Edith Stein - Studentville

Edith Stein

Pensiero e vita.

Vita e opere Edith Stein nacque a Breslavia (Wroclaw, allora in Germania, oggi in Polonia) il 12 ottobre 1891. Ultima di una famiglia numerosa, il padre morì poco dopo la sua nascita. La madre, donna di carattere forte e di grande fede — era ebrea osservante —, prese in mano l’azienda del marito e con grande sforzo personale riuscì a farla prosperare, potendo così mantenere i suoi figli. La figura materna sarà  importante nella vita di Edith: l’esempio di austerità  di vita e di una fede profondamente vissuta segneranno il suo carattere e saranno sempre per lei un importante punto di riferimento. La bambina Edith si dimostrò presto dotata di un’intelligenza vivace, particolarmente attratta dalla letteratura, alla quale era stata iniziata dai fratelli maggiori. L’esempio di religiosità  di sua madre rappresentava un’ eccezione rispetto all’ambiente familiare in cui si muoveva e, come lei stessa racconta, per l’esempio di ateismo dei suoi parenti, molto presto smise consapevolmente e deliberatamente di pregare. Brillante negli studi secondari, iniziò l’università  nella sua città  natale, indirizzandosi verso la storia e la letteratura tedesca. Negli anni universitari l’interesse per la letteratura si approfondì in interesse per l’uomo, ed Edith aggiunse alle lezioni di storia e letteratura anche la frequenza a corsi della nascente scienza psicologica. Fu nell’ambito di questi studi — in quel momento, a Breslavia, psicologia e filosofia erano viste quasi come un’unica scienza — che un giovane docente, Georg Moskiewicz, le passò il secondo volume delle “Ricerche logiche” (Logische Untersuchungen) di Edmund Husserl, professore di filosofia all’università  di Gottinga (“Gli altri hanno preso tutto da qui”, le disse Moskiewicz). Affascinata da questa lettura, attratta dalle descrizioni che Moskiewicz le faceva dell’ambiente universitario di Gottinga e incoraggiata dall’invito di un suo cugino che insegnava in quella università , decise di andarvi a frequentare un semestre, il suo quinto. Prima di partire aveva concordato un tema di tesi di psicologia sperimentale con il professor Stern. Edith Stein arrivò a Gottinga nella primavera del 1913, e questa città  divenne ben presto la sua patria intellettuale. La fenomenologia insegnata da Husserl era veramente un pensiero innovativo: la concezione della filosofia come scienza rigorosa contrastava con i riduttivismi scientifici — soprattutto di tendenza psicologista — allora in voga, mentre l’invito a riportare l’attenzione sulle cose sembrava rompere con i vari tipi di idealismo, ripristinando le condizioni per svolgere una filosofia realista. Fra i giovani fenomenologi si percepiva l’entusiasmo dei pionieri. La descrizione che le aveva fatto Moskiewicz corrispondeva alla realtà : a Gottinga si parlava veramente di filosofia “giorno e notte, a pranzo, per la strada, ovunque”. Il suo inserimento nell’ambiente universitario avvenne senza difficoltà : Moskiewicz la presentò ad Adolf Reinach, giovane professore e collaboratore di Husserl, che di fatto si occupava di facilitare l’accesso degli studenti alla fenomenologia e al suo “maestro”; quest’ultimo essendo meno portato per le relazioni umane. La buona impressione che fece a Reinach, e soprattutto a Husserl, le aprì poi le porte della “Società  Filosofica”, una sorta di seminario creato dagli stessi studenti, al quale erano ammessi solo i discepoli maggiormente iniziati alla fenomenologia. Dopo poche settimane si muoveva nell’ambiente fenomenologico di Gottinga come se avesse sempre vissuto lì. Fra le persone con cui strinse amicizia in quel periodo possiamo menzionare Roman Ingarden, Hans Lipps, Fritz Kaufmann. Frequentò molto anche i coniugi Reinach, ma tardò un poco ad accorgersi della loro sincera amicizia, fatto comprensibile se si considera che Adolf Reinach, benchè giovane, era suo professore e non un compagno di studi come gli altri. Edith attribuiva molta importanza a queste amicizie e fece tutto il possibile per conservarle per tutta la vita. Un incontro importante per la maturazione intellettuale e spirituale della giovane filosofa fu quello con Max Scheler. Questi era stato diffidato dall’insegnamento nell’università  di Gottinga, per lo scandalo causato dalla sua causa di divorzio, ma la Società  Filosofica lo invitò a tenere in un caffò delle conferenze private. In questi incontri Edith Stein potè constatare le divergenze fra Husserl e Scheler: “Scheler naturalmente era aspramente contrario alla svolta idealistica e si esprimeva quasi in tono di superiorità  (… ). I rapporti tra Husserl e Scheler non erano del tutto sereni. Scheler non perdeva occasione di ribadire che non era allievo di Husserl, ma aveva trovato personalmente il metodo fenomenologico. Per quanto egli non fosse stato suo allievo, Husserl era tuttavia convinto della sua dipendenza da lui. (… ) [Scheler] accoglieva da altri delle idee che poi trovavano sviluppo dentro di lui, senza che lui stesso si accorgesse di essere stato influenzato. In tutta coscienza poteva affermare che era tutta farina del suo sacco”. Dai ricordi della Stein emerge il ritratto di un filosofo affascinante. Ma di particolare interesse risulta l’impatto che ebbe sulla giovane filosofa la sua maniera di difendere la fede — si era convertito al cattolicesimo — che, sebbene non portò Edith Stein ad esaminare seriamente il tema, per lo meno le trasmise l’idea della dignità  filosofica dell’ar¬go¬mento, cosa che veniva invece esclusa dal pur credente Husserl, per il quale la religione poteva essere solo oggetto di fede, non di speculazione filosofica. Si vedrà  più avanti come questo porterà  la Stein a concludere che la fenomenologia secondo la concezione di Husserl ò incompatibile con la fede. La nuova fenomenologa decise di rimanere a Gottinga per terminare lì gli studi universitari. Quasi subito aveva abbandonato l’idea della tesi con Stern, e chiese a Husserl di farle da relatore, per studiare il tema dell’em¬pa¬tia (Einfà¼hlung). Così lei stessa spiega la sua tesi: “Nel suo seminario sulla natura e lo spirito, Husserl aveva parlato del fatto che un mondo esterno oggettivo poteva essere conosciuto solo in modo intersoggettivo, cioò da una maggioranza di individui conoscenti che si trovino tra loro in uno scambio conoscitivo reciproco. Di conseguenza, ò premessa una esperienza di altri individui. Collegandosi alle opere di Theodor Lipps, Husserl chiamava Einfà¼hlung (intuizione [meglio “empatia”]) questa esperienza, ma non dichiarava in che cosa consistesse. C’era perciò una lacuna che andava colmata: io volevo ricercare che cosa fosse l’intuizione. Ciò non dispiacque al maestro”. Si trattava di un argomento chiave per il metodo fenomenologico, ma non era stato ancora sviluppato, solo Scheler vi faceva riferimento, ma più per una comprensione intuitiva del problema che per averlo approfondito; Husserl lo esaminerà  molti anni più tardi. Questo ò indicativo della tendenza di Edith Stein ad andare a fondo nelle questioni e del suo costante interesse per gli aspetti umani dei problemi; allo stesso tempo ò un primo indice di quel certo disordine di Husserl, che contribuì a rendere difficile la comprensione con i suoi discepoli, come vedremo più avanti. Il relatore la orientò verso un’impostazione che aumentava di molto il lavoro necessario, costringendola a studiare la voluminosa produzione di Theodor Lipps, il quale aveva parlato di empatia, ma in un senso piuttosto diverso da come lo intendevano i fenomenologi. La mole di lavoro e lo scarso aiuto da parte di Husserl la stancarono fino quasi all’esaurimento. Quando però iniziava a disperare della possibilità  di portare a termine l’opera, le venne in aiuto Adolf Reinach, che la incoraggiò, valorizzando il lavoro fin lì svolto, e le diede un consiglio prezioso: ormai aveva già  studiato abbastanza il tema ed era arrivato il momento di