Il Canto 9 dell’Inferno della Divina Commedia è situato nella prima cantica della Divina Commedia, questo canto segna un punto cruciale nel percorso del poeta: l’ingresso nella città di Dite, che contiene i peccatori di malizia. Il canto si distingue per la sua atmosfera di tensione e per l’introduzione di figure mitologiche che arricchiscono il tessuto allegorico dell’opera.
Indice :
- Canto 9 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 9 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 9 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 9 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 9 dell’Inferno della Divina Commedia
- Temi principali del 9 canto della Inferno della Divina Commedia
- Il Canto 9 dell’Inferno in pillole
Canto 9 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
Testo Originale | Parafrasi |
---|---|
Quel color che viltà di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, più tosto dentro il suo novo ristrinse. | Quel pallore che la paura mi dipinse sul volto, vedendo la mia guida tornare indietro, fece reprimere più rapidamente il suo nuovo timore. |
Attento si fermò com’uom ch’ascolta; ché l’occhio nol potea menare a lunga per l’aere nero e per la nebbia folta. | Si fermò attento come chi ascolta, perché l’occhio non poteva spingersi lontano attraverso l’aria buia e la fitta nebbia. |
«Pur a noi converrà vincer la punga», cominciò el, «se non… Tal ne s’offerse. Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!». | «Dovremo pur vincere questa battaglia», cominciò, «altrimenti… Tale aiuto ci è stato offerto. Oh quanto mi sembra lungo il tempo prima che arrivi qui qualcuno!». |
I’ vidi ben sì com’ei ricoperse lo cominciar con l’altro che poi venne, che fur parole a le prime diverse; | Io compresi bene come egli mascherò l’inizio del discorso con ciò che disse dopo, che furono parole diverse dalle prime; |
ma nondimen paura il suo dir dienne, perch’io traeva la parola tronca forse a peggior sentenzia che non tenne. | ma nonostante ciò le sue parole mi fecero paura, perché io interpretavo quella frase interrotta forse con un significato peggiore di quello che aveva. |
«In questo fondo de la trista conca discende mai alcun del primo grado, che sol per pena ha la speranza cionca?». | «In questo fondo del triste imbuto infernale scende mai qualcuno dal primo cerchio del Limbo, che ha come unica pena la mancanza di speranza?». |
Questa question fec’io; e quei «Di rado incontra», mi rispuose, «che di noi faccia il cammino alcun per qual io vado. | Questa domanda feci io; e quegli «Di rado accade», mi rispose, «che qualcuno di noi percorra la strada per cui io vado. |
Ver è ch’altra fiata qua giù fui, congiurato da quella Eritón cruda che richiamava l’ombre a’ corpi sui. | È vero che un’altra volta fui quaggiù, evocato da quella spietata maga Eritone che richiamava le anime nei loro corpi. |
Di poco era di me la carne nuda, ch’ella mi fece intrar dentr’a quel muro, per trarne un spirto del cerchio di Giuda. | Da poco tempo ero morto, quando ella mi fece entrare dentro le mura di Dite, per prelevare uno spirito dal cerchio di Giuda. |
Quell’è ‘l più basso loco e ‘l più oscuro, e ‘l più lontan dal ciel che tutto gira: ben so ‘l cammin; però ti fa sicuro. | Quello è il luogo più basso e più oscuro, e il più lontano dal cielo che tutto circonda: conosco bene la strada; perciò stai tranquillo. |
Questa palude che ‘l gran puzzo spira cigne dintorno la città dolente, u’ non potemo intrare omai sanz’ira». | Questa palude che emana il gran fetore circonda la città dolorosa, dove non possiamo entrare ormai senza contrasto». |
E altro disse, ma non l’ho a mente; però che l’occhio m’avea tutto tratto ver l’alta torre a la cima rovente, | E disse altro, ma non lo ricordo; perché il mio sguardo era completamente attratto verso l’alta torre dalla cima ardente, |
dove in un punto furon dritte ratto tre furïe infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto, | dove in un punto apparvero improvvisamente ritte tre furie infernali macchiate di sangue, che avevano membra e atteggiamento femminile, |
e con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte. | ed erano cinte da idre verdissime; avevano per capelli piccoli serpenti e ceraste, con cui le loro tempie selvagge erano avvolte. |
