Il pensiero di Crizia - Studentville

Il pensiero di Crizia

Approfondimento sul pensiero del filosofo Crizia.

Nato ad Atene all’incirca verso il 460 da nobilissima famiglia (era cugino della madre di Platone), Crizia fu un elemento di spicco nella rivoluzione oligarchica che, dopo la vittoria spartana nella battaglia navale di Egospotami (405 a.C.) – battaglia che segnò la disfatta decisiva per Atene nella Guerra del Peloponneso – soppresse per qualche tempo la democrazia ad Atene. Egli fu uno dei Trenta Tiranni e, più di altri, fu responsabile del clima di terrore (testimoniato dal meteco Lisia nella sua Contro Eratostene) che si instaurò ad Atene sotto il loro regime autoritario, nonchè delle atrocità  da quelli perpetrate a danno di chiunque si fosse opposto al loro regime. Morì nel 403 a.C., combattendo a Munichia contro i democratici capeggiati da Trasibulo, restauratore della democrazia in Atene. E’ quasi certamente da ascrivere alla sinistra fama che Crizia si guadagnò col suo operato politico l’oblio in cui cadde la sua ricca produzione letteraria e filosofica, che comprendeva tragedie, elegie e trattati in prosa. Dei suoi drammi conosciamo solamente quattro titoli (Temnes, Radamanto, Piritoo, Sisifo), dei quali i primi tre erroneamente attribuiti ad Euripide, mentre il quarto era un dramma satiresco. Dai frammenti superstiti, ò possibile ricavare idee molo sommarie solo sul contenuto del Piritoo e di Sisifo: il primo trattava della discesa all’Ade di Piritoo e di Teseo per riportare alla luce Persefone, colà  trattenuta da Ade stesso. Nel secondo, invece, – che trattava le vicende del mitico Sisifo, condannato ad un’eterna ed inutile fatica – ò celeberrimo il passo in cui Crizia (il quale fu esponente di spicco della Sofistica schierata “a destra”, ovvero in senso decisamente aristocratico e antipopolare) ipotizza che la credenza negli dei sia stata opera di un astuto individuo che, con la paura dell’occulto, volle caricare di sacro timore il diritto e la legge, affinchè gli uomini venissero dissuasi dal commettere ingiustizie e crimini. Tale teoria dev’essere considerata come la punta più avanzata dell’insegnamento sofistico: in essa coesistono l’idea del carattere convenzionale che presiedette alla nascita della legge e del diritto, e quella della civiltà  come prodotto dell’intervento diretto dell’uomo, che con l’invenzione degli dei “che tutto vedono”, anche il delitto concepito nel silenzio, ò riuscito a superare il tempo in cui la vita umana era senza legge e a regolare la vita era la violenza, cosicchè i malvagi non ricevevano punizione alcuna, i buoni non erano in alcun modo premiati. Infatti, come si noterà  nella Repubblica platonica con il mito dell’anello di Gige, ci tratteniamo dal commettere azioni ingiuste esclusivamente perchè temiamo di essere scoperti e, dunque, puniti: se solo avessimo la garanzia dell’impunità  (garanzia che ha Gige, in possesso di un anello che lo rende invisibile), non esiteremmo minimamente a commettere ingiustizia. Proprio in ciò risiede la scaltrezza dell’inventore degli dei di cui parla Crizia: in ogni singolo momento della nostra vita siamo osservati dagli dei, cosicchè, per evitare di essere punti, dobbiamo comportarci in conformità  delle leggi. Se ò vero che agiamo giustamente finchò siamo osservati da un’autorità  in grado di punirci, allora basterà  ipotizzare un’ autorità  in grado di osservarci ininterrottamente per garantire una condotta irreprensibile: questo ò lo scopo per cui sono stati escogitati gli dei, come autorità  che ci tengono gli occhi addosso di continuo. Quella di Crizia sull’invenzione degli dòi ò una teoria famosa, ripresa di tanto in tanto nei secoli seguenti (ad esempio da alcuni illuministi del Settecento). Secondo la testimonianza di Sesto Empirico – che ci ha tramandato il frammento -, Crizia avrebbe esposto nel dramma satiresco Sisifo la sua concezione sull’origine della religione: egli sostiene – come accennavamo – che la religione ò un prodotto assolutamente artificiale dell’uomo; la stessa cosa Prodico sostiene a proposito della legge. Opposta ò invece la concezione che i due filosofi hanno della natura umana: per Prodico fondata sull’uguaglianza, per Crizia su uno stato permanente di guerra di tutti contro tutti (l’hobbesiano bellum omnium contra omnes), che troverà  espressione nella celebre formula homo homini lupus, usata da Plauto (Asinaria, v. 495) e ripresa nel XVII secolo dal filosofo inglese Thomas Hobbes. La legge – secondo Crizia – si fonda sulla forza, unico strumento per garantire la giustizia. Ma lo stato basato esclusivamente sulla propria capacità  repressiva non può esercitare un controllo efficace e continuo su tutti gli uomini (la forza repressiva ò di gran lunga meno idonea a garantire l’ordine che non la capacità  persuasiva dei discorsi!). Per questo, secondo Crizia, fu necessario “inventare” la religione, come strumento per garantire l’ordine e la legalità . Crizia, quindi, dimostra di essere stato un attento studioso dei risvolti psicologici della natura umana. Riportiamo qui il brano, contenuto nel Contro i matematici (IX, 54) di Sesto Empirico: “Tempo ci fu, quando disordinata era la vita degli uomini, e ferina, e strumento di violenza, quando premio alcuno