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Il decostruzionismo

Il concetto di "decostruzionismo".

Il panorama culturale e le componenti che agiscono sulla formazione di Jacques Derrida sono genericamente quelle della Nietzsche- Renaissance degli anni Sessanta del Novecento. Le indagini genealogiche nietzscheane costituiscono in quegli anni la chiave con cui il cosiddetto “poststrutturalismo” giunge a incrinare il carattere apollineo del formalismo strutturalista: l’indagine genetica – o meglio energetica- tende a leggere ogni costituzione di forma non già  come sincronicità  strutturale, ma come differenzialità  dinamica, economica, effetto di determinati rapporti di forze. Come nelle indagini foucaultiane, ogni struttura rappresenta sempre una forma di dominio che si tratta di smascherare e di scuotere nelle sue fondamenta. Princìpi che nello strutturalismo assumono una funzione eminentemente ordinatrice – la differen- zialità  sistemica, il principio della linearità  del significante, la distinzione significato/significante – vengono così nel poststrutturalismo, e in particolare nel decostruzionismo derridiano, “distorti”, diventando piuttosto princìpi entropici, di disordine, di disorganizzazione, di liberazione del desiderio dalle repressioni del “sistema”. Insieme a Nietzsche, ò dagli altri due tradizionali maestri del sospetto, Marx e Freud, che la filosofia di Derrida riceve infatti la sua impronta. Marx, al quale Derrida ha dedicato lo scritto “Spettri di Marx”, agisce nella componente politica che Derrida ritiene sempre indissociabile dall’operazione decostruttiva e smascherante, mentre Freud costituisce un termine di riferimento cui Derrida si richiama in momenti nevralgici della sua elaborazione teorica, come a proposito dei “concetti” di diffèrance o di traccia: la figura di Freud ò nel discorso di Derrida giocata soprattutto in contrappunto a un’altra sua fondamentale matrice, la fenomenologia di Husserl. Husserl costituisce il primo banco di prova della decostruzione: a lui, oltre al “mèmoire” “Il problema della genesi nella filosofia di Husserl”, sono dedicati due tra i primi libri pubblicati da Derrida, l’ “Introduzione a ‘L’origine della geometria’ di Husserl”, del 1962, e “La voce e il fenomeno”, del 1967, di cui Derrida dice che ” ò forse il saggio a cui tengo di più ” (“Posizioni”). Il rapporto di Derrida con la fenomenologia ò fortemente influenzato da componenti psicoanalitiche: la decostruzione ò una fenomenologìa, non di ciò che si presenta, di ciò che c’ò, bensì di ciò che non si presenta nò può mai presentarsi, una fenomenologia cioò della traccia, di ciò che non c’ò, di ciò – ripetendo qui la definizione che Derrida da della traccia in “La diffèrance” – che si cancella nel momento stesso della sua iscrizione. Se la decostruzione ò fenomenologica, lo ò paradossalmente contro la fenomenologia: il suo scopo non ò l’ epochò attuata in nome e in vista del senso, ma l’ epochò del senso, la messa tra parentesi del senso per aprire sull’orizzonte della sua costituzione, su un certo non-senso, ossia l’inconscio. Una tale presa di distanza dalla fenomenologia costituisce un momento interpretativo utile per comprendere anche il rapporto di Derrida con Heidegger e con l’ermeneutica. Indubbiamente, se l’indagine heideggeriana – ed ermeneutica in generale – ò intesa come un tentativo di ricostruzione di un senso perduto, la decostruzione non ò ermeneutica; se però si svolge fino in fondo – come pare fare Derrida – la difficoltà  da Heidegger stesso evidenziata, e da Gadamer portata a chiarezza teorica, insita in ogni progetto ermeneutico di tipo ricostruttivo, la decostruzione, per quanto lateralmente, può anche essere intesa come una sorta di nichilismo ermeneutico o ermeneutica nichilista. I testi di Derrida appaiono spesso come commenti ad altri testi, filosofici o letterari, linguistici, antropologici o politici, il cui scopo non ò la ricostruzione del loro senso, bensì l’evidenziazione delle loro pieghe autodestrutturanti. A Heidegger Derrida riconosce esplicitamente il merito di aver ispirato il suo progetto fìlosofico (innumerevoli sono i testi a lui dedicati: “Ousia e grammò”, “Dello spirito”, “Differenza sessuale-differenza ontologica”, “La mano di Heidegger”, ecc): ” nessuno dei miei tentativi sarebbe [… ] stato possibile senza l’apertura delle domande heideggeriane ” (“Posizioni”). Il debito più importante nei confronti di Heidegger consisterebbe in quella critica alla metafisica della presenza che costituisce l’orientamento costante della decostruzione e di cui Heidegger avrebbe consentito l’apertura con le indagini svolte in “Essere e Tempo”. Se la decostruzione ha una carica sovversiva veramente radicale, che sola spiega l’orientamento così marcatamente etico-politico e il particolare linguaggio che essa ha assunto soprattutto in tempi recenti (a fine Novecento Derrida non parla quasi più di diffèrance, traccia, grammatologia, concetti che hanno giocato un ruolo primario nell’elaborazione dei suoi testi tra gli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta), ò solo alla luce della critica heideggeriana alla metafìsica della presenza. Essa comporta una serie di conseguenze paradossali, da Derrida esplicitamente assunte: da quella del carattere necessariamente avventuroso del pensiero che cerca di svincolarsi da tale metafisica (ovvero dalle sue presupposizioni logiche e gnoseologiche: dal principio di identità  a quello dell’evidenza, dall’esigenza della fondazione al primato dell’ideale), alla tematizzazione cosciente e coerente dell’impossibilità  teorica di una tale uscita. Il carattere paradossale della decostruzione costituisce una connotazione che ha da più parti suggerito un accostamento con le avanguardie artistiche, e in particolare con il dadaismo. La decostruzione non vuole comunque essere, nell’intento di Derrida, uno tra i tanti discorsi apocalittici sulla fine, e in particolare sulla fine della filosofia, quanto piuttosto un tentativo di delimitazione del discorso filosofico, che ha molto in comune, in effetti, con il programma dadaista: essa si pone al limite del discorso filosofico, limite ” a partire dal quale la filosofia ò diventata possibile e si ò determinata come episteme funzionante all’interno di un sistema di costrizioni fondamentali, di opposizioni concettuali al di fuori delle quali essa diventa impraticabile ” (“Posizioni”). Non stupisce quindi come lo stile volutamente asistematico e spesso distante dal modo tradizionale dell’argomentazione filosofica (si pensi a testi soprattutto degli anni Settanta come “La verità  in pittura”, “La disseminazione”, “Glas”- che ha fatto quasi gridare allo scandalo – o “Envois”), il linguaggio fortemente idiomatico e l’uso, spesso ironico, della citazione, siano elementi non secondari, diremmo anzi intrinseci al procedere decostruttivo, il quale si configura esplicitamente come una commistione di linguaggi (filosofico, psicoanalitico, fenomenologico, politico) tra cui ò difficile individuare quello dominante. Siamo in presenza di un insieme di tratti che hanno fatto di Derrida – sia in senso positivo sia in senso negativo – uno dei maggiori esponenti di quella che ò stata definita condizione postmoderna.

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