E quei, che ben conobbe le meschine de la regina de l’etterno pianto, «Guarda», mi disse, «le feroci Erine. | E Virgilio, che ben riconobbe le ancelle della regina dell’eterno pianto (Proserpina), «Guarda», mi disse, «le feroci Erinni. |
Quest’è Megera dal sinistro canto; quella che piange dal destro è Aletto; Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto. | Questa è Megera dal lato sinistro; quella che piange dal lato destro è Aletto; Tisifone è nel mezzo»; e tacque a questo punto. |
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto; battiensi a palme e gridavan sì alto, ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto. | Ciascuna si lacerava il petto con le unghie; si battevano le mani e gridavano così forte, che io mi strinsi al poeta per timore. |
«Vegna Medusa: sì ‘l farem di smalto», dicevan tutte riguardando in giuso; «mal non vengiammo in Tesëo l’assalto». | «Venga Medusa: così lo impietreremo», dicevano tutte guardando verso il basso; «vendicammo male l’oltraggio di Teseo». |
«Volgiti ‘n dietro e tien lo viso chiuso; ché se ‘l Gorgón si mostra e tu ‘l vedessi, nulla sarebbe di tornar mai suso». | «Volgiti indietro e tieni gli occhi chiusi; perché se la Gorgone si mostrasse e tu la vedessi, non ci sarebbe più alcuna possibilità di ritornare in superficie». |
Così disse ‘l maestro; ed elli stessi mi volse, e non si tenne a le mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi. | Così disse la mia guida; ed egli stesso mi volse, e non si fidò delle mie mani, e con le sue mi coprì gli occhi. |
O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani. | O voi che avete l’intelletto sano, osservate l’insegnamento che si nasconde sotto il velo dei versi enigmatici. |
E già venìa su per le torbide onde un fracasso d’un suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde, | E già veniva su per le acque fangose un fragore di un suono, pieno di terrore, per cui tremavano entrambe le sponde, |
non altrimenti fatto che d’un vento impetüoso per li avversi ardori, che fier la selva e sanz’alcun rattento | non diversamente da un vento impetuoso causato dai contrasti di temperature, che colpisce la foresta e senza alcun ostacolo |
li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggir le fiere e li pastori. | spezza i rami, li abbatte e li porta via; avanza superbo preceduto dalla polvere, e fa fuggire gli animali selvatici e i pastori. |
Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica per indi ove quel fummo è più acerbo». | Mi liberò gli occhi e disse: «Ora dirigi la forza dello sguardo su quella antica schiuma, là dove quel vapore è più denso». |
Come le rane innanzi a la nimica biscia per l’acqua si dileguan tutte, fin ch’a la terra ciascuna s’abbica, | Come le rane davanti al serpente nemico si dileguano tutte nell’acqua, finché ciascuna si raggomitola a terra, |
vid’io più di mille anime distrutte fuggir così dinanzi ad un ch’al passo passava Stige con le piante asciutte. | vidi io più di mille anime dannate fuggire così davanti a uno che al passo attraversava lo Stige con i piedi asciutti. |
Dal volto rimovea quell’aere grasso, menando la sinistra innanzi spesso; e sol di quell’angoscia parea lasso. | Allontanava dal volto quell’aria densa, muovendo spesso la mano sinistra davanti; e sembrava affaticato solo per quel fastidio. |
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei fé segno ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso. | Ben mi accorsi che era un messaggero del cielo, e mi volsi al maestro; e questi mi fece segno che stessi calmo e mi inchinassi davanti a lui. |
Ahi quanto mi parea pien di disdegno! Venne a la porta e con una verghetta l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno. | Ah quanto mi sembrava pieno di sdegno! Giunse alla porta e con una piccola verga l’aprì, che non vi fu alcuna resistenza. |
«O cacciati del ciel, gente dispetta», cominciò elli in su l’orribil soglia, «ond’esta oltracotanza in voi s’alletta? | «O scacciati dal cielo, gente disprezzata», cominciò egli sulla terribile soglia, «da dove viene questa tracotanza che si annida in voi? |
Perché recalcitrate a quella voglia a cui non puote il fin mai esser mozzo, e che più volte v’ha cresciuta doglia? | Perché vi opponete a quella volontà divina il cui fine non può mai essere impedito, e che più volte vi ha accresciuto la pena? |
Che giova ne le fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, ne porta ancor pelato il mento e ‘l gozzo». | A che serve cozzare contro il destino? Il vostro Cerbero, se ben ricordate, ne porta ancora pelati il mento e la gola». |