chiudere i libri ed applicare il metodo fenomenologico per svolgere una riflessione personale. Nel frattempo era iniziata la prima guerra mondiale e tutti i suoi amici si stavano sparpagliando sui vari fronti. Il suo spirito patriottico le faceva sembrare un tradimento l’occuparsi dei suoi problemi filosofici mentre la gente moriva per il suo paese, e decise così di presentarsi come infermiera volontaria nella Croce Rossa. Roman Ingarden, ricordando il grande patriottismo che animava la Stein, osservava: “Questo ò importante per un motivo: accresce la tragedia di essere stata vittima di quello che accadde in seguito”. Come crocerossina fu assegnata ad un ospedale militare per malattie infettive, dove lavorò con tanto impegno che, dopo circa nove mesi, venne dimessa dal servizio per l’evidente stato di esaurimento in cui si trovava. Tornò così a lavorare alla tesi. Nel frattempo Husserl, che a Gottinga era professore straordinario, aveva ottenuto la cattedra di ordinario di filosofia all’università  di Friburgo in Brisgovia (Freiburg im Breisgau) e si era trasferito in quella città . Terminata la tesi Edith Stein dovette faticare non poco per riuscire a farla leggere al professore. In una lettera del 16/8/1916 allude spiritosamente a queste difficoltà : “Quando andai a Friburgo per un paio di settimane, il maestro era ancora imbronciato per la mia crudeltà  di costringerlo a leggere la mia tesi”, ma più avanti aggiunge “mi venne un colpo quando, il giorno seguente, mi confidò che era molto soddisfatto della mia tesi, e che, in effetti, un bel po’ di essa coincideva con parti essenziali della seconda parte delle Ideen”. Finalmente potè discuterla il 3 agosto 1916, ottenendo il titolo di dottore in filosofia, con il massimo dei voti. Pubblicò la tesi quello stesso anno. A Friburgo Husserl si trovava relativamente solo, sia per il cambio di città , sia per la guerra che tratteneva al fronte la maggior parte dei suoi discepoli. Intanto il nuovo incarico gli dava diritto ad avere un assistente, ed in realtà  ne sentiva bisogno: la mole di appunti accumulati negli anni era diventata per lui ingovernabile, e in molti casi non più leggibile per le peggiorate condizioni della sua vista, e non riusciva ad estrarne del materiale adeguato per una pubblicazione. Nell’agosto del 1916 Edith Stein, che già  da tempo rifletteva sulle difficoltà  del maestro, incoraggiata dal giudizio positivo sulla sua tesi, si propose per il posto. Husserl non solo accettò, ma “la sua soddisfazione all’idea di avere finalmente una persona a sua completa disposizione era evidente — benchè, ovviamente, non abbia ancora un’idea chiara di come dovremo lavorare insieme”. Lo stipendio offerto era modesto, ma lei era in grado di mantenersi con l’aiuto della famiglia. Si può seguire abbastanza da vicino la breve storia del lavoro di Edith Stein con Husserl grazie ad una quindicina di lettere conservate da Roman Ingarden e Fritz Kaufmann. Ne emergono i fatti di un rapporto difficile, caratterizzato da una grande venerazione per il professore contrastata dall’im¬pos¬sibilità  quasi assoluta di stabilire con lui una vera relazione di collaborazione. Il primo incarico sarà  di lavorare al manoscritto delle Ideen, e condizione previa lo studio del metodo di stenografia che Husserl usava per scrivere i suoi appunti. Così spiega il suo lavoro a Roman Ingarden: “Adesso sto cercando di mettere insieme, a partire dal materiale in mio possesso, una minuta unitaria dell’intero processo di pensiero (del quale ho un’idea abbastanza chiara, anche se niente ò definitivo e nemmeno portato fino alle conclusioni). Questo dovrà  diventare la base per l’opera del maestro, pertanto vorrei finirlo perchè non penso che sarebbe capace di orientarsi fra tanto materiale e rimarrebbe sempre invischiato nei dettagli”. A gennaio la giovane assistente ha già  iniziato a prendere contatto con i problemi legati agli “umori improvvisi e variabili del caro maestro”, come quando era riuscita a convincerlo della necessità  di “ripensare l’intera dottrina della costituzione e a quello scopo riprendere in mano la prima parte delle Ideen. Così si fece per due giorni, poi ritornò ad essere troppo noioso”. Nello stesso periodo scrive: “La collaborazione con il caro maestro ò una questione molto complicata; ho il timore che possa non arrivare mai ad essere una reale collaborazione. (… ) Non si riesce a smuoverlo, nemmeno una volta, a dare un’oc¬chiata alla minuta che sto ricavando per lui dai suoi vecchi appunti per permettergli di riprendere la visione d’insieme che ha perso. Finchè non si otterrà  questo ò ovviamente impossibile pensare alla composizione di una minuta definitiva”. Naturalmente ò impensabile che Husserl riveda la tesi dottorale della sua allieva per la pubblicazione: arriverà  alle stampe senza il suo intervento Ma la Stein non si lascia scoraggiare: la muove la certezza di avere fra le mani del materiale di grande valore e la conseguente determinazione a fare tutto il possibile perchè anche altri possano beneficiarne. Il suo obiettivo ò pertanto quello di organizzare gli appunti secondo una struttura logica, evidenziando le lacune e le parti incomplete, per preparare così una trascrizione chiara da presentare a Husserl e sulla base di essa lavorare con lui per riempire le restanti lacune. Se le difficoltà  di collaborazione fossero continuate, avrebbe lasciato il materiale pronto per la stampa così com’era, oppure cercando lei stessa di integrarlo, affidandosi alla sua buona conoscenza del pensiero del maestro. Già  a fine mese, però, soffre per questo modo di procedere, senza quasi potergli rivolgere la parola, ma qualche rara chiacchierata le restituisce la speranza di non dover fare tutto da sola. Intanto lo sforzo per penetrare nel pensiero di Husserl la porta a maturare alcune considerazioni personali in disaccordo con le idee di lui: “Credo di sapere un po’ che cosa si intenda per costituzione, ma in contrasto con l’idealismo. (… ) Non sono ancora riuscita a confessare le mie eresie al maestro… “. La “confessione” arriva poco tempo dopo: “Di recente ho sottoposto solennemente al maestro le mie preoccupazioni sull’ idea¬lismo. Non ne ò risultata una situazione “imbarazzante” (come Lei temeva). Mi ha fatto accomodare in un angolo del vecchio, caro sofà  e poi abbiamo discusso animatamente per due ore — senza che l’uno convincesse l’altro, ò ovvio. Il maestro dice che non sarebbe contrario a cambiare punto di vista se gliene dimostrassi la necessità . Cosa che finora non sono riuscita a fare”. A marzo si prende una vacanza, non senza che Husserl le affidi un altro manoscritto per riordinarlo, come contributo al suo svago. I fogli sono “in un tale disordine, da far pensare che il maestro un bel giorno si sia stancato e li abbia cacciati così com’erano in un cassetto”. Intanto riflette sulle difficoltà  che l’attendono al suo ritorno (“Se solo ora fosse disponibile ad un po’ di collaborazione!”; “non ho nessuna voglia di continuare ad accatastare pacchi di carta che lui non guarda nemmeno”), mentre inizia a sentire il desiderio di dedicarsi anche ad un po’ di lavoro autonomo. Al rientro la situazione non ò cambiata: alcune parti delle Ideen sarebbero pronte per la pubblicazione, ma nemmeno con questa prospettiva si riesce a convincere il maestro ad esaminarle. Intanto lui ha divagato, producendo del nuovo materiale molto interessante, ma che richiederà  l’aiuto dell’assistente perchè si trasformi in qualcosa di utilizzabile, e anche il manoscritto esaminato durante le vacanze meriterebbe attenzione. Ancora una volta la filosofa tiene duro: “Non riesco tuttavia a pensare di rinunciarvi in futuro. Sono infatti quasi certa che il maestro da solo non pubblicherebbe più niente, mentre lo ritengo importante, più di qualunque scritto che io potrei eventualmente produrre”. Qualche mese dopo, il lavoro sulle Ideen era completo ed il tempo passava senza che