Inferno: XXII Canto - Studentville

Inferno: XXII Canto

Riassunto e critica.

Riassunto

A mano a mano che il drappello guidato da Barbariccia si avvicina, i

barattieri che affiorano con l’arco della schiena alla superficie della palude bollente e quelli che, disseminati lungo le sue

rive, stanno come rane sull’orlo di un fossato, si tuffano in essa con rapidità fulminea. Uno di loro tuttavia non fa in tempo

a nascondersi. E’ Ciampolo di Navarra, che Graffiacane è riuscito a prendere con il suo uncino. Il barattiere, dopo avere

narrato di sé e dei suoi compagni di pena, promette di farne venire molti nel punto in cui si trova, purché i Malebranche si

tengano un po’ in disparte. Su consiglio di Alichino la sua proposta viene accettata, ma non appena i diavoli si volgono verso

uno degli argini della bolgia, Ciampolo spicca un salto e scompare sotto la pece. Alichino, dopo aver tentato vanamente di

raggiungerlo volando, è afferrato da un altro dei Malebranche, Calcabrina, il quale, adirato per lo smacco subìto, si azzuffa

con lui. I due diavoli finiscono per cadere nella pece bollente.
Mentre Barbariccia, addolorato, dà disposizioni al suoi

sottoposti perché si adoperino a salvare i loro compagni, Dante e Virgilio si avviano per lasciare la quinta bolgia.

Introduzione critica

La guardia ai cerchi dell’alto e medio inferno è affidata a demoni, le cui figure sono

state ispirate a Dante dalla letteratura antica. Questi sono “personaggi infernali dell’Eneide, quali Caronte e Minosse, o

mostri come Cerbero, sia pure adattati a un gusto figurativo romanico che ha in Gerione il suo esempio più caratteristico, o

dei pagani trasformati appunto in demoni secondo la tradizione cristiana medioevale” (Cattaneo).
Il loro aspetto non è mai

privo di una certa maestà; essi appaiono in una luce di prestigio anche nel momento in cui la loro sconfitta di fronte alla

ragione (Virgilio) palesa la sostanziale debolezza che si cela dietro le loro apparenze crudeli. Dante ha veduto in essi,

protagonisti in terra di leggende cantate dai poeti, i cittadini di un universo di cultura oltre che le incarnazioni del male.

Tutt’altra natura hanno i custodi della quinta bolgia, di ispirazione schiettamente medievale. I loro antecedenti sono nella

tradizione iconografica della scultura, pittura e miniatura dei Duecento, nelle sacre rappresentazioni, in rozze leggende come

quelle che hanno fornito lo spunto ai tentativi letterari di Giacomino da Verona, Uguccione da Lodi, Bonvesin della Riva.
In

essi la natura umana non appare degradata, come nei guardiani dei cerchi superiori in qualcosa di ibrido e deforme, quanto

piuttosto colta in uno stadio di primitività – anteriore al momento della riflessione – anarchica e spensierata.
I custodi

dell’alto e medio inferno sono tragici: tutto parla in essi di decadimento, dello smarrirsi di un’originaria perfezione. Sotto

questo punto di vista le loro figure, benché proposte a Dante da poeti pagani, rispecchiano assai più da vicino una prospettiva

teologica, una meditazione cristiana sul problema del male. I diavoli della quinta bolgia sono invece comici, comico essendo il

contrasto fra la loro intelligenza, superficiale, istintiva, mobilissima, e la parte, superiore alle loro forze, che pretendono

di recitare di fronte ai due stranieri capitati nel loro dominio.
Le parole con le quali Virgilio manifesta la volontà

divina non li paralizzano nel dolore, non ríbadiscono in loro, nel ricordo di una condanna senza appello, la coscienza della

loro degradazione. Significativo, a questo riguardo, è un raffronto tra il modo di reagire, alle intimazioni del poeta latino,

di Pluto e quello di Malacoda; di quest’ultimo Dante ci dice che solo l’orgoglio gli “cade” mentre – e il parallelismo ha un