Poi si rivolse per la strada lorda, e non fé motto a noi, ma fé sembiante d’omo cui altra cura stringa e morda | Poi si voltò per la via fangosa, e non ci rivolse parola, ma appariva come un uomo preoccupato e tormentato da altro pensiero |
che quella di colui che li è davante; e noi movemmo i piedi inver’ la terra, sicuri appresso le parole sante. | che non sia quello della persona che gli sta davanti; e noi muovemmo i piedi verso la città, rassicurati dalle parole divine. |
Dentro li ‘ntrammo sanz’alcuna guerra; e io, ch’avea di riguardar disio la condizion che tal fortezza serra, | Vi entrammo senza alcun contrasto; e io, che avevo desiderio di osservare la condizione di coloro che tale fortezza racchiude, |
com’io fui dentro, l’occhio intorno invio: e veggio ad ogne man grande campagna, piena di duolo e di tormento rio. | una volta entrato, volgo lo sguardo intorno: e vedo da ogni parte una grande distesa, piena di dolore e di crudele tormento. |
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, sì com’a Pola, presso del Carnaro ch’Italia chiude e suoi termini bagna, | Come ad Arles, dove il Rodano forma uno stagno, come a Pola, vicino al Quarnaro che chiude l’Italia e bagna i suoi confini, |
fanno i sepulcri tutt’il loco varo, così facevan quivi d’ogne parte, salvo che ‘l modo v’era più amaro; | i sepolcri rendono irregolare tutto il luogo, così facevano qui da ogni parte, salvo che il modo era più doloroso, |
ché tra gli avelli fiamme erano sparte, per le quali eran sì del tutto accesi, che ferro più non chiede verun’arte. | poiché tra i sepolcri erano sparse fiamme, dalle quali erano così completamente arroventati, che nessuna arte metallurgica richiede ferro più incandescente. |
Tutti li lor coperchi eran sospesi, e fuor n’uscivan sì duri lamenti, che ben parean di miseri e d’offesi. | Tutti i loro coperchi erano sollevati, e ne uscivano lamenti così strazianti, che ben sembravano di miserabili e sofferenti. |
E io: «Maestro, quai son quelle genti che, seppellite dentro da quell’arche, si fan sentir coi sospiri dolenti?». | E io: «Maestro, chi sono quelle persone che, sepolte dentro quelle arche, si fanno sentire con sospiri dolorosi?». |
E quelli a me: «Qui son li eresïarche con lor seguaci, d’ogne setta, e molto più che non credi son le tombe carche. | Ed egli a me: «Qui ci sono gli eresiarchi con i loro seguaci, di ogni setta, e molto più di quanto tu creda sono cariche le tombe. |
Simile qui con simile è sepolto, e i monimenti son più e men caldi». E poi ch’a la man destra si fu vòlto, passammo tra i martìri e li alti spaldi. | Qui è sepolto simile con simile, e i monumenti sono più o meno roventi». E dopo essersi girato verso destra, passammo tra i tormenti e le alte mura. |
Canto 9 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il Canto 9 dell’Inferno della Divina Commedia si apre in un momento di forte tensione drammatica. Dante e Virgilio si trovano bloccati davanti alle mura della città di Dite, dove i demoni hanno negato loro l’accesso nel canto precedente. Virgilio tenta di rassicurare Dante, ma il suo volto tradisce preoccupazione, creando un’atmosfera di inquietudine che permea l’intero inizio del canto.
Nei versi iniziali (1-33), Dante osserva il pallore di Virgilio che cerca di nascondere il suo turbamento: “Quel color che viltà di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, più tosto dentro il suo novo ristrinse”. Questa reazione di Virgilio evidenzia uno dei temi centrali: i limiti della ragione umana (rappresentata da Virgilio) davanti alle forze del male più ostinato.
La narrazione prosegue con l’apparizione delle tre Furie (Megera, Aletto e Tesifone), che si manifestano sulla sommità delle mura infuocate. Questi mostri mitologici vengono descritti con dettagli terrificanti: “E con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte”. Le Furie, nel loro furore, invocano Medusa perché pietrifichi Dante, rappresentando così il pericolo della disperazione paralizzante che impedisce la redenzione.
Il momento di massima tensione avviene quando Virgilio, riconoscendo il pericolo rappresentato da Medusa, fa voltare Dante e gli copre gli occhi con le proprie mani per proteggerlo. Questo gesto simboleggia la necessità della guida razionale, che pur nei suoi limiti, tenta di preservare l’anima del pellegrino dai pericoli più estremi.
