Eugenio Montale e la Seconda Guerra Mondiale - StudentVille

Eugenio Montale

Montale - La devastazione del secondo conflitto mondiale e l'apparizione salvifica di Clizia - La bufera.

Pur mancando a Eugenio Montale un positivo sentimento religioso permane nei suoi versi una tensione prepotente all’evento imprevisto, inatteso, salvifico che miracolosamente rinnovi o comunque sia rivelazione di un divino che osserva la vicenda umana e ne traccia indirettamente gli oscuri destini. Tale presenza salvifica si oggettiva nel personaggio femminile di Clizia.

La Bufera

Les princes n’ont point d’yeux pour voir grand’s merveilles, leurs mains ne servent plus qu’à nous persécuter….
Agrippa d’Aubigné, A Dieu

La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,

(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)

il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella, –

e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa…

Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,

mi salutasti – per entrar nel buio.

La Bufera (la guerra)

I principi non hanno occhi per vedere queste grandi meraviglie, le loro mani non servono che a perseguitarci.
Agrippa d’Aubigné (1552 – 1630)

La bufera diventa metafora della guerra; le si attribuisce tutta la violenza della pioggia e della grandine che colpisce violentemente le foglie dure della magnolia.

La grandine crea un suono di cristallo percosso – è l’eco della guerra che scoppia improvvisa – e sorprende Clizia nel suo nido sicuro in America, dove può non temere le persecuzioni razziali – un barlume luminoso si spegne sui mobili dell’interno, sulle coste dei libri rilegati….appare un rapido baleno che si ritrae ma pare anche persistere nei tuoi occhi, come grana di zucchero che brucia.

Il lampo che proietta la sua luce bianca illumina alberi, muri e li sorprende in un chiarore che sembra contrassegnarli per l’eternità – freddo, dolce e vivificante, distruttivo – …diventa in te, Clizia, luce salvifica, anche  condanna nel tempo del sacrificio, che ti lega a me più che l’amore, in uno strana fraterna rivelazione e condivisione nella negatività del vivere.

E poi lo schianto violento, sordo, i sistri, il fremere dei tamburelli sulla fossa sterminatrice, il muoversi del passo di danza dai toni trionfali, mentre qualcuno cerca di scampare allo sterminio……

Proprio come quando tu, Clizia,
cercasti di scampare alla persecuzione e con la mano, sgombrata la fronte dalla frangia dei capelli,

mi salutasti, nell’addio, per entrare nello spazio buio della memoria.
La poesia vive di una sua complessa trama di rimandi analogici, che ci permettono di cogliere la specificità con la quale il poeta rivive poeticamente l’evento bellico.

“La bufera è quella guerra dopo quella dittatura…; ma è anche guerra cosmica, di sempre e di tutti “. Come al solito Montale risolve in significati esistenziali e metafisici anche gli eventi oggettivi, come, in questo caso, il secondo conflitto mondiale e la persecuzione antisemita. Per riproporre l’intensità del duplice scacco storico ed esistenziale (il devastante scoppio del conflitto e l’allontanamento definitivo di Irma Brandeis, Clizia, la donna – angelo portatrice di salvezza) il poeta sceglie, come al solito, alcuni correlativi oggettivi.

Una serie di immagini ha il compito di ricostruire, in una penetrante successione di significanti, la contraddittorietà del reale, che si manifesta ora con la violenta intensità di una bufera, ora con la luce sorprendente di un lampo. Quest’ultimo è capace di connotare gli oggetti in modo ambiguo e straniato, tanto da evidenziare nell’eternità di un istante la condanna dell’uomo alla sua dolorosa necessaria sofferenza.

Dapprima c’é la facile analogia bufera=guerra emblematizzata dallo sgrondare violento sulle foglie della magnolia di pioggia e grandine crepitante, come rumore di cristalli infranti. Irma / Clizia, la donna-angelo, fuggita in America per salvarsi dalle persecuzioni razziali è sorpresa nel suo interno dagli echi della bufera e il suo sguardo sembra trattenere l’effetto di una luce che persiste, simbolo per il poeta di una presenza  che continua enigmaticamente a riproporsi, come lontano ma tangibile effetto quando una nuova minaccia – la guerra appunto – incombe sull’uomo.