indubbio sapore comico – l’uncino gli “casca” ai piedi. La caduta di Pluto non è invece una caduta soltanto metaforica; essa

somiglia ad un annientamento totale, non consente alcuna distinzione tra realtà interiore e realtà esteriore (espresse

rispettivamente, nell’episodio di Malacoda, da orgoglio e da uncino); vano si è rivelato il suo ricorso a Satana, un accenno

indiretto (vuolsi nell’alto … ), la luce di quella parola che in lui ha smarrito la capacità di significare, ne fanno un

vinto, un inerme.
Malacoda si adatta invece benissimo alla situazione davvero inconsueta che gli viene prospettata (XXI,

versi 83-84); per lui la volontà divina è un semplice dato di fatto; di esso bisogna tenere conto né più né meno che di altre

realtà che affiorano nel vivere quotidiano; ma sul suo significato non ha senso soffermarsi. Non potendo impedire l’attuazione

dei decreti dei cielo, egli pensa di trarre profitto dalla presenza dei due pellegrini nel suo territorio ed inventa la

menzogna del ponte sulla sesta bolgia. Virgilio, la ragione, ingenuamente persuasa di poter risolvere nel proprio ambito tutto

il reale, ignora la dimensione della malizia gratuita e paga di sé, il male non riducibile, secondo l’insegnamento degli

antichi, ad una semplice distorsione dell’intelletto.
Eccolo dunque accettare la compagnia dei diavoli. Un’intelligenza

rozza, incapace di soste meditative, ha trionfato della sua incommensurabile saggezza. Il segnale di Barbariccia suggella

umoristicamente la momentanea vittoria del primitivo sulla complessità di forme razionali e tradizioni di alta civiltà che

nella figura dell’autore dell’Eneide trovano la loro trasfigurazione poetica.
Se il canto XXI si conclude con il trionfo dei

diavoli, questi, nel canto XXII, sono a loro volta vittime di una beffa escogitata ai loro danni da un peccatore.
Una

singolare forma di contrappasso, scanzonato e ridanciano (ma nella chiesa coi santi, ed in taverna co’ ghiottoni), appare alla

base dell’intermezzo comico della quinta bolgia. Se infatti l’intuito dei diavoli ha ragione, forse perché non la tiene in

nessun conto, dell’autorevolezza di una logica scissa dalla realtà degli istinti, esso deve a sua volta dichiararsi sconfitto

di fronte alla logica, tutta travasata nel concreto, di chi, come Ciampolo, cerca di salvare la propria incolumità.
La

presentazione che questo dannato fa di sé, più che cinica, come è parso a taluni, è “semplicemente incosciente e primordiale.

Sembra che egli non abbia coscienza che della sua immediata, esistenza, dell’essere in quanto essere puramente fisiologico e

animale. Dante segue con sguardo tra stupito ed ammirato il manifestarsi dell’intelligenza in un carattere così diverso dal

suo.
L’episodio di Ciampolo è la rappresentazione di tale intelligenza, che si afferma e dà i suoi frutti nelle condizioni

più svantaggiose” (Salinari).
Da un punto di vista lessicale il canto è, come il precedente, ricco di idiotismi e forme

proverbiali. Queste particolarità di stile non hanno soltanto la funzione di caratterizzare più da vicino i personaggi (come

donno e di piano, per mezzo dei quali ci è restituito nelle sue sfumature cariche di malizia l’ambito delle preoccupazioni che

tengono ancora desta e attiva la coscienza dei barattieri sardi), ma si estendono anche a quei punti nei quali Dante parla in

prima persona. Il linguaggio contribuisce in tal modo alla creazione di un’atmosfera nella quale dannati e diavoli, e Dante con

loro, appaiono accomunati in un sentire che riscatta – sul piano dell’arte – la propria elementarità plebea nella genuinità

delle proprie manifestazioni.

  • La Divina Commedia

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