A questo punto (versi 64-105), si verifica la svolta decisiva: l’arrivo del messo celeste. La sua apparizione è preannunciata da un fragore impressionante: “E già venia su per le torbide onde un fracasso d’un suon, pien di spavento, per cui tremavano ambedue le sponde”. Il messo divino, descritto come potente e maestoso, avanza con autorità attraverso la palude Stigia, facendo fuggire le anime dannate davanti a sé come rane che si disperdono all’avvicinarsi di un serpente.
È interessante notare come Dante utilizzi qui una similitudine tratta dal mondo naturale: “Come le rane innanzi a la nimica biscia per l’acqua si dileguan tutte, fin ch’a la terra ciascuna s’abbica”. Questa immagine concreta rende immediatamente comprensibile la scena sovrannaturale, dimostrando la capacità dell’autore di rendere accessibili realtà trascendenti attraverso paragoni con l’esperienza quotidiana.
Il messo celeste, con un gesto perentorio, apre le porte di Dite usando una semplice verghetta, simbolo dell’autorità divina che supera ogni resistenza infernale. Mentre rimprovera i demoni per la loro inutile opposizione al volere divino, sottolinea l’inutilità della loro ribellione: “O cacciati dal ciel, gente dispetta … Perché recalcitrate a quella voglia a cui non puote il fin mai esser mozzo, e che più volte v’ha cresciuta doglia?”.
Dopo l’intervento risolutivo del messaggero, che rappresenta la grazia divina che interviene dove la ragione umana è insufficiente, Dante e Virgilio possono finalmente entrare nella città di Dite. L’atmosfera che li accoglie è desolante: “Dentro li ‘ntrammo sanz’alcuna guerra; e io, ch’avea di riguardar disio la condizion che tal fortezza serra, com’io fui dentro, l’occhio intorno invio”.
Ciò che Dante contempla è un vasto cimitero disseminato di tombe infuocate (versi 106-133), dove sono puniti gli eretici. Il contrasto tra il silenzio del luogo e il tormento delle anime imprigionate nelle sepolture ardenti crea un’immagine di grande impatto emotivo. Questo paesaggio lugubre anticipa l’incontro con Farinata degli Uberti e altri eretici che avverrà nel canto successivo.
Il nono canto si conclude con i due poeti che iniziano a percorrere un sentiero tra le tombe e le mura della città: “Or sen va per un secreto calle, tra ‘l muro de la terra e li martìri, lo mio maestro, e io dopo le spalle”.
Questo episodio rappresenta un momento chiave nell’architettura simbolica dell’Inferno dantesco. Il passaggio attraverso le porte di Dite segna infatti la transizione dai peccati di incontinenza (puniti nei cerchi superiori) ai peccati di malizia e bestialità (puniti nei cerchi inferiori). Questa suddivisione riflette la concezione etica aristotelica adottata da Dante, che distingue tra peccati derivanti da impulsi naturali mal controllati e quelli che nascono da una deliberata scelta di male.
L’intero canto può essere letto come un’allegoria del cammino dell’anima verso la salvezza: la ragione umana (Virgilio) è necessaria ma non sufficiente, e nei momenti di maggiore difficoltà è indispensabile l’intervento della grazia divina (il messo celeste) per superare gli ostacoli più ardui.
Canto 9 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
Il nono canto dell’Inferno presenta un cast di personaggi dal profondo valore simbolico, ciascuno con un ruolo preciso nell’economia narrativa e allegorica dell’opera dantesca.
Dante pellegrino
In questo canto, Dante personaggio mostra tutta la sua fragilità umana. Il poeta appare visibilmente turbato di fronte all’ostilità dei demoni che impediscono l’ingresso alla città di Dite. Il suo pallore è sintomo di paura e incertezza: “Quel color che viltà di fuor mi pinse / veggendo il duca mio tornare in volta” (vv. 1-2). Questa vulnerabilità rappresenta la condizione dell’anima umana che, nel percorso di redenzione, affronta momenti di crisi e smarrimento. Significativo è il momento in cui Virgilio gli copre gli occhi per proteggerlo dalla vista di Medusa, simboleggiando come l’uomo necessiti talvolta di una guida che lo difenda dai pericoli spirituali che non è in grado di affrontare autonomamente.
