Eugenio Montale nacque a Genova, nel 1896, da un’agiata famiglia di commercianti. La formazione letteraria non fu il risultato di corsi scolastici, ma di assidue letture personali, condotte in particolare su autori quali i vociani, i futuristi, i simbolisti francesi e più in generale su tutta la cultura europea di fine Ottocento e primo Novecento, e dei frequenti contatti che egli sviluppò dapprima con autori liguri (C.Sbarbaro, A.Grande, A.Barile) e successivamente con scrittori come Svevo (che ammirò profondamente e di cui fu primo critico italiano) e Saba.
Prese parte alla Grande Guerra e tornato in patria fondò, assieme a Solmi e Debenedetti, la rivista “Primo tempo” (1922) sulla quale stampò i suoi primi versi. Nel ’25 partecipò alla rivista di ispirazione antifascista “Il Baretti” il cui fondatore, Piero Gobetti, pubblicò lo stesso anno la prima raccolta di poesie, “Ossi di Seppia”. Sempre nel ’25 aderì al “Manifesto” antifascista del Croce. Nel ’27 si trasferì a Firenze dove collaborò a riviste, conobbe Vittorini, Quasimodo, Pound (che accese in lui l’interesse per la letteratura anglosassone), si occupò di traduzioni, fu direttore del Gabinetto Viesseux ma perse l’incarico per il suo atteggiamento antifascista. E’ di questo periodo la seconda raccolta: “Le occasioni”, uscita nel 1939. Venutosi a trovare in serie difficoltà economiche si stabilì a Milano, dove divenne collaboratore del “Corriere della Sera”(’47), pubblicò la sua terza raccolta, “La bufera e altro”(1956), fu nominato senatore a vita (’67) e ottenne il Premio Nobel (’75).
E’ lo stesso Montale a fornirci una profonda analisi critica della sua opera: “L’argomento della mia poesia è la condizione umana in sé considerata, non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio… Avendo sentito sin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava la materia della mia ispirazione non poteva che essere “quella” disarmonia” (da un’intervista del ’51). L’opera di Montale è quindi scevra di un preciso messaggio politico e di riferimenti concreti alla situazione storica contemporanea; è tuttavia innegabile che il pessimismo montaliano derivi in gran parte proprio dalla crisi della civiltà europea del ventesimo secolo, manifestatasi nelle forme della Guerra (le due atroci guerre mondiali), del fascismo degli anni Trenta (a cui, come si è detto, Montale si oppose fermamente) e del consumismo degli anni successivi. E’ il susseguirsi continuo di queste “realtà storiche” a far maturare in Montale quella disperazione, quel “male di vivere” che egli proietta in una dimensione più universale.
La concezione montaliana dell’esistenza, della condizione dell’uomo, pur attraverso successivi approfondimenti, rimane pressoché immutata nel corso del suo iter poetico, il cui punto di partenza viene fatto coincidere con la raccolta “Ossi di seppia”.
La disperazione, la negatività del poeta nascono essenzialmente dall’impossibilità da parte dell’uomo di stabilire un rapporto di comunione con la natura e con la vita, che appaiono incomprensibili e svuotate di ogni significato. Montale rifiuta le convinzioni positivistiche di una realtà dominata da ferree leggi fisiche: i gesti e gli eventi umani appaiono del tutto casuali e vengono privati di ogni giustificazione trascendente. L’esistenza è quindi un qualcosa di arido, scabro, un “cammino assurdo, monotono e senza scampo”. La dimensione negativa, benché prevalente, non è tuttavia l’unica dell’opera: è infatti percepibile il tentativo di ricerca da parte dell’autore di un qualcosa che possa liberare l’uomo dalla condizione d’impotenza e d’angoscia in cui è costretto, un “varco”, una via di salvezza, una “maglia rotta nella rete che ci stringe”. Ogni sforzo, ogni speranza sono tuttavia destinati a risolversi in un’inevitabile e necessaria sconfitta.
La volontà di raggiungere una dimensione positiva e la consapevolezza dell’impossibilità di conseguirla sono momenti contemporanei dell’opera montaliana.
In “Ossi di seppia” non vi è solo la ricerca ma anche la nostalgia della positività: solo nel periodo adolescenziale egli è infatti riuscito a stringere un rapporto di armonia e comunione con la natura e la vita.