C’è poi la luce del lampo che candisce alberi e muri, imbianca di luce indifferente, freddamente stabile, ma anche dolce ed evanescente come manna eppure devastante per la distruzione che accompagna. Questo correlativo ha una profondità straordinaria proprio nella sua interna contraddittorietà. Il lampo è sì devastante come i bagliori di guerra, ma acquista anche una sua positività perché è luce di potenziale salvezza, incarnata da Irma / Clizia. Questa luce non è tuttavia operante; è simbolo piuttosto di dolore, sofferenza ( condanna ) comune che connota l’esistenza di tutti gli uomini e che rende per Montale strana sorella di condivisione negativa della vita proprio Clizia . Questo legame di negatività, di estraneità connota tutti gli esseri umani ed è quello che lega più profondamente il poeta alla donna.  Esso è più forte che non il rapporto d’amore.

Dopo la pregnanza dei correlativi visivi ecco le metafore a prevalente valenza uditiva: la bufera come schianto, come metallico ondeggiare di funerei sistri – eco pascoliano de “L’assiuolo” – il ritmo dei tamburelli sulla fossa di morte, le movenze rumorose del fandango,  trionfante marciare degli eserciti in parate e scenari di guerra…..ma anche  gesto disperato di chi annaspa per sfuggire ai massacri.

Ed è proprio questa l’ultima analogia concettuale. Il gesto di chi annaspa per salvarsi è  il gesto dell’ultimo definitivo saluto di Clizia, che si allontana per sempre dalla vita del poeta. E’ un addio irrevocabile ed assoluto, che sanziona una definitiva assenza, la privazione di ogni  speranza di salvezza futura per l’uomo Montale. Il gesto d’addio è preceduto e segnato da un atto lieve e quasi sacrale: quello di allontanare dalla fronte la nube dei capelli. Clizia diventa dea o angelo salvatore, che tuttavia manca al suo compito e diviene vittima anch’essa di una negatività oggettiva, assunta – proprio attraverso la realtà della guerra – come legge storica oltre che esistenziale.
La luce della bufera rimanda immediatamente ai lampi della guerra, a uno sconvolgimento storico e per estensione cosmico (la guerra «di sempre e di tutti»). La luce di Clizia è una luce potenzialmente capace di rigenerare, qualunque sia l’ulteriore significato (ora esistenziale ora espressamente religioso) da attribuire ad essa. Ma in questo caso c’è un nesso fra le due luci: l’eternità d’istante che Clizia porta in sé è «manna» e « distruzione», tra l’estrema tragicità degli eventi e il messaggio salvifico di Clizia (il varco che si apre nel disordine dell’esistenza) c’è una paradossale coincidenza. Così il tenue bagliore di Clizia, il ricordo di lei si manifesta nel momento stesso del lampo terribile della bufera. Come già in Arsenio, è forse proprio nel momento del massimo disordine storico e cosmico, nel momento in cui il non senso della realtà si mostra in tutta la sua iperbolica interezza, che può soggettivamente aprirsi l’imprevedibile varco per il poeta, l’incontro con il fantasma che può salvarlo?

La bufera e altro è il momento di massima apertura di Montale verso l’ipotesi di un varco che metta nel mezzo di una verità, che dia senso al non senso. L’arco di tempo che va dalla guerra mondiale alla guerra fredda è anche il momento in cui Montale dà più esplicitamente all’immagine del varco e al problema della liberazione dall’angoscia dell’esistere un significato religioso, per quanto dichiaratamente a-confessionale e eterodosso: La bufera e altro, dove per la prima volta viene pronunciata la parola «Dio», ha scritto l’Antonielli, «o si legge in chiave di reale tensione religiosa o non si legge. Montale ha dato voce al dramma dell’uomo religioso senza religione, del cristiano storico senza Chiesa. Cristiano errante, nestoriano smarrito che lo si voglia chiamare, è indubbiamente fra coloro che meglio hanno tentato di approfondire la turbata coscienza del nostro tempo». Esplicitamente a proposito di un’altra poesia, Iride, in cui si definisce «povero Nestoriano smarrito», Montale aveva affermato che Clizia, «che aveva lasciato l’Oriente per illuminare i ghiacci e le brume del nord, torna a noi come continuatrice e simbolo dell’eterno sacrificio cristiano. Paga lei per tutti, sconta per tutti. E chi la conosce è il Nestoriano, l’uomo che meglio conosce le affinità che legano Dio alle creature incarnate, non già lo sciocco spiritualista o il rigido astratto monofisita». II nestoriano è l’eretico che crede alla natura umana di Cristo, cioè che il divino si possa manifestare attraverso persone umane (Clizia, in Montale). Il nesso tra la bufera storica e la luce di Clizia allora potrebbe alludere esplicitamente al necessario «eterno sacrificio cristiano»: necessità della catastrofe perché vi sia rigenerazione.