Husserl si decidesse a leggerlo. Edith Stein stava già  pensando di presentare le sue dimissioni per ottobre, quando trova altri appunti del maestro (sulla coscienza del tempo — Zeitbewusstsein) e torna a prevalere in lei l’idea della missione da compiere. In estate, per costringere il maestro a lavorare un po’ con lei, deve andarlo a trovare in villeggiatura, ottenendo così ben tre giorni della sua attenzione. La crisi arriva a febbraio del 1918, in occasione di una comunicazione del maestro, con la quale ancora una volta le chiede un poco gratificante lavoro da segretaria. Scrive al maestro una lettera di contenuto equivalente ad una richiesta di dimissioni, che egli accetta senza drammatizzare, solo con un leggero tono di rimprovero. Così spiega la sua decisione a Fritz Kaufmann: “Mettere in ordine manoscritti, che era l’unico mio lavoro da mesi, iniziava gradualmente a diventarmi insopportabile, e non mi sembra così necessario che, per fare questo, io debba rinunciare a qualsiasi attività  per mio conto”. Dopo meno di due anni di lavoro, Edith Stein lasciava due importanti opere praticamente pronte per la pubblicazione: la seconda parte delle Ideen e la “sesta ricerca”, oltre ad una grande quantità  di appunti di Husserl rimessi in ordine, di cui beneficeranno gli assistenti e studiosi che le succederanno. Così riferisce Ludwig Landgrebe, che fu assistente di Husserl dal 1923: “Edith Stein aveva il compito di mettere in ordine, di trascrivere i manoscritti stenografati di Husserl — abbozzi di libri e testi di lezioni — e di produrne un testo unitario che doveva servire a Husserl per la pubblicazione. Questo riguardava soprattutto tre grandi complessi: l’abbozzo del secondo volume delle “Idee per una fenomenologia pura”, il testo delle lezioni sulla “coscienza del tempo” e i vari fogli sparsi sulla “teoria del giudizio”. La trascrizione fu fatta a mano, nella sua scrittura chiara e ancora oggi leggibile nonostante la cattiva qualità  della carta del periodo successivo alla guerra (… ). Dei problemi che ci furono per Edith Stein in questa sua collaborazione con Husserl posso parlare per esperienza personale. Nel mentre cioò si conduceva a termine un tale compito di rielaborazione e si poteva presentarne il risultato a Husserl, egli aveva già  rivolto la propria attenzione a tutt’altri pensieri, e ci voleva uno sforzo notevole per riconquistare il suo interesse a quello che si era fatto. Queste erano le delusioni dunque che si provavano, ma che venivano accettate volentieri, perchè erano il prezzo che si doveva pagare per prendere parte al divenire vitale dei pensieri del grande maestro. (… ) Così queste rielaborazioni rimasero ferme per altri cinque anni dopo la dipartita di Edith Stein da Friburgo, finchè Husserl non le riprese in mano nel 1924 e diede a me l’incarico di collezionarle assieme agli originali, quelli che ancora c’erano, e di trascriverle a macchina. Ma ci vollero ancora degli anni prima che tutto ciò giungesse alla pubblicazione: le lezioni sulla coscienza del tempo nel 1929, pubblicate da Heidegger, i manoscritti sulla teoria del giudizio, pubblicati da me nel 1939 col titolo “Erfahrung und Urteil” e le “Ideen II”, pubblicate soltanto dal lascito di Husserl nel 1952″. Anche in lei questa esperienza lasciava un segno profondo: aveva potuto lavorare su del materiale cui pochi altri avrebbero avuto accesso per molto tempo, e ne ottenne una comprensione del pensiero di Husserl che poche persone — forse nessuno in quel momento — potevano vantare. I rapporti con Husserl rimasero buoni: l’anno seguente la Stein si impegnava a promuovere un numero speciale dello Jahrbuch per celebrare il sessantesimo compleanno del maestro e cercava un modo per avviare una qualche forma di collaborazione stabile con lui. In una lettera all’ amico Kaufmann (tornato a Friburgo dopo la guerra) ricambia i saluti affettuosi del maestro e scherza scrivendo: “Deve rimordergli molto la coscienza se ha chiesto tanto amorevolmente mie notizie”. L’amicizia e venerazione per Husserl non le impedivano, però, di considerarne lucidamente i difetti. “Non avrei mai considerato gli errori di una persona come motivo per togliergli la mia amicizia”, scrisse di sè nella Storia di una famiglia ebrea, e giudicava le persone con tanta più esigenza quanto più le erano care. Così si esprime senza reticenze riguardo alle difficoltà  che tutti incontravano nei rapporti con Husserl, scrivendo che a casa Husserl ci si scontra con l’ingiustizia ad ogni passo, ma bisogna ricordarsi che “lui [Husserl] ò quello che soffre di più, perchè ha sacrificato la sua umanità  per la sua scienza”. E in una lettera successiva: “Non smetterò mai (… ) di avere un’illimitata venerazione per il filosofo Husserl, e gli concederò sempre qualsiasi debolezza umana come cosa inevitabile. E mi sentirei ridicola se considerassi come un mio merito il fatto di essere un po’ più vicina di lui alla vita”. Continuerà  a mantenere buoni rapporti anche dopo la conversione. Quando, nel 1931, sembrano aprirsi per lei buone prospettive per l’insegnamento universitario, la famiglia Husserl vuole festeggiare con lei l’evento, e negli ultimi anni parteciperà  vivamente alla preoccupazione per la salute del maestro, chiedendo e diffondendo frequenti notizie. L’occhio critico, però, rimane sempre presente, ora aperto alla prospettiva della grazia, e la Stein si preoccupa per la fede del maestro. In una conversazione con lui sui novissimi, constata la profondità  con cui comprende queste cose, e se ne preoccupa, perchè ciò accresce la sua responsabilità . Più tardi però si dichiara fiduciosa, perchè “Dio ò la verità . Chi cerca la verità  cerca Dio, che lo sappia o no”. A Friburgo Edith Stein ebbe anche occasione di conoscere Martin Heidegger. Così ricorda il loro primo incontro, nell’estate del 1916, in casa di Husserl: “Quella sera Heidegger mi piacque molto. Era silenzioso e chiuso in se stesso per tutto il tempo in cui non si parlava di filosofia. Ma appena emergeva un argomento filosofico, si mostrava pieno di vita”. Ma questa prima impressione positiva venne presto affiancata da vari motivi di perplessità , quando non di aperto disaccordo. Appena persa la sua collaboratrice, Husserl si rivolse a Heidegger perchè ne prendesse il posto. Questa volta, però, con un vero stipendio pagato dall’università , più consistente di quanto riceveva Edith Stein. Ma ciò che faceva indignare la fenomenologa era la maggiore fiducia che Husserl accordava al suo nuovo assistente, e la poca lealtà  intellettuale dimostrata da quest’ultimo in contraccambio. Infatti Heidegger manteneva un atteggiamento distaccato nei confronti della fenomenologia husserliana, della quale si serviva a modo suo, e non senza criticarla. Così, mentre insegnava in qualità  di assistente di Husserl, in realtà  stava presentando il suo pensiero molto più di quello del “maestro”. La fedele discepola registra: “Heidegger gode della fiducia assoluta di Husserl e la usa per indirizzare la studentesca, sulla quale ha più influenza di Husserl stesso, in una direzione abbastanza lontana da lui. Tranne il buon maestro, lo sanno tutti”. Intanto fra i “vecchi” fenomenologi ci si interroga sulla opportunità  di organizzare delle conferenze per chiarire il vero contenuto della fenomenologia contro le deformazioni heideggeriane. Edith Stein ammirerà  sempre la genialità  di Heidegger, ma criticandone le idee. Quando, nel 1931, cercava appoggi per l’abilitazione uni¬ver¬sitaria, escluse a priori l’ipotesi di lavorare per lui, perchè in tal caso si sarebbe sentita in dovere di assecondare la sua linea di pensiero, cosa che non era in grado di fare. Anche la sua opera principale, Essere finito e Essere eterno, mostra già  nella scelta del titolo la sua posizione polemica rispetto ad Essere e tempo di Heidegger, oltre a presentare in appendice una dettagliata analisi del pensiero di questo autore. Terminata la