Kant: La femminilità - Studentville

Kant: La femminilità

La femminilità per Kant.

Occorre subito precisare che quando si parla di condizione femminile ci si riferisce alle donne di ceto sociale elevato o molto elevato. I ceti popolari, uomini o donne, in questo periodo non fanno storia, tranne che per casi come quello della manzoniana colonna infame. In questo senso si deve considerare il monachesimo come ceto sociale sui generis, dove non ò impossibile una visibilità  storica pur provenendo da ceti popolari. Da un punto di vista giuridico la donna tendenzialmente non aveva personalità  civile. Se era figlia, perchè figlia; se moglie, perchè moglie. Essa era proprietaria in due casi tipici: l’ orfanezza e la vedovanza. Il matrimonio era un contratto fra uguali, in cui una parte (la donna) accettava liberamente la sottomissione all’altra. L’educazione femminile era sistematicamente diversa da quella maschile in tutti i ceti. In quelli popolari l’uomo doveva imparare un mestiere; in quelli più alti curare l’istruzione e l’educazione civile. Alle giovani erano riservate conoscenze pratiche, attinenti al loro futuro ruolo di madri e di mogli. Del resto anche i mestieri femminili erano normalmente diversi da quelli maschili, sebbene non in modo assoluto. Da un punto di vista istituzionale il sapere era quasi monopolio del clero (non esclusa qualche religiosa) e dei maschi delle classi più elevate. L’istruzione pubblica non esisteva. Vi erano i collegi – quasi esclusivamente maschili – o i precettori privati per i rampolli di famiglie molto facoltose. E se qualche volta poteva succedere che una donna imparasse un po’ di latino, per lo più era solo per la sua capacità  di origliare la lezione che veniva impartita ai fratelli. Era così ovunque e sempre? La donna era tenuta realmente in una ignoranza assoluta? A questo occorre rispondere di no. Gli archivi dei monasteri sono fitti di lettere, così come sono conservati epistolari di donne nobili o borghesi. Molte donne sapevano leggere e scrivere, ma nella lingua materna. Perciò non potevano che accedere alle pubblicazioni in volgare. D’ altra parte ci furono anche casi, come quello di Vittoria Colonna, in cui una giovane venne educata con cure assai particolari, tanto che rimangono moltissimi suoi scritti in versi. In questo quadro generale, nella Francia del XVII secolo troviamo due eventi di larga portata. Uno ò il cartesianesimo; l’altro sono i salotti letterari. Descartes fu importante in due modi: uno pratico e uno teorico. Per il razionalismo cartesiano la res cogitans non ha differenze di genere, per cui ò assurdo che l’uomo debba essere istruito e la donna no. Coerentemente a questo principio, Cartesio per la prima volta pubblica un testo di filosofia come il Discorso sul metodo, in lingua volgare anzichè in latino. Da questa incrinatura passerà  tutto lo sviluppo successivo. Il transito dalla rilevanza assoluta del latino alla sua irrilevanza assoluta segna il cammino dalla rilevanza assoluta della cultura clericale alla sua irrilevanza assoluta (secolarizzazione). E purtroppo il parallelo cammino di emancipazione femminile porta quasi inevitabilmente le femministe a leggere l’irrilevanza culturale del cristianesimo come condizione di possibilità  della loro emancipazione. Il XVII secolo ò dunque al sorgere di un processo storico complesso, dagli effetti tuttora tangibili. Ed ò proprio in questo periodo che Madame de Rambouillet inventa il suo salotto. Esso ò una piccola corte, dove la padrona di casa ò la regina, e dove si ò invitati per conversare, accolti in un ambiente sorprendentemente confortevole, luogo di incontro con ingegni eccellenti e spiriti arguti. Qui gli scrittori possono presentare le loro opere più recenti, qui vengono lette pagine ritenute stimolanti, qui si esercita la critica più raffinata. Inevitabilmente qui si finisce per parlare di politica e qui nasce la Fronda. All’inizio della seconda metà  del secolo, falliti i moti frondisti soprattutto per l’abilità  politica di Mazzarino, i salotti si riorganizzano dando vita al preziosismo. E questo ò un fenomeno di estrema importanza sia letteraria che sociale. Da un punto di vista del potere, le donne approfittarono di quello che avevano, ossia il potere di invito e di accoglienza, per imporre un gusto nuovo, il cui elemento fondamentale era la semplicità  del linguaggio, in contrapposizione allo stile pedante; ma in cui non meno importante fu la spiritualizzazione del linguaggio. Questo secondo aspetto ebbe persino una rilevabile incidenza lessicale, dato che furono bandite le parole oscene, fino allora frequenti nelle composizioni satiriche. Ma soprattutto portò l’attenzione verso ciò che nell’uomo vi ò di più nobile, ossia gli affetti e i sentimenti. Il preziosismo fu promosso dalle donne, ma il nuovo gusto non rimase meramente femminile. Il teatro cambiò in modo così significativo che le donne non ebbero più motivo di esserne escluse (o autoescluse). Compaiono le prime scrittrici, per lo più anonime, sia di romanzi che di opere teatrali. Nelle loro storie compaiono eroine caratterizzate da un’assoluta capacità  di dominio delle proprie passioni. Naturalmente quasi sempre si tratta di storie d’ amore, cosa che richiede necessariamente di arrivare anche all’atto carnale. Ma il modo in cui la materia ò trattata ò nuovo. In qualche modo l’atto carnale ò la cosa meno importante. Ciò che ò importante ò il rilievo dato al pudore femminile