Virgilio e i limiti della ragione
Virgilio rivela in questo canto una dimensione inedita e problematica. Il maestro, solitamente sicuro e autorevole, mostra segni di inquietudine che cerca di nascondere a Dante: “più tosto dentro il suo novo ristrinse” (v. 3). Questo turbamento evidenzia i limiti della ragione umana (che Virgilio rappresenta) di fronte alle forze del male più profondo. Nonostante la sua saggezza, egli non può vincere da solo l’opposizione dei demoni, necessitando dell’intervento divino. Particolarmente significativo è il suo tentativo fallito di parlamentare con i guardiani infernali, che sottolinea come la filosofia classica e la ragione, pur nobili e necessarie, siano insufficienti senza la grazia divina per comprendere e superare il peccato.
Le Furie e il pericolo della disperazione
Le tre Furie – Megera, Aletto e Tesifone – rappresentano uno degli ostacoli più minacciosi del canto. Descritte con dettagli terrificanti (“Con l’unghie si fendea ciascuna il petto; / battiensi a palme e gridavan sì alto”, vv. 49-50), queste creature mitologiche incarnano il rimorso sterile e la disperazione che blocca il pentimento. La tradizione classica le considerava vendicatrici dei delitti familiari, ma Dante le reinterpreta in chiave cristiana come simbolo delle passioni distruttive che paralizzano l’anima.
Particolarmente rilevante è l’invocazione di Medusa da parte delle Furie: “Vegna Medusa: sì ‘l farem di smalto” (v. 52). La Gorgone, figura assente ma evocata, rappresenta il pericolo supremo della pietrificazione spirituale, ovvero l’indurimento definitivo nel peccato che rende impossibile la conversione. Non a caso, Dante stesso invita il lettore a ricercare il significato allegorico nascosto dietro questo episodio: “O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani” (vv. 61-63).
Il messo celeste e la grazia divina
Il messo celeste è la figura risolutiva del canto, inviato da Dio per sbloccare la situazione di stallo. La sua descrizione è carica di maestà e potenza: “Dal ciel disceso, un che cammina segno / di una verghetta, e l’aere fendea” (vv. 88-89). Quest’angelo, che avanza con autorità assoluta facendo fuggire le anime dannate come rane davanti a un serpente, rappresenta l’intervento della grazia divina che soccorre l’uomo quando le sole forze umane non bastano. La facilità con cui apre le porte di Dite (“poi rivolse/per la strada solinga / lo sguardo a noi, e proseguì la via”, vv. 104-105) contrasta drammaticamente con i vani tentativi di Virgilio, sottolineando la superiorità della potenza divina rispetto alla ragione umana.
I demoni custodi di Dite
I demoni che presidiano le mura della città infernale rappresentano le forze del male organizzato che si oppongono attivamente al cammino di redenzione. A differenza dei diavoli incontrati nei cerchi precedenti, questi mostrano una resistenza più tenace e consapevole, rifiutandosi categoricamente di aprire le porte nonostante l’autorità di Virgilio. La loro ribellione simboleggia l’ostinazione nel peccato e la resistenza deliberata alla verità, caratteristiche proprie dei peccati di malizia puniti all’interno di Dite.
In questo canto così denso di significati allegorici, ogni personaggio incarna una dimensione del conflitto tra bene e male, tra ragione e fede, tra disperazione e speranza di salvezza, rendendo questa sezione dell’Inferno non solo un episodio narrativo ma una profonda meditazione sulla condizione umana e sul mistero della redenzione.
Analisi del Canto 9 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
Il Canto 9 dell’Inferno rappresenta uno snodo fondamentale nel viaggio dantesco, caratterizzato da una profonda tensione narrativa e da un complesso intreccio di elementi simbolici. Questo canto si distingue per la sua funzione strutturale nell’economia dell’intera cantica: segna infatti il passaggio dai peccati di incontinenza, frutto di passioni incontrollate, ai peccati più gravi di malizia, risultato di una deliberata scelta morale.
L’aspetto narrativo più evidente è il conflitto tra la ragione umana, rappresentata da Virgilio, e la resistenza delle forze infernali. L’impasse davanti alle porte della città di Dite rivela i limiti della filosofia classica di fronte al male radicale. Virgilio, pur essendo guida sapiente, si dimostra impotente: “Pur a noi converrà vincer la pugna”, afferma con incertezza, tradendo il suo turbamento. Questa crisi narrativa è funzionale a dimostrare la necessità dell’intervento divino, evidenziando come la salvezza richieda una forza superiore alla sola ragione umana.
La struttura del canto si articola in tre momenti narrativi principali. Il primo è caratterizzato dall’attesa e dall’inquietudine, con Dante che osserva l’inconsueto pallore di Virgilio. Il secondo momento vede l’apparizione delle Furie e la minaccia di Medusa, dove la tensione raggiunge il culmine. Il terzo presenta la risoluzione con l’arrivo provvidenziale del messo celeste, che riafferma l’ordine divino nel caos infernale.