La concezione del vivere così delineata viene estrinsecata attraverso due elementi fondamentali:
1) Il paesaggio: è quello aspro e squallido della Liguria, simbolo dell’aridità del vivere (come del resto gli ossi di seppia che danno il titolo alla raccolta) ma anche il mare, emblema della vita autentica e vera, della piena fusione con la natura.
2) Il linguaggio poetico è anch’esso duro, aspro, realistico, a volte gergale, mai alto o effusivo.
Caratteristica costante della poetica montaliana è quella di esprimere il proprio sentire non in via concettuale ma mediante l’utilizzo in chiave simbolica di elementi reali, facenti parte della quotidiana esperienza. E’ questa una tecnica assai simile a quella di un autore inglese che Montale conosceva bene, T. S. Eliot, a cui dobbiamo la seguente rigorosa definizione: ”L’unico mezzo di esprimere un’emozione in forma d’arte è di trovare un “correlativo oggettivo”; in altre parole una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che diverranno la formula di quella particolare emozione; cosicché una volta dati i fatti esterni che devono concludersi in un’esperienza sensibile, l’emozione viene immediatamente evocata”.
Sulla base di quanto si è detto risulta facile comprendere come per Montale la poesia non rivesta una funzione “positiva”, non sia lo strumento per guarire l’uomo dalla cronica malattia che da sempre lo perseguita, o per consolarlo: il ruolo del poeta, egli dice, è quello di offrire “qualche storta sillaba secca come un ramo”, di rendere manifesta, oggettivandola nella realtà quotidiana, l’universale condizione di sconfitta propria dell’uomo dinanzi alla natura.
Le seguenti poesie accolgono le principali tematiche della raccolta analizzata:
Non chiederci la parola – Ossi di seppia
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche sillaba storta e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
La lirica è una chiara enunciazione di poetica. Oggetto del duplice imperativo negativo (versi 1,9) è il poeta, il cui animo è informe, e che quindi non è in grado di trasmettere con precisione e chiarezza un messaggio positivo in grado di dare gioia o consolazione a chi gli si rivolge (“la formula che possa il mondo aprirti”). Suo unico compito è quello di esprimere, mediante qualche “storta sillaba e secca come un ramo” (quindi attraverso un linguaggio scabro), la ferma e incrollabile consapevolezza della negatività (quasi una professione di fede, tanto che la critica parla di “teologia negativa”) dell’impossibilità di fungere da vate. Egli, privo di ogni certezza positiva, può solo affermare “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Nella strofa centrale il poeta esprime la propria meraviglia per “l’uomo che se ne va sicuro”, che vive in un mondo creduto saldo e pieno di certezze, ignaro della precaria condizione che lo accomuna a tutti gli altri esseri.
Dal punto di vista formale è chiaramente osservabile, come del resto in tutta l’opera montaliana, l’utilizzo di elementi fisici e quotidiani (“polveroso prato”, “scalcinato muro”) che diventano rappresentazione simbolica di concetti metafisici.
Il linguaggio è infine aspro e scabro, il tono mai elevato o enfatico.
Meriggiare pallido e assorto – Ossi di seppia
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono e ora si intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
È una delle prime liriche (1916) e già in essa è espressa chiaramente la desolante concezione che il poeta ha del vivere: un cammino “monotono, assurdo, senza scampo”, qualcosa di cui si è prigionieri, di cui è impossibile cogliere il significato nascosto, così come è impossibile valicare quella “muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” per scoprire cosa vi è dietro. La vita è assurda, vuota, arida, perfettamente riflessa nello scabro paesaggio (“calvi picchi”) in cui il poeta trascorre il meriggio; ogni gesto è vano come inutile è l’affaccendarsi delle formiche. L’aspetto formale presenta l’asprezza tipica dell’opera montaliana.
Spesso il male di vivere – Ossi di seppia
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
Che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Unica certezza, unica realtà oggettiva è per il poeta la sofferenza, il dolore, che accomuna i diversi aspetti della realtà, dalla foglia inaridita al “cavallo stramazzato”, al “rivo strozzato che gorgoglia”. Unico “bene” è la “divina Indifferenza”, atteggiamento di superiore distacco, la cui forma è quella del “falco alto levato”, della “nuvola” e della statua “nella sonnolenza del meriggio”.