collaborazione con Husserl, il primo impegno di Edith Stein fu di tornare a Gottinga, presso la moglie di Adolf Reinach, essendo questi da poco deceduto in guerra. I suoi amici e discepoli volevano fare qualcosa per commemorarne la scomparsa ed erano indecisi fra varie alternative; la vedova propendeva per una pubblicazione dei suoi scritti inediti e per questo motivo chiedeva all’amica Edith di curare la preparazione del materiale. Questo impegno rappresentò un’esperienza importante per la conversione della nostra filosofa. I coniugi Reinach, infatti, si erano da poco convertiti al cristianesimo, e durante questo suo soggiorno nella loro casa, Edith Stein potè fare l’esperienza viva del modo cristiano di vivere il dolore. Ne restò profondamente impressionata ed iniziò ad interessarsi di più al problema della fede: negli anni seguenti leggerà  il Nuovo Testamento e vari autori cristiani, in particolare Kierkegaard e santa Teresa di Gesù. Ricorderà  sempre che il suo primo incontro con la fede fu un incontro con la Croce, e per questo volle includerla nel suo nome religioso quando entrò nel carmelo. Finalmente poteva dedicarsi ad un lavoro autonomo: per qualche tempo rimase a Friburgo, collaborando con i fenomenologi, soprattutto coordinando il lavoro per la preparazione di un nuovo Jahrbuch. Da segnalare che fu probabilmente questa attività  a farle iniziare un rapporto epistolare con Hedwig Conrad-Martius che si trasformò in una duratura amicizia. Ben presto però vide che ciò che stava facendo non richiedeva la sua presenza a Friburgo e decise quindi di tornare a Breslavia da sua madre. Qui iniziò ad insegnare in un liceo femminile ed istituì un corso privato sulla fenomenologia al quale partecipavano una cinquantina di persone. Intanto si dedicava a quelle riflessioni personali per le quali non aveva mai trovato il tempo negli anni precedenti e che porteranno alle pubblicazioni sullo Jahrbuch degli anni successivi. I coniugi Conrad vivevano ritirati nella loro casa di campagna, presso Bergzabern, dividendo i loro interessi fra filosofia e lavori agricoli. Per i loro amici avevano istituito quello che oggi chiameremmo un servizio di agriturismo: tutti sapevano di poter trascorrere da loro un periodo di tempo, ripagando l’ospitalità  con l’aiuto nei lavori stagionali. Era una possibilità  di cui si avvalevano in molti, dato che era un ottimo modo per riposare dal lavoro intellettuale ed anche una buona occasione per mantenere i contatti con i vari amici che di volta in volta si trovavano a trascorrere lì qualche giorno. Rimasta sola, una sera, in casa Conrad, Edith Stein cercò nella biblioteca dell’amica qualcosa da leggere e scelse la Vita di santa Teresa di Gesù. Quella notte lesse il libro tutto d’un fiato, e alla fine della lettura, emozionata, diceva a se stessa “Questa ò la verità !”. Il giorno dopo comprò un messale e un Catechismo romano, e dopo averli studiati si recò alla locale parrocchia cattolica dove chiese di essere battezzata. Venne accolta nella Chiesa il 1 gennaio 1922; l’amica Hedwig, benchè protestante, ottenne il permesso per farle da madrina. Il suo principale desiderio era quello di entrare immediatamente in convento, seguendo l’insegnamen¬to di santa Teresa, ma le venne sconsigliato in considerazione della grande influenza che avrebbe potuto esercitare dalla sua posizione di filosofa già  conosciuta. Nel 1923 accettò pertanto di insegnare lingua e letteratura tedesca all’istituto magistrale S. Maria Mad¬dalena di Spira, tenuto dalle suore do¬menicane, presso le quali andò ad abitare, dedicandosi al lavoro, allo studio e alla preghiera. Oltre a continuare ad occuparsi dei precedenti interessi filosofici, le esigenze del nuovo lavoro la portarono ad affrontare anche questioni di pedagogia, con particolare attenzione ai temi relativi all’educazione della donna. Entrò in contatto con vari intellettuali cattolici, e in particolare con il circolo animato da Dietrich von Hildebrand. Iniziò anche a ricevere gli inviti di varie associazioni cattoliche femminili a tenere conferenze in cui contribuiva alle discussioni, allora particolarmente vive, sulla condizione della donna e la sua emancipazione. La svolta nella sua attività  intellettuale si produsse però in seguito al suo incontro con il padre Erich Przywara. Questi era in cerca della persona giusta per tradurre in tedesco alcune opere del cardinale Newman, e Dietrich von Hildebrand gli consigliò di parlarne ad Edith Stein, che accettò l’incarico. Con l’occasione di questo lavoro ebbero modo di conoscersi meglio, e quando Przywara si rese conto della statura intellettuale della Stein, la incoraggiò a continuare lo studio di san Tommaso, iniziato già  poco dopo la conversione, su consiglio di Gà¼nther Schulemann, vicario del Duomo di Breslavia, suggerendole in particolare di tradurre le Quà¦stiones disputatঠde veritate. Edith Stein accolse prontamente il consiglio, poichè comprendeva l’importanza di impossessarsi delle radici filosofiche della sua nuova fede. Fin dall’inizio di questo nuovo studio sentì il bisogno di confrontare la dottrina del Dottore Angelico con la fenomenologia. La sua conversione, infatti, non comportò un rifiuto della filosofia precedentemente appresa, anzi, ella pensò sempre di poter trovare una conciliazione fra feno¬me¬no¬logia e tomismo. La prima espressione di questo confronto apparve nel numero speciale dello Jahrbuch per il settantesimo compleanno di Husserl , mentre si può dire che Essere finito ed essere eterno ne fu l’ultima, dato che fin dalle prime pagine si presenta come un tentativo di realizzare una sintesi tra san Tommaso e la fenomenologia. Durante gli anni di Spira tentò anche l’abilitazione all’in¬segnamento universitario, ma si scontrò con una mentalità  che ancora non concedeva spazio alle donne per certe professioni. L’unico risultato del suo primo tentativo fu che a Gottinga l’ inse¬gnamento universitario per le donne smise di essere legalmente impossibile, rimanendo impossibile soltanto di fatto. Intanto la pressione delle sue varie attività  cresceva: conferenze sempre più frequenti, il De veritate che non finiva mai, impegni sempre più coinvolgenti all’interno dell’istituto. Nel 1931 decise di lasciare l’insegnamento e di tornare a Breslavia, per dedicarsi interamente a terminare la traduzione del De veritate e poi decidere cosa fare per il futuro. Nel 1932 venne invitata alla prima giornata di studi della “Sociètè Thomiste” a Juvisy, vicino Parigi, e ne approfittò per fare visita all’ amico Alexander Koyrè, che insegnava a Parigi. Dell’intervento alla giornata di studi, dedicata a “Fenomenologia e tomismo”, di cui abbiamo gli atti, uno dei partecipanti fa questa ricostruzione: “Si voleva scambiare le proprie idee sulla fenomenologia, sull’indirizzo filosofico che partiva da Husserl, prima a Gà¶ttingen, poi a Friburgo i. Br. Il congresso era presieduto da Noà«l di Lovanio. Erano presenti i primi filosofi cattolici francesi e belgi, fra gli altri Maritain e Berdjaev. Dalla Germania c’erano padre Mager OSB, Daniel Feuling OSB, von Rintelen, di Monaco, il prof. Sà¶lingen di Bonn (poi Braunsberg, ora di nuovo Bonn), Edith Stein e io. Padre Feuling tenne la sua conferenza. La discussione fu dominata del tutto da Edith Stein. Certamente lei conosceva meglio di tutti la concezione di Husserl, perchè era stata per anni sua assistente a Friburgo i. Br., ma ella sviluppò i propri pensieri in modo così chiaro, se necessario anche in francese, che l’impres¬sione generale fu straordinariamente forte in questa società  di dotti”. Fra gli stimoli intellettuali che Edith Stein si aspettava dalla sua visita in Francia, ebbe sicuramente un peso importante l’incontro con Jacques Maritain e sua moglie, con i quali rimase in contatto epistolare negli anni successivi. Intorno al 1931-32 le si presentarono due nuove possibilità  di tentare la strada dell’insegnamento universitario: a Friburgo, dove