e alla verecondia. Questo oggi ò letto per lo più con insofferenza o con disprezzo, ma questa ò una lettura molto ingiusta, e per due motivi. Uno ò che nell’immaginario collettivo delle persone colte la donna, nella natura, era una sorta di di meno, a causa del fatto che, diversamente da tutte le altre femmine, ò sempre disponibile all’accoppiamento (cioò non ò soggetta ai ritmi dell’estro). Questo fatto già  dagli antichi era stato letto molto male: Clemente Alessandrino, riprendendo il pensiero ellenistico, osserva che l’accoppiamento secondo ragione ò solo quello che mira alla procreazione; per cui l’ insaziabilità  femminile ò contro ragione. [1] Ebbene le preziose, con le loro opere, incidono sull’immaginario collettivo, presentando come possibile e bella una donna totalmente diversa. Oggi siamo arrivati all’ apologia della sfrenatezza, ed ò tutto da discutere che questa sia veramente emancipazione. Il secondo punto ò che la dissociazione fra sentimenti e libertà  ò un disastro. Le preziose enfatizzando i sentimenti pongono anche il tema della libertà  nella luce corretta e migliore. La vita ò un’esperienza infelice quando i sentimenti non sono rispettati, quando non hanno valore. La legge qualche volta punisce chi lancia pietre dai cavalcavia e ferisce un passante. Ma non potrà  mai punire chi con una parola o una decisione ferisce il cuore, a volte in modo mortale. Dalla ferita di un sasso si può guarire in un mese o in una settimana. Un sentimento spezzato può mutilare una vita, privare la figlia di un padre o l’uomo della moglie. Allora, se non ci fu amore, cambiare donna o cambiare cravatta ò più o meno lo stesso. Ma se ci fu amore? Il cuore ha diritto di essere difeso e tutelato, ma per farlo una sola via ò possibile: quella dell’educazione. E questa fu la via imboccata dalle preziose, i cui scritti ebbero la funzione oggi assunta dalle telenovelle. Per cogliere l’importanza di quell’ampio movimento letterario che prende avvio dal preziosismo, basterebbe considerare la figura del Manzoni. Le sue frequentazioni dei salotti francesi, in particolare di Madame Condorcet, furono essenziali alla sua formazione e all’evoluzione del suo gusto letterario. E l’operazione che egli farà , scrivendo i Promessi sposi, corrisponde esattamente alla traduzione nella letteratura italiana di quella femminilizzazione del linguaggio che operarono le preziose in Francia, non senza subire le violente reazioni dei pedanti. Se Manzoni queste reazioni non ebbe, e il nuovo stile fu universalmente accolto con favore, fu appunto e solo perchè ormai quella battaglia di avanguardia era stata vinta, per merito di quelle donne accorte e coraggiose. In due secoli le scrittrici passano dall’anonimato alla notorietà  delle più talentuose come Madame de Sèvignè. Emblematica resta Madame de Staà«l, sebbene non l’unica. Ma proprio attraverso di lei possiamo cogliere i limiti di questo grande moto di emancipazione. Ormai centro universale di attenzione, in Corinne lascia visibilità  al dramma della sua esperienza: “La gloria, per le donne non ò che lo splendido lutto della felicità â€. Il pensiero sulla condizione femminile Il XVI sec. si apre con uno scritto sorprendente: nel 1505 Agrippa di Nettesheim pubblicò, infatti, Nobiltà  ed eccellenza del sesso femminile, dedicato a Margherita d’ Austria, governatrice dei Paesi Bassi. La dottrina che espone si può sintetizzare in tre punti principali: a) l’ anima della donna vale in libertà  e grandezza quella dell’ uomo; b) dalla Bibbia si può evincere la superiorità  della donna almeno per due motivi: perchè Adamo significa terra ed Eva vita, e la vita ò ben di più; ma soprattutto perchè nel ritmo della creazione ciò che ò fatto dopo ò più perfetto, e dunque l’ esser la donna l’ ultima creatura ò segno di superiorità ; [2] c) tutto il buono riscontrabile nella Storia fu creato dalla donna. Dunque Agrippa, in controtendenza assoluta, non si limita a sostenere l’ uguaglianza dei sessi, ma addirittura teorizza la superiorità  di quello femminile. E’ una posizione che precorre di quasi cinque secoli lo sciovinismo femminista e che, come tale, non avrà  seguito significativo per lunga pezza. Ma proprio per questo il fatto mi sembra emblematico: come mai Agrippa arrivò a tali convinzioni? Ebbe davvero la forza del genio che sfida il mondo intero, o piuttosto riprese idee già  sussurrate in qualche ambiente devoto? Linee interpretative già  suggerite o insinuate prima di lui? Di fatto Margherita d’ Austria lo difese dalle violente reazioni che non mancarono. E per meglio calarci nell’ aria che tirava a quei tempi, può giovare citare due passi dell’ Enchiridion militis christiani, che Erasmo pubblicò nel 1503: già  nel primo capitolo, commentando Gen 3, 15 scrive “Per donna intendo la parte carnale dell’ uomo”; e nel capitolo sesto ribadisce: “Paolo vuole che la donna sia sottomessa al marito. La malvagità  del maschio ò meglio della bontà  della femmina (ù Sir 42, 14; Qo 7, 26-28). La passione carnale ò la nostra Eva […] donna nuova, quella cioò che ubbidisce al marito…” (Rusconi 1989, pp. 170 e 204). Nei secoli XVII e XVIII, in modo grossolano, ma icastico, riscontriamo tre linee: le posizioni estreme dei maschilisti irriducibili, la linea più diffusa del maschilismo moderato e quella egalitaria; le ultime due a volte compresenti – se pure una un po’ più, l’altra un po’ meno – anche in singoli autori. La prima ò quella che riscontriamo nell’ edizione del 1771 dell’ Enciclopedia Britannica. Già  il solo fatto che alla voce donna si dedichino sei parole: “La femmina dell’ uomo, vedi Homo” la dice lunga. Ma se poi andiamo a guardare cosa si dice della donna all’ altra voce, ecco il quadro: la donna ha un cervello più piccolo e meno intelligenza, ò più emotiva e più instabile, priva di capacità  di discernimento, meno dotata di senso comune rispetto all’ uomo, fisicamente più debole e spesso malata; e pertanto non le si poteva affidare l’ amministrazione del denaro. La seconda ò quella di una simmetria asimmetrica, per cui la donna ò uguale, però ò anche diversa. E, se diversa, ò un po’ di meno. E’ la posizione ad es. dell’abate Mallet, autore di uno dei tre articoli in cui l’Enciclopedia di Diderot e D’ Alembert, edita fra il 1751 e il 1772, sviluppa la voce donna. La terza parte da Cartesio, passa per Poullain de la Barre e arriva a Condorcet. E’ la linea della simmetria radicale fra uomo e donna. E Montesquieu notava acutamente, nel 1748, che la donna ò libera quanto alla legge, schiava quanto ai costumi: per questo ò contro ragione che esse siano padrone di casa, non che governino un’impero. Anzi, non ò raro che come regnante la donna sia più mite di molti uomini. Di seguito mi restringerò ad alcuni punti più rilevanti per inquadrare il pensiero kantiano. Nel secondo dei tre articoli succitati, De Jaucourt, trattando della famiglia, pone la questione del governo, sottolineando la necessità  intrinseca che esso spetti solo a uno dei due coniugi. Il motivo ò che in una società  di due, non può esistere democrazia per impossibilità  di maggioranza. Ora l’uguaglianza creerebbe micidiali situazioni di stallo non già  per il mero egoismo, ma semplicemente per le divergenze di valutazioni onestamente inevitabili sul concreto quotidiano. E una comunità  qualsiasi, priva di una struttura decisionale certa, ò destinata ad essere travolta dalle circostanze. Se il figlio ha mal di pancia, e il marito gli vuol dare la pastasciutta e la moglie la minestrina, può darsi che una delle due scelte sia migliore, ma di certo la peggiore di esse ò preferibile a far morire di fame il ragazzo. Dunque devono esserci regole chiare per superare i contrasti. Ma essendo impossibile prevedere a priori tutti i contrasti, ò pure impossibile prevedere tutte le regole. Da qui la necessità  di criteri semplici. Uno ò quello della lotta psicologica: chi esce vincitore dal conflitto impone la propria decisione. Questa ò una via praticabile concretamente, solo che alla lunga logora la vita affettiva e corrompe la famiglia. Non resta dunque che assegnare a priori ad uno dei due la responsabilità  del giudizio finale. Ciò non lo porta, però, a teorizzare la superiorità  intrinseca dell’uomo, che anzi refuta; tuttavia constata come la subordinazione femminile sia costante in tutte le nazioni civilizzate. Nel terzo articolo, poi, Desmahis considera il fascino femminile, la civetteria, l’immaginazione della donna, il suo gusto del dominio e dell’autorità . Nelle donne tutto parla, ma con linguaggio equivoco. E Diderot nota che in lei dominano i sensi, non la mente. Per Rousseau il pudore ò la strategia escogitata dalla natura per arginare lo straripamento femminile. Montesquieu nota però che se le donne possono rovinare i costumi, ben creano il gusto. Quanto all’educazione, Poullain de la Barre già  nel 1674 aveva sostenuto l’importanza di un uguale trattamento di uomini e donne. Il pensiero di Rousseau ò più complesso da decifrare, perchè nell’Emilio (1762) in parte esprime convinzioni sentite, in parte ironizza su metodi educativi effettivamente usati nelle classi più elevate. La storia di Emilio e Sophie ha più di un punto comune, ad es. con quella di Vittoria Colonna e Ferrante d’ Avalos. Comunque sia, nell’ Emilio ò teorizzata l’idea che la scienza della donna sia la conoscenza degli uomini e dei loro sentimenti, e in particolare quelli del suo sposo. E che il libro delle donne ò il mondo. La loro intelligenza ò concreta, ed ò assurdo impegnarle con altro, che concreto non sia. Meglio perciò orientarla all’osservazione, dove eccelle, lasciando poi che sia l’uomo a sviluppare, su quelle osservazioni, le opportune teorie. Ne segue che in un certo senso la donna ha storia solo limitatamente alla sua arte di attrarre. Le sue funzioni sono eternamente quelle di figlia-sorella-moglie-madre-nonna, e in quanto tali indipendenti dalle civiltà , se non per aspetti occasionali. La casa ò così il criterio di competenza e di separazione: all’uomo il pubblico, alla donna il domestico. Ma nell’Emilio troviamo anche una battuta enigmatica, che per essere spiegata convenientemente dovrebbe forse richiedere l’illustrazione previa della teoria dell’ubbidienza accettata dalla cultura del tempo. Dice il precettore a Sophie: “Divenendo il vostro sposo, Emilio ò divenuto il vostro capo, sta a voi ubbidirgli, come ha voluto la natura. Quando la donna assomiglia a Sophie, ò bene che l’uomo sia da lei guidato; ò una legge di natura”. [3] Dunque solo la donna saggia ò obbediente, e l’uomo ò tenuto a farsi guidare dalla donna saggia. Qui vi ò una doppia kenosi, e l’ autorità  maschile ò solo il vaglio, lo scoglio oltre il quale l’uomo può, come desidera, consegnarsi. Infine Rousseau sottolinea che in amore non vi sono mai diritti, perchè il diritto uccide prima l’ amore e poi la libertà . [4] Il pudore deve essere vinto, ma dalla delicatezza e dal vero