Arsenio

I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l’ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.

È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo.
Discendi all’orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d’essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi
il viluppo dell’alghe: quell’istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d’una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità…

Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch’è prossima: se il fulmine la incide,
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s’arrosa: e il timpano
degli tzigani è il,rombo silenzioso.

Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva, –
e fuori, dove un’ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l’acetilene
– finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che s’abbevera,
tutto d’accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un frùscio immenso rade
la terra, giù s’afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.

Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell’onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
Mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell’ora che si scioglie, il cenno d’una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.

Arsenio è l’ultimo componimento in ordine cronologico degli Ossi di seppia, aggiunto nell’edizione del 1928 e composto l’anno prima. La scena, che ha per la prima volta un protagonista maschile diverso dal poeta, ma in cui il poeta si proietta oggettivandosi, è posta in una stazione balneare nell’imminenza di un temporale. Arsenio è attratto dal vortice degli elementi verso la spiaggia nell’intuizione che a quello sconvolgimento improvviso della natura sia legata la possibilità di un mutamento radicale nella propria esistenza, che quello sia l’evento tanto atteso. Ma Arsenio, come Montale, è «della razza di chi rimane a terra»…

II senso globale di Arsenio, a parte l’interpretazione dì singoli versi ambigui, è chiaro: Arsenio si è trovato davvero, o molto probabilmente, di fronte all’evento tanto atteso, quello capace di sconvolgere il corso della sua vita, di annullare d’un colpo il «male di vivere», liberandolo e rendendolo «divino». II temporale è il simbolo di questa opportunità o forse è esso stesso questa opportunità: lo sconvolgimento naturale attrae Arsenio, che è sul punto di gettarsi in mare, sradicando le radici viscide che lo legano a terra.

La liberazione, il mutamento è però inquietante, forse perché si tratta di proiettarsi nel turbine di un mare sconvolto-coincide con l’annullamento di sé, con l’annientamento, la morte. Forse, insomma, è il morire che può dare senso alla vita, il proiettarsi nel nulla cosmico. Ma Arsenio, come Montale, è «della razza di chi rimane a terra» e rinuncia a cogliere questa terribile ma forse salvifica opportunità, ritornando alle cose in autentiche e alle angosce di tutti i giorni, qui simboleggiate dalla folla dei villeggianti morti-viventi.

II componimento è anche importante perché segna, in anticipo rispetto alle successive scelte delle Occasioni, un deciso orientarsi verso una poetica che è stata definita del “correlativo oggettivo”, in parte mutuata da Eliot, che Montale proprio in questi anni legge e traduce. Sta di fatto che qui Montale sostituisce all’io lirico un personaggio, Arsenio, in cui la sua personale problematica esistenziale è oggettivata (come in Eliot accade col protagonista di Rapsodia e con Gerontion nel componimento omonimo). È anche vero però che Montale anche in precedenza aveva sistematicamente proiettato se stesso e i suoi stati soggettivi in oggetti simbolici (si vedano ad esempio gli oggetti-simbolo di Spesso il male di vivere), tant’è che non pare pretestuosa la sua rivendicazione di una scelta autonoma e coerente in questo senso. Si veda ad esempio quanto Montale dichiara, a proposito delle Occasioni, nella prefazione alla traduzione in svedese delle sue liriche: «Qualcuno mi mosse il rimprovero di avere qui adottato il metodo eliottiano del “correlativo obiettivo”: che è di fornire un oggetto (la poesia) in cui il motivo sia incluso in forma di suggerimento, non però spiegato o commentato in termini psicologici. La verità è che io avevo tradotto nel ’29 tre brevi poesie di Eliot, ma nient’altro conoscevo di quel poeta; mentre parecchie mie pagine degli anni precedenti già mi imponevano quella strada».
Tutto è interno e tutto è esterno per l’uomo d’oggi; senza che il cosiddetto mondo sia necessariamente la nostra rappresentazione. Si vive con un senso mutato del tempo e dello spazio….

 

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