Cigola la carrucola del pozzo – Ossi di seppia
Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo del secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…
Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide
Dalle profondità di un pozzo risale un secchio colmo d’acqua sulla cui superficie va formandosi un “ricordo”, l’immagine confusa (per l’agitarsi del secchio e, in senso traslato, per l’evanescenza del ricordo) di un volto caro al poeta. Egli vorrebbe impossessarsene ma la visione si “deforma”, si fa “vecchia”, appartiene a un “altro”, a un suo io passato ormai estraneo e irraggiungibile. L’immagine è irrecuperabile e destinata, insieme al secchio, a tornare nelle profondità del pozzo e della coscienza, nell’atro fondo, da cui per un attimo è emersa: «il perdersi dei volti familiari, delle persone amate, dei momenti di gioia, l’incapacità della memoria a trattenerli vivi in sé dopo che sono spariti o trascorsi, e l’angoscia, la disperazione che ne deriva, sono uno dei grandi temi di Montale» (Bàrberi Squarotti-Jacomuzzi).
Proprio il tema dell’ultima lirica analizzata viene approfondito nella seconda raccolta, Le occasioni, in cui il “male di vivere”, punto centrale della poetica montaliana, trova nuove giustificazioni nel mondo del passato e della memoria. “Cigola la carrucola del pozzo” può quindi essere accostata alla lirica “Non recidere, forbice quel volto” facente parte della sezione dei Mottetti.
Non recidere, forbice, quel volto – Le occasioni
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala… Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
Anche in questo caso è evidente la tecnica del correlativo oggettivo: l’episodio del potatore che recide la vetta dell’acacia è simbolo del tempo che, simile a quello foscoliano che “con le sue fredde ali vi spazza fin le rovine” (Dei sepolcri), “freddo cala” e dissolve il ricordo di un volto. Vi è ancora la constatazione di come sia impossibile preservare i ricordi dall’inevitabile sfaldarsi (“la memoria che si sfolla”), dalla “nebbia di sempre” che “travolge volti ed eventi del passato”. Montale (a differenza di Saba e Proust) non trova quindi conforto e sollievo neppure nelle sue memorie per l’impossibilità di ricavarne un’immagine che non sia precaria e confusa.
Nelle Occasioni il poeta sembra, per la prima volta, assumere coscienza del tempo storico, delle tristi vicende che stanno piagando l’Europa: s’avverte la contemporanea denuncia dei falsi miti del Fascismo e la ferma volontà di resistere al facile conformismo di massa, affermando attraverso la poesia, in un periodo di degradazione dei valori, la propria dignità. Questo aspetto verrà comunque ripreso e approfondito nell’ultima raccolta, “La Bufera e altro”.
Altro tema originale, strettamente correlato ai precedenti, è quello dell’amore e del dialogo con la donna lontana (Dora Markus, Liuba e soprattutto Clizia): la vicenda personale e biografica viene svuotata di ogni contenuto particolare e occasionale, assume valore simbolico e universale. La figura femminile, come nel Dolce Stil Novo, diviene creatura angelica, scesa sulla terra per salvare l’uomo, dare significato ad un’esistenza che il degrado di ogni valore ha ormai svuotato e reso assurda. Ma su tutte le donne delle Occasioni sembra gravare il dramma dell’esilio, ennesima manifestazione del male che affligge l’Europa, emblema della lontananza, dell’assenza e ancora una volta negazione di quel “varco” che il poeta costantemente ricerca per sfuggire al sempre imperante “male di vivere”. Già nelle Occasioni si delinea quindi la figura dell’intellettuale prigioniero di una realtà storica da cui egli è conscio di non poter evadere ma a cui non si piega né eroicamente si ribella (a differenza di quanto fatto a suo tempo dal Leopardi).
Se nelle Occasioni è possibile rintracciare i primi velati riferimenti al contesto storico contemporaneo, nell’ultima raccolta “La bufera e altro” il poeta sembra intenzionato a stabilire un rapporto consequenziale tra l’universale e desolante visione che egli ha del vivere e le terribili vicende del suo tempo. La motivazione del “male di vivere” si arricchisce quindi della dimensione storica che va definitivamente ad affiancare quella metafisica delineata nelle precedenti raccolte.