vari professori le avevano promesso il loro appoggio, e nella stessa Breslavia, dove le si offriva di tenere un corso di introduzione alla filosofia fenomenologica. Anche queste due opportunità  sfumarono, ma di questo nuovo tentativo ci restano i lavori preparati per l’occasione: Potenz und Akt, e Introduzione alla filosofia. Si concretò invece un’offerta di lavoro dell’ “Istituto tedesco di pedagogia scientifica” di Mà¼nster, dove insegnò nell’anno accademico 1932/33. L’inizio del successivo anno accademico fu preceduto da una nuova legge del Reich, che impediva l’accesso all’inse¬gna¬mento alle persone di origine ebrea. Edith Stein si licenziò dall’Istituto. Trovandosi di nuovo a dover decidere del suo futuro, aveva davanti a sè due principali alternative: un’offerta di lavoro dall’America Latina o la possibilità  di ritentare la strada del convento, che le era stata negata dieci anni prima. Dopo aver chiesto luci al Signore, e comprendendo abbastanza bene i rischi che correva rimanendo in Germania, chiese di essere ammessa nel carmelo di Colonia, dove prese il nome di Teresa Benedetta della Croce. Entrò al carmelo disposta ad abbandonare del tutto la sua attività  filosofica, ma ben presto i suoi superiori iniziarono ad affidarle incarichi intellettuali: opuscoli commemorativi di vari santi, studi sulla spiritualità  carmelitana, uno studio su Dionigi l’Areopagita. Con l’intento di fare un’apologia degli ebrei tedeschi, già  prima di entrare al carmelo aveva iniziato a scrivere la storia della sua famiglia, ed a più riprese la continuò anche nel carmelo. Infine venne incoraggiata, forse anche per distrarla dal crescente clima di persecuzione che si stava producendo in Germania, a riprendere e completare il lavoro iniziato con Potenz und Akt. Esaminando i suoi appunti decise di riscriverlo daccapo, e verso il 1936 era pronta per le stampe la sua più importante opera filosofica: Essere finito e Essere eterno. Non riuscì però a pubblicarla, perchè anche le case editrici più coraggiose non osavano ospitare l’opera di un’ebrea, e pubblicare sotto falso nome un’opera così personale le parve una soluzione inaccettabile. Nel 1938 la situazione in Germania era deteriorata tanto che il carmelo non offriva più alcuna garanzia di sicurezza. Venne pertanto deciso di trasferire Edith Stein in Olanda, nel vicino e affiliato carmelo di Echt, dove la raggiunse anche la sorella Rosa, convertitasi al cattolicesimo dopo la morte della madre. Qui Edith si mise a studiare la spiritualità  di san Giovanni della Croce ed iniziò a scrivere il saggio Scientia Crucis. Con l’invasione tedesca del 1940, anche l’Olanda smise di rappresentare un rifugio sicuro per le due sorelle, sebbene le autorità  tedesche avessero assicurato che non avrebbero incluso nella persecuzione gli ebrei cristiani, purchè convertiti prima dell’invasione. Per questo si iniziarono le pratiche per tentare un trasferimento in Svizzera. Nel frattempo (26/7/1942) i vescovi olandesi pubblicarono un documento di condanna della persecuzione antisemita. La risposta tedesca fu immediata: la domenica seguente (2/8/1942) vennero deportati i cattolici olandesi di origine ebrea, comprese le due sorelle Stein, ed uccisi ad Auschwitz il 9 agosto 1942. Fu un atto compiuto con l’evidente intenzione di offendere la Chiesa Cattolica, per questo l’11 ottobre 1998 Edith Stein ò stata canonizzata come martire della fede, e viene venerata con il nome carmelitano di santa Teresa Benedetta della Croce. Il 1 ottobre 1999 Giovanni Paolo II l’ha nominata co-patrona d’Europa, insieme con santa Caterina da Siena e santa Brigida di Svezia. Il pensiero “Ebrea, filosofa, carmelitana, martire, Edith Stein (1891-1942), ‘che porta nella sua intensa vita una sintesi drammatica del nostro secolo’ (Giovanni Paolo II, 1 maggio 1985), e che la Chiesa annovera fra i suoi santi (dall’11 ottobre 1998) apre cammini di rapporto e di comunione in ambiti e a livelli diversi, ma in punti nodali dell’esperienza umana, cristiana, ecclesiale, interreligiosa”. Di questa figura femminile così ricca e poliedrica altri esperti hanno scritto e scriveranno per lumeggiare il contributo di pensiero e di azione nei diversi ambiti. Per esempio, nell’ambito culturale sociale: Edith si adoperò, con scritti, lezioni e conferenze, a promuovere il ruolo della donna nella società  e nella Chiesa. Con ricerche sulla nozione dello Stato ne chiarì il rapporto con la nazione, con il popolo e la società , e anche il suo precario equilibrio con la sfera religiosa. Lei che all’inizio era fortemente nazionalista e “prussiana”, dopo la grande guerra parteggiò per la repubblica di Weimar, e s’impegnò fortemente a contrastare i primi successi del partito nazionalsocialista. Soprattutto nell’ambito filosofico, Edith ha lasciato segni incancellabili di originalità : lei che era l’allieva e assistente prediletta di Husserl, a Friburgo, e avrebbe meritato di succedergli nella cattedra, (la prese invece Heidegger, che si mostrò acquiescente col nazismo!) superando il maestro, tentò di gettare un ponte tra la filosofia contemporanea, sintetizzata nella fenomenologia husserliana e la tradizione medievale, espressa dalla filosofia di S. Tommaso, scavalcando la neo-scolastica. Il suo capolavoro resta Essere finito ed Essere eterno, quasi una nuova ontologia, sintesi di filosofia e mistica. Se avesse potuto continuare le sue ricerche e creare un movimento di pensiero, com’era nella sua indole, forse l’avremmo salutata come la più grande filosofa dei secolo! Infine, nell’ambito religioso mistico, attraversando la spiritualità  domenicana, benedettina e approdando alla mistica di S. Teresa d’Avila e di S. Giovanni della Croce, portò a compimento il suo progetto di vita: pensiero ed esperienza della Croce con Cristo crocifisso, come sacrificio-donazione per la salvezza del suo popolo. Il suo ultimo scritto, “La scienza della croce” (Scientia Crucis), rimase incompiuto, proprio perchè lo avrebbe concluso in una camera a gas nel campo di Auschwitz!. In tutti questi ambiti, sia col pensiero sia con l’azione, il filo rosso della continuità  ò stato la “intersoggettività “, (einfulung, “empatia”, intuizione empatica), la “comunione”. Quel che ora mi propongo ò di mostrare il cammino di rapporto e di comunione che si ò realizzato, nella vita di Edith, tra l’essere ebrea e l’essere santa-martire cattolica. Edith nasce a Breslavia (ora territorio polacco) il 12 ottobre 1891, in una famiglia ebrea molto praticante. Nasce, ultima di sette figli, proprio in una festa religiosa ebraica, nel giorno del Kippur, cioò dell’Espiazione. Per la madre, Augusta, questo era il presagio di un particolare destino della figlia. Ecco come ricorda la tradizione religiosa nella famiglia materna: “I ragazzi studiarono religione sotto la guida di un professore ebreo; impararono anche un po’ di ebraico… Appresero i comandamenti, lessero brani tratti dalle scritture e impararono a memoria alcuni salmi (in tedesco). Fu sempre insegnato loro il rispetto nei confronti di qualsiasi religione, e di non parlarne mai male. Il nonno insegnò ai suoi figli le preghiere prescritte. Il sabato pomeriggio entrambi i genitori chiamavano a raccolta i figli che erano in casa, per pregare insieme con loro le preghiere vespertine e serali e spiegarle. Lo studio giornaliero delle Scritture e del Talmud – considerato un obbligo dell’uomo ebreo nei secoli precedenti e tuttora in uso presso gli ebrei orientali – non veniva più praticato a casa dei miei nonni; ciò nonostante tutti i precetti della Legge venivano osservati col massimo rigore”. In seguito Edith racconta la pratica religiosa vissuta nella famiglia in occasione delle feste principali. Ma qualche annotazione ci apre alla comprensione del tipo di educazione assimilata. Per esempio, in occasione della liturgia del Seder (la Pasqua), annota: “la solennità  della festa soffriva del fatto che soltanto mia madre e