Particolarmente significativo è il momento in cui Dante, attraverso una delle rare apostrofi dirette al lettore, invita a cercare il significato allegorico nascosto dietro la lettera del testo: “O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani”. Questo appello esplicito sottolinea la presenza di un livello interpretativo più profondo, suggerendo che l’episodio di Medusa rappresenti un pericolo spirituale che richiede particolare attenzione.
La città di Dite assume una funzione architettonica e teologica centrale. Le sue mura dividono fisicamente l’Inferno in due sezioni moralmente distinte, ma rappresentano anche la separazione tra il peccato come debolezza e il peccato come deliberata ribellione. Il passaggio attraverso queste porte simboleggia una discesa più profonda nella comprensione del male e dell’ordinamento divino, momento necessario nel percorso di purificazione spirituale del poeta.
La dimensione temporale del canto merita particolare attenzione. L’attesa snervante all’ingresso di Dite, amplificata dall’incertezza e dal pericolo, crea una dilatazione percettiva del tempo che aumenta la tensione drammatica. Questa sospensione temporale contrasta con la rapidità fulminea dell’intervento divino, suggerendo che la grazia opera con modalità che trascendono le limitazioni umane.
Il tema dell’ostacolo e del suo superamento si configura come elemento narrativo ricorrente nella Commedia, qui rappresentato in modo particolarmente efficace. L’opposizione dei demoni rappresenta la resistenza delle forze del male alla conversione e alla redenzione umana. Il superamento di questa barriera tramite l’intervento divino ribadisce un messaggio fondamentale del poema: il male, per quanto potente, è ultimamente destinato alla sconfitta di fronte alla volontà divina.
L’aspetto visivo del canto 9 dell’inferno della Divina Commedia è dominato da un passaggio dall’oscurità alla luce. Il paesaggio iniziale è caratterizzato da tenebre e confusione, mentre l’arrivo del messo celeste porta con sé un chiarore che, pur balenando fugacemente nell’atmosfera infernale, preannuncia la progressiva illuminazione spirituale che caratterizzerà il viaggio del poeta verso il Purgatorio e il Paradiso.
Nella costruzione del canto è evidente la tecnica del contrappunto emotivo: momenti di massima tensione si alternano a improvvise risoluzioni, creando un ritmo narrativo che coinvolge il lettore. La disperazione di Dante di fronte all’apparente fallimento della sua guida si trasforma in sollievo e meraviglia quando interviene il soccorso divino, riflettendo l’alternarsi di sconforto e speranza tipico dell’esperienza umana.
Infine, la discesa nel sesto cerchio, con cui si chiude il canto 9 dell’Inferno della Divina Commedia, prepara l’incontro con gli eretici e in particolare con Farinata degli Uberti. Questo collegamento narrativo dimostra come Dante costruisca la sua opera con una progressione tematica coerente: dopo aver superato l’opposizione demoniaca grazie all’aiuto divino, il pellegrino può confrontarsi con coloro che hanno deliberatamente negato l’immortalità dell’anima, rappresentando così un’altra forma di ribellione contro l’ordine divino.
Figure retoriche nel Canto 9 dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 9 dell’Inferno della Divina Commedia si distingue per la ricchezza di figure retoriche che Dante impiega magistralmente per intensificare l’atmosfera drammatica e il valore simbolico della narrazione. Questo apparato retorico non è meramente decorativo, ma funzionale a trasmettere la complessità dell’esperienza infernale e dei suoi significati allegorici.
Le metafore abbondano in questo canto e contribuiscono a creare un’atmosfera di tensione e minaccia. Dante utilizza espressioni come “color che viltà di fuor mi pinse” per descrivere il pallore causato dalla paura, trasformando uno stato d’animo in un’azione concreta. Particolarmente efficace è la metafora del vento che “percuote i rami impetuoso” per rappresentare l’arrivo del messo celeste, sottolineando la potenza dell’intervento divino attraverso un’immagine naturale.
Le similitudini sono strumenti essenziali per rendere comprensibili le realtà ultraterrene. Memorabile è il paragone tra i demoni in fuga davanti al messo celeste e le rane che fuggono davanti al serpente nemico: “Come le rane innanzi a la nimica / biscia per l’acqua si dileguan tutte, / fin ch’a la terra ciascuna s’abbica”. Questa similitudine, tratta dal mondo naturale e familiare, aiuta il lettore a visualizzare una scena soprannaturale, creando un ponte tra esperienza ordinaria e visione oltremondana.
