “vermiglie” di Dite che appaiono “come se di foco uscite / fossero” (vv. 72-73) rappresentano metaforicamente l’intensificarsi delle punizioni nei cerchi inferiori. Il linguaggio stesso diventa metafora quando Dante si rivolge a Filippo Argenti, trasformando le parole in armi che feriscono il dannato.
L’uso sapiente dell’allitterazione si manifesta in espressioni come “Con piangere e con lutto” (v. 37), dove la ripetizione del suono “c” accentua il tono di condanna e sofferenza. Analogamente, le sonorità aspre in “spirito maledetto, ti rimani” (v. 38) rafforzano il disprezzo di Dante verso l’anima dannata.
Particolarmente efficaci sono le antitesi strutturali, come il contrasto tra la calma apparente di Virgilio e il suo turbamento interiore nei versi finali, o l’opposizione tra la compassione mostrata da Dante verso altri dannati e la durezza riservata a Filippo Argenti. Questa tensione dialettica riflette la complessità morale del viaggio dantesco.
L’iperbole è impiegata strategicamente per enfatizzare la gravità degli ostacoli: “più di mille” (v. 82) demoni che si oppongono all’ingresso dei poeti nella città di Dite, sottolineando la minaccia crescente e la progressiva difficoltà del cammino spirituale.
Non mancano esempi di sinestesia, come nell’espressione “aura nera” (v. 16), che fonde percezione visiva e tattile per rendere l’atmosfera opprimente della palude Stigia. Questa figura trasmette efficacemente la natura multisensoriale dell’esperienza infernale.
Il linguaggio figurato raggiunge la massima intensità nell’incontro con Filippo Argenti, dove Dante utilizza un registro sprezzante e violento: “Via costà con gli altri cani!” (v. 42). L’animalizzazione dell’avversario attraverso la metafora canina evidenzia la degradazione morale del dannato e giustifica la severità del giudizio divino.
Queste figure retoriche non sono mere decorazioni stilistiche, ma strumenti essenziali attraverso cui Dante trasmette la complessità teologica e morale del suo universo poetico, rendendo tangibile l’orrore dell’Inferno e illuminando il cammino di redenzione spirituale.
Temi principali dell’8 canto dell’Inferno della Divina Commedia
I temi cardine includono l’ira in tutte le sue manifestazioni, il contrappasso come giustizia divina, il passaggio dai peccati meno gravi a quelli più deliberati e il confronto tra la ragione umana e l’intervento divino. La città di Dite emerge come simbolo dell’ordine del male, mentre il blocco alla sua porta anticipa il futuro intervento soprannaturale.
Il contrappasso emerge come principio cardine di giustizia divina, manifestandosi con particolare evidenza nella punizione degli iracondi. Questi, che in vita si lasciarono accecare dalla rabbia, ora combattono eternamente immersi in una palude fangosa che offusca la vista e impedisce movimenti fluidi, riflettendo perfettamente l’annebbiamento della ragione causato dall’ira terrena. La divisione tra iracondi in superficie e accidiosi sommersi sottolinea inoltre la complementarità di questi peccati: l’eccesso di passione da un lato, la sua totale assenza dall’altro.
Altrettanto centrale è il tema della progressione spirituale, simboleggiato dal passaggio fisico dalla palude Stigia alle mura di Dite. Questo varco rappresenta un confine non solo geografico ma morale: l’ingresso nell’Inferno inferiore segna il passaggio dai peccati di incontinenza (eccessi delle passioni naturali) ai più gravi peccati di malizia (perversione volontaria dell’intelletto). Il rifiuto dei demoni di aprire le porte di Dite simboleggia la resistenza che il male oppone al cammino di redenzione.
Il tema della giustizia emerge prepotente nell’incontro con Filippo Argenti, dove Dante abbandona la compassione mostrata verso altri dannati per esprimere sdegno e approvazione della punizione inflitta. Questa apparente contraddizione rivela una concezione complessa della giustizia divina, che richiede talvolta il riconoscimento della necessità della pena.
La fragilità della ragione umana si manifesta nel momentaneo disorientamento di Virgilio di fronte alla resistenza dei demoni. L’insufficienza della sola ragione (rappresentata da Virgilio) anticipa la necessità di un intervento divino per superare gli ostacoli più insidiosi, tema che percorrerà l’intera opera.
Il simbolismo della palude Stigia evoca l’oscurità morale generata dall’ira, mentre le mura rosse di Dite preannunciano la violenza dei cerchi successivi. Questi elementi cromatici (nero e rosso) scandiscono visivamente la progressione del viaggio e l’aggravarsi delle colpe punite.
Infine, il canto 8 dell’Inferno della Divina Commedia introduce il tema del conflitto tra fedeltà politica e giustizia divina. Dante, esiliato ingiustamente dalla sua Firenze, trova una sorta di risarcimento morale nell’approvazione che Virgilio esprime per il suo atteggiamento verso Filippo Argenti, rappresentante di quella nobiltà corrotta che aveva contribuito alla rovina della città.
Il Canto 8 dell’Inferno in pillole
Aspetto | Dettaglio |
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Collocazione | Quinto cerchio dell’Inferno, palude Stigia e ingresso alla città di Dite |
Peccatori puniti | Iracondi e accidiosi immersi nel fango della palude Stigia |
Personaggi principali | • Flegias: nocchiero della palude, simbolo dell’ira punita • Filippo Argenti: fiorentino iracondo, nemico politico di Dante • Demoni alle porte di Dite: rappresentanti della malizia organizzata |
Evento narrativo | Traversata della palude Stigia, incontro con Filippo Argenti, rifiuto dei demoni di far entrare i pellegrini a Dite |
Struttura narrativa | Tripartita: traversata dello Stige, scontro con Filippo Argenti, opposizione dei demoni |
Temi fondamentali | • Transizione dall’Inferno superiore (incontinenza) all’Inferno inferiore (malizia) • Ira come peccato capitale • Limiti della ragione umana (impotenza di Virgilio) • Necessità dell’intervento divino per la salvezza |
Figure retoriche | • Metafore: “meschite” per le torri di Dite • Similitudini: torri “vermiglie come se di foco uscite” • Antitesi: oscurità/fuoco, sicurezza/pericolo • Allitterazioni: “morta gora”, “foco etterno” |
Versi celebri | • “Io dico, seguitando, ch’assai prima” (v. 1) • “Chi se’ tu che vieni anzi ora?” (v. 33) • “Via costà con li altri cani!” (v. 42) |
Conclusione | Finale aperto con i pellegrini bloccati alle porte di Dite, creando suspense narrativa e collegamento al Canto IX |