Il miracolo economico e la migrazione verso il nord del Paese - Studentville

Il miracolo economico e la migrazione verso il nord del Paese

Nel ventennio 1951-1971 milioni di italiani si trasferiscono dal sud al nord del paese, e dalle campagne alle città sempre più industriali. Questo fenomeno determina un rimescolamento della popolazione italiana, e una serie di conseguenze di tipo economico e sociale. Si analizzino, in particolare, i profondi mutamenti culturali e mentali, ma anche la questione della trasformazione dei consumi, e la nascita delle nuove abitudini metropolitane.

Gli anni Cinquanta furono per l’Italia, come per la maggior parte degli altri paesi occidentali, una fase di grande crescita industriale. I settori che maggiormente si svilupparono in questa fase furono la siderurgia, la chimica, e l’industria meccanica leggera, quella vasta gamma di produzioni che va dagli elettrodomestici fino alle automobili. La grande espansione industriale continuò senza sosta fino alla metà degli anni Sessanta, per poi ricominciare – dopo un breve periodo di recessione – e articolarsi, seppur in maniere differenti ed eterogenee, fino agli inizi dei Settanta. La crescita delle produzioni, in ogni caso, così come l’aumento della domanda estera e la crescente diversificazione di quella interna, furono causa di una crescita importante per l’intero paese, che riuscì a trarre un’importante giovamento da questa condizione economica favorevole, e rilanciarsi a pochi anni dalla fine della seconda guerra mondiale.
Una cosa che va sottolineata, però, è come questa grande crescita portò con se alcune problematiche rilevanti, che avrebbero segnato l’evolversi della società italiana per i successivi decenni. Anche solo durante la prima fase del cosiddetto “miracolo economico”, per esempio, il numero di operai salì vertiginosamente, da cinque a sette milioni, in meno di dieci anni. La necessità di una forza lavoro, non necessariamente qualificata, era forte, e questo costituì un’occasione per tanti lavoratori che dalle città meridionali – dove l’espansione industriale non era arrivata, o quantomeno era arrivata in maniera molto diversa rispetto al nord del paese – si spostarono verso quelle settentrionali. Città come Milano, Torino e Genova si riempirono in pochi anni di operai provenienti da Napoli, dalla Sicilia, dalla Calabria. Non pochi, ovviamente, furono i problemi e le situazioni di difficoltà nelle quali gli emigranti si vennero a trovare, dovendo fare i conti con una condizione di vita non sempre agevole, spesso lontani dalla famiglia, e in troppi casi costretti a misurarsi con un sentimento di razzismo ancora molto lontano dall’essere piegato. Lo stesso tipo di migrazioni che avvenivano dal sud al nord del paese, si sviluppavano dalla campagna verso le città. Tutto questo, fece si che nel paese si sviluppasse un’economia che i tecnici definiscono “duale” o “bivalente”: abbastanza sviluppata e diversificata per quanto riguarda la parte settentrionale del paese, e arretrata al sud, dove agli insediamenti industriali non certamente diffusi come nel resto d’Italia, si aggiungeva una grossa difficoltà anche per il mondo rurale, che doveva fare i conti con una diminuzione della mano d’opera e con un livello tecnologico decisamente insufficiente. Nell’intero decennio dei Cinquanta, insomma, l’Italia si stava velocemente trasformando da paese agricolo a paese industriale, tanto che nel ’58 il numero degli operai superò, per la prima volta, quello dei contadini.
Allo stesso tempo, nonostante le innegabili difficoltà del meridione ad agganciarsi al treno dell’industria del nord (i grandi stabilimenti industriali meridionali, apparivano, come nei casi di Taranto e dell’Alfasud a Napoli, più cattedrali nel deserto che impianti capaci di “trainare” l’intero comparto produttivo locale), tanti furono i cambiamenti, conseguenza del crescente benessere, che attraversarono il paese. Innanzitutto dal punto di vista dei consumi: dopo anni di grossa difficoltà, infatti, la popolazione italiana cominciava a conoscere, seppure (come accennato) con molte discrepanze e molte necessarie differenziazioni, un livello di benessere discreto.
I consumi alimentari, per esempio, furono tra i primi a cambiare (a cominciare da quello della carne), seguiti da quelli dei beni “non primari”. Tra questi, su tutti, lo sviluppo della televisione, che contribuì in maniera importante all’alfabetizzazione e a una crescita culturale di base (seppur massificata) di una importante fascia di popolazione. Programmi come il Festival di Sanremo, la Domenica sportiva, la Tribuna politica, diventarono un vero e proprio punto di riferimento per il paese, e contribuirono all’unificazione linguistica nazionale come forse mai niente e nessuno era riuscito a fare fino a quel momento.
Allo stesso tempo, molti furono i cambiamenti nel modo di vivere delle persone: la diffusione delle automobili (e in una fase successiva della Vespa Piaggio), passate da prodotto d’élite a prodotto di massa, accentuarono un processo di cambiamento per quanto riguarda le abitudini e il modo di vivere la città, in particolar modo per quanto riguarda i giovani. Gli spostamenti all’interno di una grande metropoli erano diventati improvvisamente molto più facili, e la diffusione delle “attività sociali” (night club, ristoranti, cinema, ma anche associazioni, sezioni di partito) incisero in maniera importante sulla dilatazione degli orari e sulla quantità di attività con cui le persone impiegavano il proprio tempo libero.
L’Italia, insomma, tra il 1950 e il 1970, in particolar modo nel corso degli anni del boom, si accingeva a diventare un paese moderno. Lo faceva non senza pagare alcun prezzo, a cominciare dalle condizioni non sempre favorevoli (salari tra i più bassi d’Europa) in cui si trovavano a lavorare e a vivere gli operai (spesso migranti) delle grandi città, condizioni che furono determinanti a far si che i prodotti italiani avessero una forza rilevante sui mercati continentali. Lo faceva pagando il prezzo della disuguaglianza tra nord e sud del paese, tema che sarebbe esploso in maniera definitiva e non più occultabile dopo qualche anno. Lo faceva pagando il prezzo di un cambiamento dell’economia, da agricola a industriale, che avrebbe lasciato anch’essa dei segni importanti. Si tratta, però, di una crescita che fu all’epoca necessaria, e senza la quale il paese sarebbe rimasto inevitabilmente e clamorosamente indietro rispetto alle altre nazioni europee. Forse, se insieme a quella crescita, fossero stati fatti investimenti tali da promuovere un vero sviluppo del Mezzogiorno e una vera  politica di riequilibrio delle risorse e delle possibilità, anche una buona parte dei problemi con cui l’Italia deve fare i conti allo stato attuale, potrebbero essere affrontati in maniera assai più facile.

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