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Gilbert Ryle

Pensiero e vita.

Uno dei maggiori e più influenti esponenti della filosofia analitica ò stato Gilbert Ryle (1900-1976). Formatosi ad Oxford in un ambiente ancora dominato dalla vecchia tradizione idealistica, se ne distaccò sia entrando in contatto con Russell, sia studiando il pensiero logico-psicologico tra Otto e Novecento (Bolzano, Brentano, Husserl, Meinong). Non fu tra i seguaci più diretti di Wittgenstein; non ne seguì, in particolare, certi princìpi ispiratori successivi alla sua ‘svolta’. In effetti la sua interpretazione e pratica della filosofia analitica puntò non tanto alla riabilitazione dei linguaggi ordinari quanto alla critica delle contraddizioni e delle inconsistenze logiche accertabili nel parlare umano (soprattutto in quello teoreticamente organizzato dei filosofi). Già  in uno dei suoi primi saggi di rilievo – Espressioni sistematicamente fuorvianti (1931-32) – Ryle sottolineava la necessità  di un’indagine sistematica sulle sorgenti concettuali dei paradossi, antinomie, fallacie, ecc. che compromettono la validità  del pensiero e del linguaggio dell’uomo, e ciò allo scopo di indicare i modi di un altro pensiero/linguaggio più fondato e rigoroso: ” sono incline a credere che questo ò il contenuto dell’analisi filosofica, e che questa ò l’unica e intera funzione della filosofia “. Alla fine degli anni ’30 il celebre articolo Sulle categorie (1938) evidenziava ancor meglio il tipo di indagine privilegiato da Ryle e la sua differenza rispetto a quelli solitamente praticati dal movimento analitico. Per Ryle il compito critico-terapeutico della filosofia non si può arrestare al livello del puro e semplice linguaggio. Al di là  di esso vi sono forme e modi intellettuali che sono i veri responsabili delle incongruenze espressive: gli errori linguistici rimandano insomma ad “errori categoriali” (un concetto centrale del pensiero ryliano più maturo). Di conseguenza il pensiero analitico sbaglia se e quando si arresta a una mera “descrizione” dei linguaggi quotidiani: il conseguimento di ben precisi obiettivi richiede non tanto “parafrasi” quanto “argomentazioni”, ossia un lavoro critico- razionale capace di risalire alle vere radici (categoriale) delle nostre fallacie Linguistiche – il che, sottolinea polemicamente Ryle, ” ò di solito trascurato dalle più recenti definizioni: della filosofia come ‘analisi'”. Non si deve credere però che il lavoro privilegiato da Ryle sia di natura esclusivamente destruens: al contrario, egli ha in mente anche un ben determinato obiettivo e ideale construens. Nell’importante discorso su Argomenti filosofici (1945) egli lo preciserà  con grande chiarezza. Il fine degli ” argomenti ” della filosofia non ò solo di denunciare gli ” errori categoriali”: ò anche di mostrare come si possano evitare attraverso l’individuazione delle ” regole che governano la corretta manipolazione dei concetti “. Ma i concetti e le idee non si danno mai in modo autonomo e irrelato: operano sempre in connessioni e interazioni che ò necessario padroneggiare. Occorre allora realizzare una sorta di indagine d’assieme del nostro universo concettuale: un’indagine alla quale Ryle ha dato il nome di ” chiarificazione cartografica ” o di “geografia logica” delle idee: ” il problema non consiste nel fissare separatamente la localizzazione di questa o quella idea singola, ma nel determinare le implicazioni reciproche di tutta una galassia di idee appartenenti allo stesso campo o a campi contigui. Come la ricerca geografica, la ricerca filosofica ò necessariamente sinottica. I problemi filosofici non possono essere posti o risolti isolatamente “. Il libro più noto di Ryle ò Il concetto di mente (1945; tradotto in italiano col titolo Lo spirito come comportamento ), uno dei capolavori del pensiero analitico inglese e, insieme, una delle opere più influenti della filosofia contemporanea. In essa Ryle affronta lo studio dell’universo mentale, considerato uno