amore. Nel 1790 Condorcet pubblica un importante articolo sui diritti civili della donna, difendendone a spada tratta l’uguaglianza con gli uomini. Riconosce che l’intelletto femminile ò diverso da quello maschile, ma non per questo di minor dignità . E se la donna si imbelletta, lo fa solo perchè costretta dalle convenienze sociali allo statuto dell’apparenza. Egli distingue poi fra istruzione ed educazione. La prima deve essere pubblica e uguale per tutti; la seconda resta pertinenza delle famiglie. Perciò la donna non può essere discriminata quanto all’istruzione, mentre l’educazione varierà  a seconda delle credenze, della cultura e di tutte quelle caratteristiche che fanno di una famiglia un irripetibile. Infine il diritto di citò in astratto vale tanto per l’uomo che per la donna. Però, in pratica, non tutti pagano le tasse, perchè non tutti sono proprietari. Ergo l’uguaglianza richiede che come gli uomini nullatenenti siano esclusi dal voto, ugualmente lo siano le donne in condizioni analoghe. Primo momento: come si pone l’uomo Kant rispetto al femminile? E’ un punto importante per una corretta lettura della sua filosofia, perchè ciò che esprimiamo, anche in forma teoretica, può comunque avere agganci, magari inconsapevoli, con il proprio vissuto. E non ò male focalizzare, per quanto possibile, cosa venga da una parte o da un’altra. Un’indagine biografica sommaria mi ha messo di fronte questo quadro: la sua famiglia era povera, e lui fu l’unico a studiare. La Vanni Rovighi osserva poi che, in età  matura, rimase celibe e i rapporti con le sorelle scarseggiarono anche in assenza di impedimenti ragionevoli, quali ad esempio l’abitare in città  diverse. [5] E che, sollecitato da una missiva fraterna, poteva rispondere anche dopo due anni. Come leggere questi comportamenti? Che il privilegio di aver studiato abbia originato qualche screzio, ò comprensibile. Ma se un uomo arriva ad aiutare economicamente i fratelli più poveri solo per dovere e senza affetto, ò come dare mille lire ad uno che chiede la carità  sulle scale dell’università . Che fraternità  ò rimasta? C’ ò il fastidio, l’irrisolto di un senso di colpa. C’ ò un problema di equilibrio complessivo della personalità . E questo ò coerente con ciò che la Rovighi aggiunge: amici in senso largo sì, amici intimi nessuno. Fu dunque Kant un misantropo o almeno un misogino? Misantropo in senso forte ò da escludere. L’intenso affetto cittadino in occasione dei suoi funerali non si giustifica con la sola Critica della ragion pura. In più restano testimonianze dei suoi comportamenti: ad es. l’ interessamento concreto ed efficace in sostegno del giovane Fichte; o anche l’aneddotica, in questo caso preziosa: metodico com’ era, Kant non pranzava mai da solo; e, una volta che gli amici non poterono onorare la sua mensa, non esitò ad invitare il primo che si imbattè a passare per la via. Questi atteggiamenti hanno un riscontro esplicito nella Critica del giudizio, dove scrive: “…il fuggire gli uomini perchè si odiano, per misantropia o antropofobia, […] ò cosa odiosa e disprezzabile insieme” (§29, 276). D’ altra parte Kant era uomo abitudinario, schivo della vita mondana, e se era lieto di avere ospiti alla propria tavola, non era particolarmente assiduo a quella altrui. Ciò va certo letto anche alla luce di un bisogno di intimità  fatta a sua misura. Quando gli viene offerta la cattedra ad Halle, nel 1778, con uno stipendio triplo, e per giunta con l’onorificenza di Hofrat, Kant declina. Preferisce restare in una piccola città , che gli sembra più proporzionata a lui e alle sue forze. E non ò uno sgarbo verso il Ministro dell’Istruzione, con il quale mantiene rapporti cordiali. Invece ò un atteggiamento che ha a che fare con un certo ideale morale e con un temperamento più incline alla modestia che alla vanagloria. [6] E’ però vero che, ancora nella Critica del giudizio, cede all’ idea di una filantropia condizionata. [7] Kant dunque, invecchiando, si ò arreso. L’ umanità  si divide in due categorie: gli amabili, a cui non appartiene quasi nessuno, se non forse i bimbi o gli adolescenti ancora ingenui; e gli inamabili, cui appartengono tutti gli altri. E così non distingue l’ inamabilità  dei difetti dall’ accoglienza della singola persona. Ciò significa che la sua idea di accoglienza ò un’ idea dipendente, e la sua benevolenza non ò poi così libera come l’ alta autostima della propria moralità  avrebbe lasciato attendere. Misogino dunque? Per rispondere a questa domanda, mi sono chiesto in primo luogo in che modo abbia lasciato memoria – se lasciò memoria – di qualche donna concreta, vale a dire in che modo abbia riportato fatti coinvolgenti qualche donna. E questo sarà  il punto di partenza del nostro esame dei suoi scritti. Schizzi di donne Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime Madame Dacier ha il cervello rimpinzato di greco, e la marchesa di Chastelet sostiene profonde dispute sulla meccanica. Entrambe potrebbero benissimo avere la barba (cap. III). “Ninon de Lenclos non avanzava la minima pretesa al vanto della pudicizia, e tuttavia si sarebbe sentita implacabilmente offesa se un suo amante si fosse troppo spinto nel suo giudizio; ed ò noto il crudele destino a cui il Monaldeschi andò incontro a causa di un’ espressione offensiva di tal genere a proposito di una principessa che non voleva certo essere una Lucrezia” (ivi). [8] B. Critica della ragion pratica A 277: Anna Bolena ò presentata