i bambini più piccoli vi partecipavano con devozione. I fratelli che dovevano dire le preghiere al posto di nostro padre, che era morto, lo facevano in modo poco dignitoso. Quando il maggiore mancava e il minore assumeva le funzioni di padrone di casa, faceva chiaramente notare quanto si prendesse intimamente gioco di tutto questo”. E in occasione della festa dell’Espiazione (Kippur): “Quella sera non solo mia madre andava al tempio, ma era accompagnata dalle sorelle più grandi, e anche i fratelli consideravano un loro dovere morale il non mancare… Nessuno di noi si dispensava dal digiuno, anche quando non condividevamo più la fede di mia madre e non ci attenevamo più alle prescrizioni rituali al di fuori di casa nostra”. Quello dunque che di questo ambiente ha messo forti radici in Edith non ò la fede nel Dio d’Israele, ma un forte rigore morale, derivante dalla Legge. “La mamma ci insegnava l’orrore del male. Quando diceva: “ò peccato”, quel termine esprimeva il colmo della bruttezza e della cattiveria, e ci lasciava sconvolti”. Cosi altrove Edith ricorda gli anni dell’infanzia. Lei stessa, ormai sul punto di trasferirsi da Breslavia all’Università  di Gottinga (1911), si confessa “non credente, dotata di forte idealismo etico”. Conserverà  grande stima e ammirazione per la pietà  religiosa della madre, e la accompagnerà  sempre, quando ò in famiglia, alla funzione della sinagoga, anche dopo il battesimo, anche alla vigilia dell’ingresso nel Carmelo. Qualche tratto della sua limpidezza morale: quando attraverso la lettura di un testo romanzato le si rappresentò la vita studentesca con tratti ripugnanti, dissolutezza, alcolismo, ecc., ne rimase nauseata a tal punto che non potè, per settimane intere, ristabilirsi nella propria allegria. Eppure Edith, sebbene esteriormente riservata e dedita con abnegazione al lavoro, portava nel cuore “la speranza di un grande amore e di un matrimonio felice”, e annota: “Senza avere alcuna conoscenza della dogmatica e della morale cattolica, ero tuttavia impregnata dell’ideale matrimoniale cattolico”. Al rigore morale in Edith corrisponde, nella sua vivace e profonda intelligenza, la ricerca e la sete della verità . Non poteva sentirsi soddisfatta della corrente psicologista di tipo positivistico, prevalente nell’Università  di Breslavia, e perciò si orientò, appena ne venne a conoscenza, verso la “Fenomenologia” di Edmund Husserl, cattedratico a Gottinga. Ecco come, dopo anni di esperienza, descrive il metodo di Husserl: “Il suo modo di guidare lo sguardo sulle cose stesse e di educare a coglierle intellettualmente con assoluto rigore, a descriverle in maniera sobria, fedele e coscienziosa, ha liberato i suoi allievi da ogni arbitrio e da ogni fatuità  nella conoscenza, portandoli a un atteggiamento cognitivo semplice, sottomesso all’oggetto e perciò umile. Nello stesso tempo ha insegnato a liberarsi dai pregiudizi e a togliere tutti gli ostacoli che potrebbero distruggere la sensibilità  verso intuizioni nuove. Questo atteggiamento, a cui ci ha responsabilmente educati, ha liberato molti di noi, rendendoci disponibili nei confronti della verità  cattolica”. Ma già  a partire dai primi anni di Gottinga (1911-1914) annota: “Avevo un profondo rispetto per le questioni di fede e avevo conosciuto persone credenti; a volte andavo addirittura in una chiesa – protestante – con le mie amiche… ma non avevo ancora ritrovato la via verso Dio”. E’ un fatto storico notevole: nel gruppo di allievi e collaboratori di Husserl ci sono state parecchie conversioni religiose. Lo stesso Husseri e la moglie erano passati dal giudaismo al protestantesimo, alla Chiesa Riformata luterana di Vienna, dove ricevettero il battesimo (Husserl aveva 27 anni). I figli erano stati istruiti nella religione protestante. Sebbene nel suo lavoro filosofico non si ponga esplicitamente il problema religioso e affermi di non essere un filosofo cristiano, pure, in una conversazione privata con l’allieva e amica di Edith, Aldegonda, esclama: “Ve l’ho detto tante volte: la mia filosofia, la fenomenologia, non vuole essere altro che una via, un metodo che permetta a coloro che si sono allontanati dal cristianesimo e dalla Chiesa di ritornare verso Dio”. Nel gruppo husserliano spicca il prof. Adolf Reinach che, insieme alla moglie Anna si converte dal giudaismo alla fede evangelica. E questa, dopo la morte in guerra dei marito, passa alla Chiesa cattolica. Lo stesso avverrà  della moglie del prof. Husserl e del prof. Alessandro Koyrè, anche lui convertito. La prof. ssa Hedwig Conrad-Martius, convertitasi alla fede evangelica con il marito, saranno grandi amici di Edith, ed ò nella loro casa che Edith avrà  la grande folgorazione, dopo la lettura – tutta d’un fiato – dell’Autobiografia di S. Teresa d’Avila: “Questa ò la verità !” E sarà  l’amica Hedwig, protestante, a fare da madrina al battesimo cattolico di Edith. Ma fu sotrattutto Max Scheler, aggiuntosi più tardi al gruppo e spesso in polemica con Husseri, a esercitare influenza su Edith: “la maniera che aveva… di diffondere sollecitazioni geniali, senza approfondirle sistematicamente, aveva qualcosa di brillante e seducente”. I suoi scritti riguardanti i valori e l’empatia avevano per Edith un’importanza particolare. Proprio allora cominciò ad occuparsi dei problema della Einfulung (empatia, intuizione empatica) che fu l’argomento della sua tesi di laurea. Ma l’influenza di Scheler acquistò importanza anche al di là  dell’ambito filosofico. Egli infatti era passato dal giudaismo alla Chiesa cattolica, ma poi, per motivi di vita privata, se n’era allontanato e infine vi era rientrato. Scheler “aveva molte idee cattoliche e sapeva divulgarle facendo uso della sua brillante intelligenza e abilità  linguistica. Fu cosi che venni per la prima volta in contatto con un mondo che fino ad allora mi era stato completamente sconosciuto. Ciò non mi condusse ancora alla fede, tuttavia mi dischiuse un campo di “fenomeni” dinanzi ai quali non potevo più essere cieca… I limiti dei pregiudizi razionalistici nei quali ero cresciuta senza saperlo, caddero, e il mondo della fede comparve improvvisamente dinanzi a me. Persone con le quali avevo rapporti quotidiani e alle quali guardavo con ammirazione, vivevano in quel mondo. Doveva perciò valere la pena almeno di riflettervi seriamente. Per il moniento non mi occupai metodicamente di questioni religiose; ero troppo occupata in molte altre cose. Mi accontentai di accogliere in me, senza opporre resistenza, gli stimoli che mi venivano dall’ambiente che frequentavo, e quasi senza accorgermene ne fui pian piano trasformata”. In realtà  in questi anni di Gottinga la “sete della verità ” che Edith diceva essere la sua unica preghiera, inconsciamente si trasformava in “sete di Dio”. Quando, per esempio nel 1916, alla vigilia della discussione della tesi, a Friburgo, ha una lunga conversazione con Hans Lipps, uno dei gruppo che ironizza sul fervore di due amici, Dietrich von Hildebrand e Siegfried Hamburger, convertiti al cattolicesimo, Edith annota: “No, io non ero tra quelli. Avrei quasi detto: “Purtroppo no””. L’amico afferma di non capirci niente, e lei: “Io capivo un poco. Ma non potevo dire molto in proposito”. Nel 1915 scoppia la Prima Guerra mondiale. Edith, appena superato l’esame di Stato in Filosofia, fece domanda alla Croce Rossa per entrare nel servizio sanitario. E così si trovò a prestare servizio come “ausiliaria”, per vari mesi, presso un grande ospedale militare per malattie infettive a Weisskirchen, in territorio austriaco. Alle rimostranze della madre per tale decisione oppone: “Se la gente era costretta a soffrire giù nelle trincee, perchè io dovevo stare meglio di loro? “. Per parte sua, vorrebbe ancora continuare questo servizio, pensando a tanti suoi colleghi che stanno al fronte (e qualcuno non ne ritornerà  vivo). Ma non ottiene il rinnovo. Certamente questa esperienza ò stata per Edith