Piccolo testamento – La bufera e altro
Questo che a notte balugina
Nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d’officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.
Solo quest’iride posso
Lasciarti a testimonianza
D’una fede che fu combattuta,
d’una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
Quando spenta ogni lampada
La sardana si farà infernale
E un ombroso Lucifero scenderà su una prora
Del Tamigi, del Hudson, della Senna
Scuotendo l’ali di bitume semi
mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora.
Non è un’eredità, un portafortuna
Che può reggere all’urto dei monsoni
Sul fil di ragno della memoria
Ma una storia non dura che nella cenere
E persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
Non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio
Non era fuga, l’umiltà non era
Vile, il tenue bagliore strofinato
Laggiù non era quello d’un fiammifero.
La lirica, appartenente all’ultima sezione de la “Bufera” intitolata “Conclusioni provvisorie”, è un bilancio finale del cammino poetico e ideologico dell’autore. Ciò che egli lascia in eredità è un iride dalla luce tenue, paragonabile alla “traccia madreperlacea di lumaca” o a “smeriglio di vetro calpestato”, simbolo e testimonianza del suo atteggiamento dinanzi alla vita. A fedi religiose o politiche (“non è lume di chiesa o d’officina”) egli non ha mai aderito, rifiutando con fermezza e aristocratico orgoglio quelle facili certezze propagandate dal “chierico rosso, o nero”, cioè dall’intellettuale comunista e fascista. Il rifiuto di ogni consolazione, la concezione negativa dell’esistenza suggerita dal momento storico e da ragioni metafisiche, la dignitosa consapevolezza di non poter trasmettere verità assolute perché la natura è assurda e incomprensibile, diventano a loro volta oggetto di una fede che egli strenuamente difende (“una fede che fu combattuta”) la morte “d’una speranza che bruciò più lenta di un duro ceppo nel focolare”. Montale esorta poi la donna amata (Clizia) a conservare l’iride (e quindi la sua fede) come dono prezioso nel suo specchietto, nel momento in cui la violenza e il male (la “sardana” e “l’ombroso Lucifero”) raggiungeranno il culmine e il mondo andrà incontro ad un’apocalittica conclusione. La sua non è un’eredità assoluta, destinata a durare eternamente e non pretende di esserlo poiché egli è conscio dei suoi limiti di essere umano; tuttavia è la testimonianza di una vita vissuta con coerenza fino alla fine, e che proprio in virtù di questa coerenza acquista significato. Voltandosi indietro non vi è in lui pentimento o rammarico ma la convinzione che “giusto era il segno”, valida era la direzione seguita. Chi l’avrà compresa e vorrà percorrerla non troverà difficoltà a riconoscersi in colei che è ora depositaria dei suoi ideali (“non può fallire nel ritrovarti”). Gli ultimi versi sembrano una risposta polemica alle accuse di coloro che erroneamente avevano interpretato la sua testimonianza; nello stesso tempo egli si rivolge, quasi per rassicurarli, ai “suoi”, ovvero a chi gli è vicino e coltiva i suoi stessi ideali o lo farà in futuro: “l’orgoglio non era fuga”, non era volontà di isolarsi per fuggire la realtà e le proprie responsabilità, ma aristocratico distacco da miti e propagandate certezze che egli non riconosceva; “l’umiltà non era vile” ma consapevolezza dei limiti umani, la luce diffusa dalla sua poesia non era il “tenue bagliore” di un fiammifero.
L’ultima produzione (anni ’70) segna l’acutizzarsi e il radicalizzarsi dell’incompatibilità dell’ormai ottantenne Montale col proprio tempo, vede la constatazione dell’inutiltà del vivere assumere caratteri definitivi. La vera novità è tuttavia rappresentata dall’abbandono dei consueti moduli stilistici: l’opera principale di questo periodo, “Satura”, come lo stesso titolo vuole indicare è una reminiscenza della “satura lanx” latina e quindi una mescolanza di stili, toni e argomenti di varia natura. Nel complesso prevale la componente epigrammatica, si dissolve quell’aura di sacralità e solennità delle prime raccolte: il poeta ormai giunto agli ultimi anni di vita può osservare il mondo con maggior distacco e quindi con maggior pacatezza e leggerezza.
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