come emblema di innocente calunniata che non può difendersi. C. Antropologia pragmatica A p. 95 troviamo Cristina di Svezia, paragonata a Carlo II, della quale si dice che, mostrando una prassi assai simile a quella dell’altro sovrano, era brava a citare massime, assai poco a praticarle. Madame Bourignon ò la più citata da Kant (ù pp. 16 e 46) e viene messa in compagnia di Pascal ed altri. E’ presentata come esempio di visionaria e di inganno dell’immaginazione. Terza menzionata ò la contessa Keyserling, di cui ricorda l’amabilità  di intrattenimento, capace di presentare ai suoi ospiti buffi episodi di cui fosse stata testimone (ù p. 153) A p. 184 l’episodio della nutrice di Giacomo I, che gli chiese di creare gentleman il proprio figliolo. Al che il sovrano rispose che lui poteva farlo conte, ma non gentleman. E poco appresso (ù p. 191) il motto spiritoso di Madame de Sèvignè: “Pelisson abusa del permesso che gli uomini hanno di essere brutti”. E Kant nota che non si tratta di un frizzo offensivo. Infine alcuni riferimenti a donne che rimangono senza volto, o individuate indirettamente, attraverso i mariti rispettivi. Il primo ò la battuta di una signora anonima, che alla domanda di un accademico se i cavalli mangiassero anche di notte, rispose: “Come può un uomo così dotto essere così stupido? ” (ù p. 92). A p. 201 si ha invece lo snodo di un discorso più complesso: la moglie di Milton invita il marito ad accettare il posto di segretario latino a corte. Milton rifiuta, sembrandogli di prostituirsi ad un governo che ritiene illegittimo. Similmente “La moglie di Socrate e forse anche quella di Giobbe, furono dai loro più forti mariti tenute a freno così, ma una virtù maschile si mostrava nel loro carattere, senza tuttavia che la virtù femminile perdesse del suo merito nella condizione in cui esse si erano poste”. Aggiungo che questi tre quadri per Kant sono illustrativi del tema del coraggio femminile, che prima enuncia formalmente e poi esemplifica. L’atteggiamento psicologico di Kant verso le donne Tentiamo ora l’analisi di questi passaggi. Ninon de Lenclos ò presentata secondo l’immagine pubblica e la notorietà  del tempo; e Lucrezia ò emblema di donna da cui guardarsi anche in cartolina. Non ò tenero con Madame Bourignon; però la mette sullo stesso piano di Pascal, che non ò uno qualsiasi, e di altri maschietti: per cui ò vero che ella apre l’elenco delle persone biasimate, ma ò anche vero che ò una sola contro molti uomini. Similmente Cristina di Svezia ò appaiata a Carlo II, nei confronti del quale il coltello affonda maggiormente nella piaga. In più si deve notare che di Cristina parla anche nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, e il modo in cui lo fa ò importante. Infatti essa ò citata a proposito di un episodio che non la onora, ma in modo anonimo, sottolineando la distanza fra lei e Lucrezia Borgia. Ora un simile stile letterario ò proprio di chi difende assai più che di chi accusa. Ne segue che il senso complessivo di queste citazioni ò quello della inevitabilità : non poteva non citarla, perchè i suoi lettori si aspettavano che lo facesse. Tuttavia non infierisce, quasi la scusa. All’opposto della Bourignon, la contessa Keyserling, ò presentata positivamente, ricordandone l’amabilità  di intrattenimento; e Madame de Sèvignè come donna dall’arguzia proverbiale. Il suo motto di spirito: “Pelisson abusa del permesso che gli uomini hanno di essere brutti” ò qualcosa di splendido. E’ espressione di un’intelligenza raffinata, che sorride senza deridere. E sorridendo, riesce a trasmettere affetto e accoglienza, quasi il maggior amore di cui Pelisson ò oggetto a causa della sua bruttezza. Importante anche la battuta attribuita ad una signora anonima: “Come può un uomo così dotto essere così stupido? ”. Qui la donna fa la parte della persona acuta, e l’uomo istruito dell’ottusa. Questi quadri mi paiono sufficenti per escludere l’accusa di misoginia. Chi ò tale, e quanto più lo ò, si segnala per due caratteristiche: una, l’incapacità  di parlar bene delle donne; l’altra l’enfasi nel denigrarle. Ebbene in Kant queste due note mancano. Emblematico ò che parlando della contessa di Keyserling lasci trasparire un rapporto quasi più che cordiale: la sigla K-g, con cui a lei allude, sembra, infatti, impegnarlo in una riservatezza che richiede una condizione di possibilità . Il campionario che presenta, e che abbiamo esaminato, non ò poi troppo distante dall’esperienza comune, che riconosce alle donne lo stesso spettro di capacità  morali dell’uomo. Alcune sono più lodevoli di altre; alcune meno, o per nulla. Del resto, in una stessa donna, raramente tutti i comportamenti sono ugualmente lodevoli, ma di solito alcuni di più, altri di meno. Ne segue che il quadro complessivo degli atteggiamenti kantiani rispetto ai personaggi femminili risulta equilibrato. Abbiamo poi un testo significativo nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, [9] di schietto elogio della fedeltà  coniugale: e la lode ad Adrasto ò troppo spontanea, troppo cordiale, perchè non rifletta un amore e, forse, un desiderio. Kant ha un’idea nobile della famiglia, e ciò comporta un atteggiamento di fondo almeno rispettoso – e, probabilmente, desideroso – verso il mondo femminile, verso il quale ò bello andare incontro. Questo esclude che si debba leggere come misoginia il suo celibato. Seconda domanda: se non era un misogino, era almeno un maschilista? Questo dubbio