occasione di crescita spirituale, come distacco da sè e dai propri progetti scientifici, maggiore apertura agli altri e incontro reale con la sofferenza e la morte. Per la serietà  e la dedizione al lavoro infermieristio, alla fine della guerra le viene assegnata la “medaglia del coraggio” della Croce Rossa. Nella vita della giovane Edith in questi anni (1915-1919, non mancano prove, come delusioni affettive, problemi familiari, crisi intellettuali, alle prese con gli sviluppi dei cammino “fenomenologico” del maestro Husserl, di cui ò diventata assistente. Edith non condivide questi sviluppi, e sente il peso troppo forte di questa collaborazione. Lei che ha tanto desiderato un posto d’insegnamento all’Università  – e lo stesso Husserl appoggia la sua domanda – vede fallire ogni tentativo in proposito (ottobre 1919). Ma nel novembre 1917 riceve la notizia della morte di Adolf Reinach, ucciso sul fronte delle Ardenne. Per Edith ò un trauma, perchè, oltre che maestro, Adolf Reinach ò per lei amico e confidente. Ora, stando accanto alla vedova Anna Reinach, e collaborando con lei per classificare le carte dei marito in vista della pubblicazione, fa un’esperienza di vita in chiave di fede, tutta positiva. I coniugi Reinach si erano appena da un anno convertiti al protestantesimo. Ma già  il marito si sentiva vicino al cattolicesimo, come appariva dai suoi Appunti su una fìlosofia della religione. Era stata la moglie a voler presto il battesimo: “non pregiudichiamo il futuro; quando saremo in comunione con Cristo, ci porterà  dove vorrà . Entriamo nella sua Chiesa, non posso aspettare di più!”. E proprio in questa prova suprema, la morte dei marito, Anna attinge nella “comunione con Cristo” tanta forza e tanta pace che ò lei non a ricevere da altri, ma a dispensare consolazione a quelli che la circondano. Per Edith ò un’esperienza della Croce di Cristo, determinante, come in seguito confiderà  al P. Hirschmann, gesuita. Edith arriva al battesimo il I° gennaio 1922. Aveva lasciato il suo lavoro di assistente di Husserl (1919) e si era ritirata a Breslavia, concentrandosi nella ricerca personale filosofica e religiosa, e anche elaborando nuove forme di insegnamento. Passa lunghi periodi ospite degli amici Conrad-Martius, a Bergzabem nel Palatinato, anche lavorando duramente nei campi, con dedizione inesauribile… molto silenziosa e segreta… sembrava sempre concentrata, come assorbita in una meditazione ininterrotta… La domenica accompagnava Hedwig alla chiesa protestante, per la funzione. Un giorno osservò: “Per i protestanti il cielo ò chiuso, per i cattolici invece ò aperto”. Anche prima della conversione, Edith aveva profondo rispetto per l’Eucaristia, presagendovi un mistero ineffabile. Uno squarcio autobiografico sul dramma interiore che sta vivendo lo possiamo leggere in un testo scritto da Edith sulla “Causalità  psichica”, pubblicato proprio nel 1922 negli Annali di Husserl: “Faccio progetti per l’avvenire e organizzo di conseguenza la mia vita presente. Ma nel profondo sono convinta che si produrrà  un qualche avvenimento che butterà  a mare tutti i miei progetti. E’ la fede viva, la fede autentica alla quale ancora rifiuto di consentire, ò a questa fede che io impedisco di divenire attiva dentro di me”. Il testo, molto bello, continua descrivendo la trasformazione che avviene in questo stato di “riposo in Dio”, a partire dal silenzio della morte e sfociante in un afflusso di vita nuova, per la presenza di una “Forza che non ò mia e che senza fare violenza alcuna alla mia attività , diventa attiva in me”. Possiamo allora cogliere il senso del grido: “Questa ò la verità !”, che Edith sente risuonare nel suo spirito, al termine della lettura dell’Autobiografia di S. Teresa d’Avila, con queste parole: “Realizzo pienamente la verità  nel donarmi, nell’abbandonarmi totalmente all’Amore” (cf. Giov. 3, 21; Ef 4, 15). La “fede” in Cristo non era solo la conclusione della sua lunga ricerca intellettuale, ma la sintesi di una “nuova vita” operata dalla grazia. La conversione ò un punto molto importante per capire quanto sia “profetica” la vicenda di Edith. Si pensi a quel che avviene, più o meno negli stessi anni, in un altro gruppo di amici ebrei passati al cristianesimo evangelico: Eugen Rosenstock, Hans e Viktor Eherenberg, gravitanti intorno all’università  di Lipsia. Uno di loro, Franz Rosenzweig (1886-1929), in un primo momento stava per decidersi per il battesimo, ma poi ha un sussulto di orgoglio della propria radice ebraica, e polemicamente, in un confronto durato a lungo con l’amico Rosenstock, nega che possa esserci una base comune tra l’ebreo come tale e il cristiano di ascendenza ebraica. “Non c’ò più alcun substrato ebraico vivo entro al cristiano militante e tanto meno, a parere di Rosenzweig, vi ò liceità  alcuna per l’ibrido giudeo-cristiano. Divenendo cristiani non si ò più ebrei, si ò cessato competamente di esserio. Anzi… in verità  non lo si ò mai stati, altrimenti la viva appartenenza alla comunità  sinagogale non avrebbe reso possibile il passaggio al cristianesimo”. Questa era la mentalità  dominante. La madre di Edith, per esempio, non potè mai capire e accettare che la figlia, che pur continuava a frequentare con lei la sinagoga, si fosse rivolta a Cristo: era un tradimento, una separazione radicale dai beni più cari: il proprio popolo, la propria religione! Lo stesso grande filosofo ebreo Henry Bergson, che era approdato, nel suo lungo percorso, al Cristo dei vangeli, negli ultimi anni di vita (1859-1941) esitava a farsi battezzare nella Chiesa cattolica, per timore che il gesto fosse interpretato come un distacco dal suo popolo proprio nel momento più duro della persecuzione nazista. Ora ò indubitabile che la conversione a Cristo di Edith – avvenuta col battesimo del I° gennaio 1922 – non solo non segnò il distacco e tanto meno il tradimento del suo essere Ebrea, ma, paradossalmente, segnò una nuova riscoperta della propria ebraicità . Disse un giorno Husserl, parlando della conversione di Edith Stein: “In lei tutto ò autentico… Ma, in fin dei conti, c’ò, in fondo a ogni ebreo, un assolutismo e un amore del martirio”. Proprio cosi, da “vera ebrea” attirata da Dio, Edith vive solo per lui, con lo sguardo fisso sul suo Signore crocifisso, Gesù nazareno, Re dei giudei, e il desiderio di immolarsi per Cristo ò tuttuno col desiderio di immolarsi per il suo popolo. Su questo argomento, oltre alle fonti citate, ho trovato in Internet un ottimo studio del P. Jean Sleiman, Definitore Generale dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi, letto nel Simposio Internazionale su Edith Stein, tenutosi al Teresianum di Roma nell’ottobre 1998, in occasione della canonizzazione. La mentalità  dominante nell’ambiente familiare viene espressa – a distanza di tempo – da una nipote di Edith, Susanne Batzdorff- Biberstein: “Diventando cattolica nostra zia aveva abbandonato il suo popolo; il suo ingresso in convento manifestava di fronte al mondo esterno una volontà  di separarsi dal popolo ebreo”. Al contrario, nell’omelia per la beatificazione (1987), Giovanni Paolo II, con cognizione di causa, affermava: “Ricevere il battesimo non significò in alcun modo per Edith Stein rompere con il mondo ebraico. Al contrario ella afferma: “Quando ero ragazza di quattordici anni smisi di praticare la religione ebraica e per prima cosa, dopo il mio ritorno a Dio, mi sono sentita ebrea”. Edith si considera “figlia di Israele” e ne rimarrà  fiera tutta la vita, perchè sente che ò il popolo di Cristo stesso: “Non si può neanche immaginare quanto sia importante per me, ogni mattina quando mi reco in cappella, ripetermi, alzando lo sguardo al Crocifisso e all’effigie della Madonna: erano del mio stesso sangue!”