Le personificazioni arricchiscono il tessuto narrativo dando forma concreta a entità astratte. Le porte di Dite che “s’aperse” come se agissero autonomamente evidenziano l’intervento soprannaturale. Le Furie stesse possono essere interpretate come personificazioni del rimorso sterile e della disperazione che paralizzano l’anima nel peccato.
Le allitterazioni creano effetti sonori che intensificano l’impatto emotivo del testo. In espressioni come “torbide onde” l’allitterazione della “t” e della “r” evoca fonicamente il movimento inquietante dell’acqua infernale. Analogamente, nei versi che descrivono l’arrivo del messo “un fracasso d’un suon, pien di spavento”, l’allitterazione della “s” e della “p” riproduce l’effetto acustico descritto.
Gli ossimori esprimono la natura paradossale dell’esperienza infernale. L’espressione “città dolente” unisce l’idea di comunità organizzata con quella della sofferenza eterna, mentre il “foco ch’entro l’affoca” delle tombe degli eretici rappresenta un fuoco che brucia senza consumare, eternamente.
Le iperboli accentuano l’aspetto terrificante delle creature infernali. Nella descrizione delle Furie, elementi come “serpentelli e ceraste avien per crine” esagerano volutamente i tratti mostruosi per suscitare orrore e ripugnanza nel lettore.
Le anafore creano un ritmo incalzante nei momenti di maggiore tensione. L’invocazione ripetuta delle Furie “Vegna Medusa” nei versi 52-57 produce un effetto ipnotico che sottolinea il pericolo imminente della pietrificazione.
Particolarmente significativo è l’uso della perifrasi per riferirsi a Medusa senza nominarla direttamente: “quella il cui sguardo fa di sasso”. Questa figura retorica intensifica l’aura di mistero e terrore intorno alla creatura, aumentando la tensione narrativa.
Un’altra figura retorica importante è la sinestesia, come nell’espressione “odor terribile” che fonde sensazioni olfattive con impressioni emotive, rendendo quasi palpabile l’atmosfera opprimente dell’Inferno.
Vi è anche un notevole uso dell’allegoria, quando Dante invita esplicitamente il lettore a guardare oltre il senso letterale: “O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani”. Questo appello diretto al lettore sottolinea la natura didattica dell’opera e invita a una lettura più profonda.
Il colore dominante in questo canto è il rosso delle fiamme, che funziona come simbolo del castigo infernale e della passione peccaminosa. La simbologia cromatica si estende anche al verde dei serpenti che cingono le Furie, colore associato tradizionalmente all’invidia e alla corruzione.
Questa ricchezza retorica non è mai fine a se stessa, ma risponde all’esigenza di Dante di rendere concreta e visibile l’esperienza dell’invisibile, creando un linguaggio poetico capace di esprimere realtà che trascendono l’esperienza umana ordinaria.
Temi principali del 9 canto della Inferno della Divina Commedia
Il Canto 9 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta uno dei momenti più significativi del viaggio dantesco, intessuto di temi teologici, morali e filosofici che rispecchiano la visione medievale del mondo e la prospettiva cristiana dell’autore.
Il conflitto tra ragione umana e grazia divina emerge come tema dominante. Virgilio, emblema della ragione, si dimostra impotente di fronte alle porte chiuse di Dite e ai demoni che le custodiscono. Questo limite rappresenta l’insufficienza della filosofia classica e del pensiero razionale quando si tratta di affrontare forme estreme di male. Solo l’intervento del messo celeste, figura della grazia divina, permette di superare l’ostacolo, sottolineando la necessità dell’aiuto soprannaturale nel cammino di redenzione.
La ribellione contro l’ordine divino costituisce un altro tema fondamentale. La città di Dite, con le sue mura infuocate e i suoi guardiani demoniaci, rappresenta la negazione consapevole e ostinata della volontà di Dio. I peccatori qui puniti non sono colpevoli di semplice incontinenza, ma di azioni malvagie premeditate, frutto della perversione dell’intelletto. Non a caso, negli avelli infuocati del sesto cerchio sono collocati gli eretici, coloro che hanno deliberatamente negato verità fondamentali della fede.