ò legittimo, perchè le note caratteristiche delle sue opere maggiori sono quelle di una fredda astrattezza, cosa che certo non si può assumere come tipica di un filosofare al femminile, o di un pensiero filogino. Discuterò più oltre le accuse di Gemma Corradi Fiumara e la questione di fondo da lei sollevata. Ma già  dal poco fin qui considerato, anche sul maschilismo kantiano si può eccepire, almeno secondo il paradigma che di esso emerge ad es. dagli scritti di M. T. Winter. Ella noterebbe subito che aver citato la moglie di Socrate in riferimento al marito, quando Kant non poteva non sapere che si chiamava Santippe, ò un peccato di maschilismo imperdonabile. In questa critica c’ ò del vero; perchè va concesso che, se Kant avesse semplicemente scritto Santippe, non tutti i suoi lettori avrebbero capito di chi si trattava; ma scrivere Santippe, moglie di Socrate, cosa costava? D’ altra parte queste tre donne maltrattate nel modo della citazione (ma tutte e tre, o solo due? ), Kant le loda. Non solo, ma le loda pure riconoscendo loro una virtù maschile che non ne guasta la femminilità . Io mi domando se da un punto di vista femminista si possa chiedere di più ad una lode maschile. Se anche un tal genere di lode ò maschilismo, mi domando se esso sia oggetto di un giudizio analitico a posteriori, o se sia una categoria sintetica a priori che Kant cercò dolosamente di occultare. Del resto, considerando la battuta attribuita alla signora anonima, e che Kant riporta, va riconosciuto che la devianza maschilista avrebbe approfittato dell’anonimato per invertire i ruoli; oppure non avrebbe ad es. dato visibilità  alla contessa Keyserling, e Madame de Sèvignè; avrebbe evitato di mettere Pascal al livello di Madame Bourignon; infine men che meno, avrebbe riconosciuto a madame Dacier e alla marchesa di Chastelet il conferimento del titolo di barbute honoris causa. A madame Dacier e alla marchesa di Chastelet, ribatterebbe la Winter, si allude però come a due virago. E Kant nella circostanza teorizza pure: “Il faticoso apprendere o il penoso almanaccare, per quanto una donna possa riuscirvi, distruggono i pregi che sono propri al suo sesso e per quanto, a cagione della loro singolarità , possano ridurla a oggetto di una fredda ammirazione, pure indeboliranno le attrattive mediante le quali le donne esercitano il loro grande potere sull’altro sesso” (p. 317). ¿Non vi ò in questa posizione di Kant una precomprensione del ruolo come funzione di genere? Non vi ò una volontà  di emarginare la donna dalla sfera del pubblico, o almeno un pregiudizio sessista? Apparentemente le prove contro l’imputato sono schiaccianti. Occorre dunque fare qualche osservazione. La prima ò che Kant non disponeva del riscontro della statistica: madame Dacier e la marchesa di Chastelet sono chiaramente presentate come eccezioni singolari, per cui la reazione collettiva (anche femminile) a tale eccezionalità  non può non averlo influenzato. E per quanto riguarda la questione del ruolo pubblico-politico, erano tempi in cui anche ai maschi non era concesso molto: tanto ò vero che quando Kant capisce che nelle questioni internazionali l’apporto del filosofo potrebbe essere importante, parla di un articolo segreto. Protagonista della politica ò solo il sovrano, uomo o donna che sia. In oltre egli non dà  un giudizio sulla femminilità  assoluta di queste signore, perchè Kant non centra l’attenzione su di essa, ma sulle occupazioni per il tempo maschili di queste due donne. Ora egli nota che esse se la cavano assai bene in tali sfide: potrebbero benissimo avere la barba va inteso appunto nel senso che non manca loro nulla per discutere con gli uomini da pari a pari. Dunque vi ò in primo luogo un riconoscimento di parità . Secondariamente il contesto va esaminato meglio. E allora scopriamo che come in generale non nega alla donna la caratteristica della sublimità , ma semplicemente richiama alla femminilità  il diritto di sussumerla sotto la categoria del bello, nè malvede nella donna la presenza di virtù eminentemente maschili come il coraggio; allo stesso modo distingue l’intelligenza secondo due tipologie: l’intelligenza bella e l’intelligenza profonda. E ciò che richiede ò semplicemente che il pensiero femminile non perda la nota di intelligenza bella nell’acquisire quella di intelligenza profonda (ù pp. 316-317). Ora in questa esigenza a me pare di scorgere un rispetto grande e un’intuizione profonda della femminilità . E quando Chiara Zamboni manifesta l’esigenza e l’attesa di un pensiero che sia espressione di parole illuminanti per la propria vita, a me pare che ripeta l’idea kantiana, semplicemente in termini diversi. La simbologia della luce ò un equivalente della simbologia del bello, per cui rimproverando al pensiero di altre donne di non essere illuminante, non fa che ripetere la critica di Kant. E infatti il suo errore, semmai, ò di superficialità , nel momento in cui teorizza che sia l’oggetto del pensiero (ad esempio la geometria o la metafisica) a determinarne le note. Qui forse risente ancora di un certo impianto scolastico, secondo cui ò l’oggetto che qualifica la scienza. Viceversa, se avesse esaminato la cosa con più attenzione, si sarebbe accorto – come ad esempio la Militello – che quando Michelangelo scrive una poesia non perde profondità  di intelletto, solo perchè rinchiude l’espressione nell’armonia poetica. E allora perchè escludere che il pensiero femminile possa acquisire