dei modi più enigmatici dell’intera tradizione intellettuale d’occidente. Il proposito ryliano non ò tanto (come spesso si dice) di negare l’esistenza di tale universo, ma di darne una caratterizzazione appropriata, esente da pericolose fallacie teoriche. Si tratta, cioò, di ridisegnare la corretta “cartografia” dei concetti che usualmente adoperiamo quando ci riferiamo a una determinata classe di esperienze. Ma a questo fine ò preliminarmente necessario sbarazzarsi degli “errori categoriali” che hanno compromesso un’adeguata comprensione del (cosiddetto) ‘mentale’. Il principale di tali errori ò di aver conferito a questo ‘mentale’ una consistenza ontologica. In effetti la tesi centrale del libro ò appunto che qual-cosa come ‘la Mente’ non si dà : non ha un’esistenza dello stesso tipo di quella del corpo e degli altri enti fisici. Dietro tale assunto si coglie l’eco dell’anti -mentalismo wittgensteiniano e, in parte del comportamentismo psicologico che peraltro tendeva a dissolvere il mentale secondo prospettive diverse da quelle di Ryle (il quale infatti amerà  definirsi semmai ” comportamentista logico ” e mostrerà  scarsa simpatia per il comportamentismo ortodosso). Per Ryle la ‘mente’ quale ò presente nel pensiero e nel linguaggio d’occidente ò un “dogma” infondato: ò anzi un vero e proprio “mito filosofico” che viene suggestivamente battezzato ” lo spettro nella macchina “. Tale denominazione rinvia a quello ch’ò per Ryle il maggiore responsabile, nell’età  moderna, dell’errore mentalistico: Cartesio. E’ stato Cartesio a interpretare l’uomo come, appunto, una “macchina” abitata da un principio chiamato “spirito” o “anima”. E’ stato lui a conferire a tale principio una sostanzialità  ontologica – diversa ma, a ben guardare, simmetrica e speculare rispetto alla res corporea. Da quel momento in poi tutto un filone del pensiero d’occidente ò stato “dualista”: non solo ha separato arbitrariamente certe funzioni umane da altre, ma accostato la dimensione ‘mentale’ dell’esperienza come se fosse una res omologa alla res extensa (materia). Proprio questo, ripetiamolo, ò stato l’errore categoriale di fondo del sapere moderno: un errore consistente nel ” presentare i fatti della vita mentale come appartenenti a un tipo o categoria (o classe di tipi o categorie) logico (o semantico) diverso da quello cui essi invece appartengono “. Se il rifiuto ryliano di ogni concezione ‘dualistica’ del rapporto mente-corpo ò assoluto, non si deve credere che Il concetto di mente inclini a riproporre un’interpretazione ‘monistica’ (più esattamente monastico-materialistica) di tale rapporto. A questo proposito la tesi di Ryle ò che il materialismo compie in fondo un errore uguale a quello commesso dai dualisti: l’errore di interpretare il mentale come una res. Invece il mentale, ben lungi dall’ essere una cosa (non importa se ‘spirituali’ o ‘materiali’), ò essenzialmente l’insieme dei modi teorico-linguistici nei quali l’uomo organizza ed enuncia determinati atti o eventi della propria vita. Correlativamente, si tratta di analizzare tali modi nella loro sede linguistico-concettuale appropriata: chiedendo loro a quali funzioni rispondono, a quali logiche specifiche obbediscono. Nell’esaminare tutta una serie di questioni classiche di filosofia della mente – dalle nozioni di ‘io’ e di coscienza al problema della conoscenza di sè, del rapporto tra volontario e involontario a quello tra sensazioni e tendenze, dalla relazione tra determinismo e libero arbitrio a quella tra disposizioni e azioni – Ryle evidenzia l’irriducibile complessità  dell’esperienza cosiddetta mentale, mostra che tale esperienza avviene in un luogo costituito non tanto dallo ‘spirito’ o dal ‘corpo’ quanto dal contesto delle concrete interazioni sociali tra gli uomini; suggerisce che la ‘mente’ si realizza in una serie di “atti” e di “comportamenti” la cui comprensione implica quella delle regole che li ispirano.

  • Filosofia del 1900

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