non c’era pei buoni, nè alcun castigo ai malvagi. In seguito, parmi che gli uomini leggi punitive sancissero, sà­ che fosse Giustizia assoluta signora e avesse ad ancella la Forza; ed era punito chiunque peccasse. Ma poi, giacchè le leggi distoglievan bensà­ gli uomini dal compiere aperte violenze, ma di nascosto le compivano, allora, suppongo, un qualche uomo ingegnoso e saggio di mente inventò per gli uomini il timor , sà­ che uno spauracchio ci fosse ai malvagi anche per ciò che di nascosto facessero o dicessero o pensassero. Laonde introdusse la divinità  sotto forma di Genio, fiorente di vita imperitura, che con la mente ode e vede, e con somma perspicacia sorveglia le azioni umane, mostrando divina natura; il quale Genio udirà  tutto quanto si dice tra gli uomini e potrà  vedere tutto quanto da essi si compie. E se anche tu mediti qualche male in silenzio, ciò non sfuggirà  agli dòi; chè troppa ò la loro perspicacia. Facendo di questi discorsi, divulgava il piຠgradito degli insegnamenti, avvolgendo la verità  in un finto racconto. E affermava gli dòi abitare colà , dove ponendoli, sapeva di colpire massimamente gli uomini, là  donde sapeva che vengono gli spaventi ai mortali e le consolazioni alla loro misera vita: dalla sfera celeste, dove vedeva esserci lampi, e orrendi rombi di tuoni, e lo stellato corpo del cielo, opera mirabilmente varia del sapiente artefice, il Tempo; là  donde s’avanza fulgida la massa rovente del Sole, donde l’umida pioggia sovra la Terra scende. Tali spaventi egli agitò dinanzi agli occhi degli uomini, e servendosi di essi, costruà­ con la parola, da artista, la divinità , ponendola in un luogo a lei adatto; e spense cosà­ l’illegalità  con le leggi. […] Per tal via dunque io penso che in principio qualcuno inducesse i mortali a credere che vi sia una stirpe di dòi”. Esponente d’eccezione della sofistica schierata “a destra” e di un’oligarchia non più nostalgicamente ancorata ai valori religiosi del passato, bensì spregiudicatamente interessata a una visione totalmente mondana del potere e della forza, Crizia fu fermamente convinto della superiorità  naturale dell’aristocrazia, per la quale non possono esistere scrupoli morali d’alcun tipo. La religione e la legge esistono dunque per convenzione (nomoV), non per natura (fusiV). Pur disponendo di scarse informazioni in merito, possiamo dire che anche nelle elegie – di cui ci restano scarsissimi frammenti – ò presente una fortissima connotazione ideologica di marca aristocratica, che accomuna i versi di Crizia a quelli dell’antico Teognide di Megara. Impronta altrettanto marcata avevano le Costituzioni, un’opera mista di poesia e prosa che trattava di Atene, della Tessaglia e di Sparta (quest’ultima esaltata più d’ogni altra, in virtù dei suoi ordinamenti oligarchici): la famosa Costituzione degli Ateniesi (risalente ai primi anni della Guerra del Peloponneso), a noi pervenuta nel corpus delle opere di Senofonte, deve essere attribuita a Crizia, come hanno osservato Boeckh e Canfora; nell’opuscolo, viene lucidamente analizzato, da un’angolazione reazionaria, l’assetto istituzionale e sociale della poliV ateniese, di cui si riconosce la profonda coerenza e funzionalità  in ordine allo scopo che esso si prefigge: assicurare l’egemonia del popolo ai danni dell’aristocrazia. Che lo scritto debba essere attribuito a Crizia (e non a Senofonte o ad Alcibiade o a Tucidide di Melesia, come vuole la tradizione) ò del resto avvalorato dal fatto che esso abbia struttura dialogica: in esso, i giudizi e le considerazioni dell’esponente della destra radicale vengono stimolati man mano dalle larvate obiezioni di un secondo interlocutore (la cui presenza ò stata erroneamente cancellata dalla tradizione manoscritta); identificandosi nell’esponente della destra radicale, Crizia avrebbe utilizzato gli schemi dialettici tipici del suo maestro Socrate. L’opera si risolve in un’analisi serrata e lucida del regime democratico ateniese, del quale sono messi in evidenza quelli che Crizia ritiene elementi negativi (la mancanza di scrupoli morali nei governanti, la loro ignoranza, la venalità  dei giudici, la libertà  di parola concessa anche ai meteci e agli schiavi); in questa spietata e feroce valutazione della democrazia ateniese dell’età  periclea, Crizia si attesta su posizioni di netta insofferenza per il popolo, inteso come una massa di inferiori che una città  saggiamente governata (ovvero retta da un regime aristocratico) non dovrebbe neppure ammettere alle assemblee, ma anzi dovrebbe tenere in schiavitù. La contrapposizione di natura tra aristocratici e plebei ò insanabile: il popolo, in quanto rozzo e ignorante, ò inadatto a governare la poliV. Nella seconda parte dell’opera, però, alla marcata insofferenza verso il regime democratico, si sostituiscono positive considerazioni sulla necessità  dello sviluppo della talassocrazia ad Atene e sulla validità  della gestione economica della città : il che dimostra l’ottima preparazione tecnica e politica di Crizia, che sul finale dell’opera constata in maniera rassegnata l’impossibilità  che ad Atene l’attuale situazione possa mutare. Resta sconosciuto, invece, l’argomento degli Aforismi e delle Conversazioni.

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