anche la nota della profondità , senza perdere la forza di illuminare? Tuttavia non si può dire che la donna ignorante rappresenti l’ideale kantiano, sebbene Kant aborra dal fornire alla donna un’erudizione fredda e speculativa: per lui la didattica delle giovani deve sempre far leva sulle sensazioni e sui sentimenti. E, tenuto conto che la grande scienza femminile ò la scienza dell’uomo, ecco il piano di dettaglio: “Si cercherà  di estendere tutto il loro senso morale, non la loro memoria; e non per mezzo di regole generali, bensì mediante singolari giudizi sul comportamento che esse vedono attorno a sè”. Dunque una pedagogia induttiva e non deduttiva, che parte dal particolare e non dal generale. Se si considerano i tempi, non ò poco. E ancor di più se si considera l’alto valore in cui Kant teneva i principi. Ma sembra quasi che qui ci voglia dire che all’intuizione femminile basta poco per coglierli, purchè si presenti in modo adeguato materia di riflettere. [10] Ancora, si dovranno mostrare “gli esempi che si mutuano da altri tempi, per dimostrare l’influenza che il bel sesso ha sempre avuta sulle faccende di questo mondo; i differenti contegni che esso ha tenuto in altre epoche, o tiene in terre straniere, nel regolarsi di fronte agli uomini”. Dunque le giovani vanno istruite sul campionario più vasto possibile di tecniche che ne aumentino il potere nei confronti del genere maschile, in modo che possano scegliere le strategie migliori, o affinare qualcuna delle passate, adattandola alla novità  delle circostanze. E se si considera che, fra i costumi presenti in terre straniere, Kant certamente immaginava anche di illustrare quelli dei pellerossa canadesi, si capisce quanto antipatriarcale fosse il suo punto di vista. Non mi sento di dare un giudizio su questo dettagliato programma educativo. Aggiungo che mi meraviglierebbe molto se oggi, anche grazie al contributo di psicologhe e pedagogiste, non fossimo in grado di migliorarlo, adattandolo ai tempi mutati. Dico però che Kant ò mosso da un’intuizione che mi pare tanto sicura quanto geniale, e che ò un errore non considerarla con la massima attenzione: “una tale istruzione ò fin troppo rara, perchè essa richiede attitudini, esperienza e un cuore colmo di sentimento” (p. 318). Si può dargli torto? Abbiamo così un modellino di Kant come di un signore arguto, acuto, sereno, equanime nel giudizio verso altrui, ed in particolare benevolo e disponibile verso il bel sesso, sebbene in parte superficiale nella questione degli studi, oltre che geniale e, forse, profetico; e che solo invecchiando diventa un po’ misantropo. Ma era proprio così? Il modellino va ancora ridimensionato: ad esempio, parlando dei negri, riprende in modo acritico la teoria di Hume, secondo il quale dire negro e dire corto d’ ingegno ò la stessa cosa. Oggi un tale razzismo lo percepiamo come una caduta di gusto che, proprio in un trattato sul bello e sul sublime… Ma, per quanto concerne l’atteggiamento benevolo verso il mondo femminile, le conferme non mancano. Ad es. depreca la condizione femminile presso i popoli africani, dove ò prossima alla schiavitù; e nei paesi in cui l’harem ò un costume celebrato, e si riduce la donna a quel gioiello il cui unico valore ò nel poterlo rompere. Viceversa ha parole di stima e di lode per i pellirosse del Canada, dove le donne sono tenute in così alta considerazione, che esse hanno proprie assemblee dove discutono le questioni della tribù; e dove, una volta raggiunta una posizione comune, viene incaricata una delegazione di portare il punto di vista femminile nell’assemblea degli uomini: cosa – nota Kant – per nulla formale se, come accade, assai spesso tale determinazione sarà  anche quella finale dell’assemblea plenaria. E questo conferma la tesi prima sostenuta, secondo cui Kant non ha pregiudizi di ruolo nei confronti della donna (altrimenti avrebbe biasimato questi popoli, anzichè lodarli, e meno che meno avrebbe immaginato di inserirne la conoscenza nel programma educativo delle giovani); semplicemente non esercita la sua immaginazione oltre quel passo che in Europa vede possibile. Del resto abbiamo la prova del nove quando parla delle donne francesi. Riconosce infatti che esse danno il tono a tutte le compagnie e a tutte le conversazioni, a tal segno da poterne trovar traccia linguistica nei modi di dire e di fare: se di solito facendo visita a qualcuno si chiede: il signore ò in casa? in Francia non più. Ora la domanda ò: la signora ò in casa? Vi ò dunque un ginocentrismo oggettivo. Ma, nota Kant, ad esso corrisponde un reale incremento di rispetto? E suo malgrado risponde sulla negativa. Questo perchè una società  frivola, per quanto ginocentrica sia, ò una società  fallita. Nel 1764 la rivoluzione francese non era ancora imminente, ma i segni della patologia erano già  chiarissimi. Non solo, ma chiosa: “Siccome nulla manca ai francesi in fatto di nobili qualità , tranne che queste possono essere animate solo mediante il senso del bello, potrebbe qui il bel sesso avere una potente influenza per incitare gli uomini alle azioni più nobili, e per stimolarli come nessun altro al mondo potrebbe, solo che si pensasse a favorire un poco questa tendenza nello spirito nazionale. E’ un peccato che i gigli non diano filo” (p. 335). L’allusione a Mt 6, 28 ò trasparente. Un ulteriore riscontro, che mi pare importante, di un’apertura al femminile in Kant, ò l’abbozzo di una filosofia dell’accoglienza, che