. Al padre gesuita Hirschmann scrisse: “Non può immaginare che cosa significhi per me essere figlia del popolo eletto, significa appartenere a Cristo non solo con lo spirito, ma con il sangue”. Come “ebrea”, Edith non fa questione di “razza”. Immersa nel mistero d’Israele, contempla nel Cristo Crocifisso, “re dei giudei” la piena realizzazione delle promesse, delle attese dell’alleanza divina col suo popolo. Perciò tutti gli ebrei sono di Cristo! Ricordiamoci la data di nascita di Edith: 12 ottobre 1891, in cui ricorreva la festa ebraica del Kippur, giorno del perdono e della riconciliazione. Ora Edith, divenuta cattolica e prossima ad entrare nel Carmelo, contempla il legame profetico tra il giorno dei Kippur e il giorno del Venerdì Santo: “Il giorno della Riconciliazione dell’Antico Testamento ò la figura del Venerdì Santo: l’agnello immolato per i peccati del mondo rappresenta l’Agnello immacolato”. Il Cristo, “accettando di morire vittima, ò l’eterno Sacerdote”. Cristo, dunque, appartiene al popolo ebreo, ma anche la Chiesa – dice esultando Edith nel “Dialogo notturno”: “La Chiesa vidi nascere dal seno del mio popolo. Dal suo Cuore spuntare vidi poi, come tenero tralcio allor fiorito, l’Immacolata, la tutta Pura, di David discendente”. E “nel cuore della Vergine”, figlia d’Israele, “dal Cuore di Gesù vidi fluire la pienezza di grazia”. Il rapporto stretto con la madre Augusta, fedele osservante della fede ebraica, ci aiuta ancora a comprendere la convinzione di Edith circa la non incompatibilità  tra le due fedi, ebraica e cristiana. E’ l’ultima volta che Edith accompagna la madre alla sinagoga, per la festa dei Tabernacoli (sta per entrare nel Carmelo), e nel ritornare a casa la mamma le chiede: “Non era bella la predica? ” – “Sì”. “Anche nella fede ebraica si può essere religiosi, non ti pare? ” – “Certamente, quando non si ò conosciuto altro”. Allora la madre replica, desolata: “E tu, perchè l’hai conosciuto? Non voglio dir niente contro di lui, sarà  stato certamente un uomo molto buono, ma perchè si ò fatto Dio? “. Madre e figlia soffrono terribilmente, al punto che Edith scrive: “Ho dovuto compiere il passo da sola e totalmente immersa nella notte della fede. Spesso, nel corso di quelle settimane così dure, mi sono chiesta quale di noi due, mamma o io, ci avrebbe rimesso la salute. Ma siamo rimaste ferme sulle nostre posizioni fino all’ultimo giorno”. Eppure Edith conserva ammirazione per la fede della mamma, non per puro istinto di affetto filiale, ma per la radicata convinzione che Dio opera anche oltre i confini della Chiesa, opera anche nelle altre religioni. Alcune lettere scritte nel 1936, nel 1938 e nel 1939, ricordano la morte della mamma: “Dio l’ha presa con lui rapidamente”; “Oggi [la mamma] celebra il suo 87° anniversario con la cara nostra Santa Teresa”. Teresa di Lisieux: era infatti il 3 ottobre 1936, giorno – a quel tempo – della sua festa. Come si vede, pone sua madre in cielo in compagnia di una santa canonizzata, nessuna reticenza circa il destino dei suoi parenti giudei! Questo suo sentire va insieme alla chiara affermazione: “Mia madre ò rimasta fino all’ultimo fedele alla sua fede. Ma dato che questa sua fede e il completo abbandono nel suo Dio l’hanno accompagnata dall’infanzia fino all’87° anno di età , e sono rimasti accesi in lei fino all’ultimo, anche mentre lottava con la morte, sono convinta che abbia trovato un giudice molto generoso ed ora aiuterà  anche me ad arrivare alla meta”. Edith arriva ad attribuire dei poteri di intercessione alla madre: commentando la visita fattale dal fratello in partenza per l’America, scrive all’amica Hedwig Dulberg: “Il giorno dei morti ricorderemo entrambe le nostre mamme. Questo pensiero mi ò di grande consolazione. Credo fermamente che mia madre abbia il potere di aiutare i suoi figli in pericolo” (4 ottobre 1938). Anche per il suo “caro Maestro”, il Prof. Edmund Husserl, che era in fin di vita (1938), Edith si esprime con grande apertura di spirito: “Non sono affatto preoccupata per il mio caro Maestro. E’ stato sempre lontano da me il pensare che la misericordia di Dio si permetta di essere circoscritta ai limiti visibili della Chiesa. Dio ò la verità . Chi cerca la verità , cerca Dio, che ne sia cosciente o no”. Come non ammirare queste anticipazioni profetiche delle posizioni prese dalla Chiesa, dal Concilio Vaticano II in poi, circa i rapporti ecumenici, e particolarmente con gli ebrei? Agli inizi degli anni ’30 la Germania versava in piena crisi economica e grave instabilità  politica, mentre lentamente ma inesorabilmente saliva il partito nazionalsocialista di Hitler. Edith in quegli anni si trovava come insegnante presso le Domenicane di Spira (1922-1931), e in seguito presso l’Istituto di Pedagogia scientifica di Munster (1932-1933). Contemporaneamente, però, era impegnata in conferenze pubbliche molto richieste e apprezzate su problemi dell’educazione e del ruolo della donna. Attenta da sempre alla storia del mondo, e come cristiana educata a interpretare gli eventi alla luce del vangelo, intuì presto il carattere totalitario e anticristiano del movimento nazista: “Oggi non c’ò nulla che ci manchi così tanto come il battesimo nello spirito e nel fuoco… Nella grande battaglia che, più che mai, ò in corso tra Cristo e Lucifero, vi sono quelle che sono chiamate per vocazione a formare gli uomini che devono andare al fronte. Armarci per la lotta e rimanere armate in permanenza: questo ò il nostro dovere più pressante”. Così Edith si rivolgeva alle sue ascoltatrici. Intanto rifletteva quale fosse il suo posto al fronte. Edith non stenta a capire subito il futuro: il nazismo, incarnazione del Maligno, nemico della Croce, combatte Dio stesso e il suo piano salvifico, perciò non può non cominciare dal voler distruggere il giudaismo, come fondamento della stessa religione cristiana, eliminare la “peste giudeo-cristìana” per instaurare il regno della razza ariana. Nel 1931, al momento di accomiatarsi dalle allieve di Spira, una le dice: “Ma signorina, lei ò sconvolta!”. “Non posso fare a meno di essere triste e di agitarmi, quando so che Hitler arresterà  molto presto i miei parenti e anche me. Cosa fare? “. Siamo al primo venerdì d’aprile 1933: Edith, non ancora carmelitana, proprio nella cappella del Carmelo di Colonia ha una profonda esperienza spirituale: “Mi rivolgevo interiormente al Signore, dicendogli che sapevo che era proprio la sua Croce che veniva imposta al nostro popolo. La maggior parte degli ebrei non riconosceva il Signore, ma quelli che capivano non avrebbero potuto fare a meno di portare la Croce. E’ ciò che desideravo fare. Gli chiesi soltanto di mostrarmi come”. Sentendosi seriamente coinvolta nella sorte del suo popolo, continua a interrogarsi se potesse fare qualcosa per il problema degli ebrei. “Infine avevo deciso di recarmi a Roma e di chiedere al Santo Padre [Pio XI] una Enciclica, in una udienza privata”. Risultato impraticabile questo progetto (a giudizio del suo direttore spirituale, l’Abate di Beuron, Don Walzer), Edith ripiega a scrivere una lettera al Santo Padre, nella quale non si limitava a parlare degli ebrei, ma anche del futuro della Chiesa in Germania. “So che la mia lettera gli ò stata consegnata direttamente e ancora chiusa… mi sono spesso domandata se il tenore del mio messaggio abbia in qualche modo destato l’attenzione del Sommo Pontefice. Le previsioni che vi facevo, riguardanti il destino dei cattolici in Germania, si sono puntualmente realizzate”. A giudizio del P. Jan H. Nota, gesuita olandese, che fu amico di Edith e ha poi approfondito il suo pensiero, questo passo compiuto da Edith potrebbe aver influito sulle posizioni assunte da Pio XI contro il razzismo e l’antisemitismo. Sul piano dell’azione a favore del suo popolo Edith ha fatto quanto le era unianamente possibile. Ma il Signore le apre nuove vie di amore eroico per i fratelli ebrei. Nella stessa quaresima del 1933, ospite casuale di un collega dell’Istituto di Munster, Edith, che non era conosciuta da questi come ebrea, riceve mol

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