Il pericolo della disperazione viene allegoricamente rappresentato dalla minaccia di Medusa. La Gorgone, il cui sguardo ha il potere di pietrificare, simboleggia il rischio di rimanere paralizzati dalla disperazione, condizione che impedisce il pentimento e quindi ogni possibilità di salvezza. Quando Virgilio invita Dante a voltarsi e a coprirsi gli occhi, suggerisce la necessità di proteggersi dalla tentazione di rinunciare alla speranza.
L’importanza della fede viene sottolineata dal momento in cui Virgilio stesso mostra segni di incertezza. Se la guida razionale vacilla, ciò che sostiene il pellegrino è la fiducia in un aiuto superiore, che puntualmente arriva con il messo celeste. Dante suggerisce qui che nei momenti di massima difficoltà, quando anche la ragione sembra insufficiente, è la fede a permettere di proseguire il cammino.
Il tema del contrasto tra apparenza e realtà attraversa tutto il canto. Le Furie, terribili nell’aspetto e nelle minacce, si rivelano impotenti di fronte all’inviato divino. Allo stesso modo, l’imponente città di Dite, che sembrava impenetrabile, viene aperta con un semplice gesto. Questo contrasto richiama l’illusorietà del potere del male, che appare formidabile ma è destinato a essere sconfitto dalla potenza divina.
Di particolare rilevanza è anche il tema della conoscenza come strumento di salvezza. Dante autore invita esplicitamente il lettore a cercare il significato nascosto sotto «il velame delli versi strani» (v. 63), suggerendo che la comprensione profonda del male sia necessaria per poterlo superare. L’intero viaggio infernale, infatti, non è solo un percorso di espiazione, ma anche di acquisizione di consapevolezza.
Il ruolo pedagogico della poesia emerge chiaramente nell’invito di Dante ai lettori a interpretare l’allegoria: «O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani» (vv. 61-63). La Divina Commedia non è soltanto narrazione, ma strumento didattico che guida il lettore verso la comprensione delle verità morali e teologiche.
Fondamentale risulta infine il tema del passaggio a una comprensione più profonda del peccato. L’ingresso nella città di Dite segna il confine tra i peccati di incontinenza e quelli di malizia, evidenziando una scala di gravità che riflette la visione etica medievale. Questo passaggio è reso difficoltoso proprio per sottolineare la differenza qualitativa tra peccati di debolezza e peccati di deliberata malvagità.
Il Canto 9 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta dunque un momento cruciale nel viaggio spirituale di Dante, in cui temi teologici e morali si intrecciano con riflessioni sulla natura umana e sul rapporto tra l’uomo e il divino, offrendo al lettore spunti di meditazione che trascendono il contesto storico dell’opera per toccare questioni universali.
Il Canto 9 dell’Inferno in pillole
Aspetto | Descrizione |
---|---|
Collocazione | Canto IX dell’Inferno, segna l’ingresso nella città di Dite (VI cerchio) |
Eventi principali | Attesa davanti alle porte di Dite, apparizione delle Furie, minaccia di Medusa, arrivo del messo celeste, ingresso nella città |
Personaggi chiave | • Dante: protagonista spaventato dalle resistenze infernali • Virgilio: guida che mostra i limiti della ragione umana • Le Furie: Megera, Aletto e Tesifone, simboli del rimorso sterile • Messo celeste: rappresentante della grazia divina necessaria |
Simbologia | • Città di Dite: divisione tra peccati di incontinenza e peccati più gravi • Medusa: pericolo della disperazione senza redenzione • Porte chiuse: resistenza al bene e chiusura nel peccato • Tombe infuocate: punizione degli eretici |
Figure retoriche | • Metafore (es. “color che viltà di fuor mi pinse”) • Similitudini (es. “Come le rane innanzi alla nimica biscia”) • Allitterazioni (es. “torbide onde”) • Personificazioni (es. porte che si aprono autonomamente) |
Messaggio teologico | • Necessità dell’intervento divino nel cammino di redenzione • Insufficienza della sola ragione umana di fronte al male • Importanza della fede e della grazia nel superare il peccato |
Versi memorabili | • “O voi ch’avete li ‘ntelletti sani / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani” (vv. 61-63) • “Vegna Medusa: sì ‘l farem di smalto” (v. 52) |
Struttura narrativa | Tensione → Crisi → Intervento divino → Risoluzione |
Temi principali | • Conflitto tra ragione e fede • Pericolo della disperazione • Necessità della grazia divina • Ribellione contro l’ordine divino |
Importanza nell’opera | Segna il passaggio strutturale fondamentale nella geografia infernale e nel percorso spirituale di Dante |