troviamo nelle annotazioni Per la pace perpetua, laddove tratta dello straniero. Qui tratteggia una teoria dell’ospitalità  connessa al cosmopolitismo, ma anche a disciplina di esso, i cui punti essenziali sono: a) essere ospitati non ò un diritto; b) ne segue che a fortiori l’invadenza colonialistica ò da condannarsi come abuso e come iniquità ; c) ma ò da condannarsi anche l’ inospitalità  che arriva a fare schiavi i naufraghi, solo perchè stranieri; d) sembra perciò equilibrato riconoscere come diritto naturale il diritto di visita, che non implica una possibilità  di permanenza a tempo indeterminato di uno straniero su territorio altrui (salvo che questa sia graziosamente concessa); ma piuttosto una sorta di diritto turistico di transito, o anche di permanenza temporanea a fini commerciali. Sono posizioni interessanti in relazione alla questione femminile, non fosse che per la spiccata sensibilità  della donna al delitto di invadenza; ma non meno, perchè Kant con le sue tesi per un verso contesta la prassi politica del tempo e le peregrine giustificazioni che la imbellettavano; per un altro anticipa alcune linee di tendenza del pensiero etico e giuridico che si imporranno progressivamente, e che tutt’ oggi o sono all’origine di importanti accordi e politiche internazionali; o comunque sono all’attenzione perchè focalizzano problematiche non adeguatamente risolte. Un altro saggio di pensiero al femminile si ritrova nella Metafisica dei costumi (§ 52). La domanda che qui si pone, all’ interno della discussione sul diritto dello Stato, ò se la rivoluzione sia legittima o no. Dato che lo scritto ò del 1797, le allusioni alla rivoluzione dell’ 89 e all’ espansionismo napoleonico sono indubitabili. Ebbene Kant argomenta che gli adattamenti dei sistemi di governo all’ ideale repubblicano non debbono avvenire d’ un botto, ma per modificazioni insensibili e continuate. Questo perchè sconvolgimenti repentini, pur se astrattamente giusti, non sono nè possono essere durevoli. Infatti le buone costituzioni non sono l’ effetto del cieco caso, nè di improvvisate geniali; ma di processi storici complessi e lenti, concretamente legati e dipendenti dal livello della coscienza politica collettiva. E’ una posizione di una modernità  impressionante, se letta alla luce della teoria delle catastrofi di Thom. Interessa osservare che la gradualità  non ò uno dei valori strutturanti della cultura maschile o patriarcale. Le guerre non sono atti graduali, sono macrocatastrofi. L’ invenzione della dinamo, dell’ alternatore o del motore a scoppio, cambiano repentinamente la faccia della terra, con accelerazioni inimmaginate. Invece la gradualità  ò per la donna una categoria esistenziale: il suo pensarsi madre la richiede in modo fortissimo, molto di più di quanto all’ uomo il pensarsi padre. Ne segue che se nell’ argomentare critico Kant ò assai poco femminile, in pedagogia e in politica lo ò invece ben più di quanto ci si aspetterebbe. Se con l’espressione maschilismo si intendesse poi la devalorizzazione sistematica ed ideologica del bel sesso, l’analisi più dettagliata che seguirà , delle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, e dell’Antropologia pragmatica, credo saranno più che convincenti per escludere anche questo tipo di atteggiamento. Possiamo dunque accreditare Kant di un approccio psicologico e culturale sereno nei confronti di un tema che come vedremo gli sta molto a cuore, e io credo assai più di quanto fino ad oggi sia stato sottolineato. Possiamo così passare all’esame dei testi, avendo sgombrato il campo almeno da una parte non indifferente di questioni previe. Secondo momento: cosa dice Kant del femminile Nella presente sezione procederò in questo modo: 1. esposizione della dottrina delle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime. 2. esposizione dei riferimenti sparsi nell’Antropologia pragmatica, dopo un breve cenno alla Metafisica dei costumi. 3. Analisi delle variazioni e abbozzo di uno schema interpretativo. La dottrina delle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime Come accennato, l’esposizione seguirà  un metodo cronologico, e la prima opera, del 1764, sono le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime. Per inquadrare il testo almeno dal punto di vista della critica interna, vanno premesse due cose. La prima ò che Kant esclude positivamente di parlare dei picchi che il gusto può conoscere in persone di sensibilità  straordinaria; egli si pone cioò in un orizzonte antropologico di normalità , e questo ò importantissimo dal nostro punto di vista, perchè significa che le sue considerazioni sulla donna o sui rapporti intergenerici intendono avere valenza universale. La seconda ò che l’ uomo non conosce solo sentimenti estetici appaganti, ma anche di paura, di terrore ecc. Da qui la domanda: che valore hanno questi sentimenti, di cui faremmo così volentieri senza? Kant risponde attraverso una nota digressiva abbastanza ampia, citando un recente esempio letterario: il Sogno di Carazan. E’ questi un uomo pseudopio, che in sogno fa esperienza del giudizio finale e si conosce condannato all’ orrore della solitudine infernale. E qui, in questa esperienza orribile, Carazan comprende e si sveglia. Ma adesso tutto gli parla, e in primo luogo apprezza quegli uomini che precedentemente non lo attraevano, quando non l’ infastidivano. Adesso tutto ò gradevole, bello, interessante. Dunque questo ò il ruolo dei sentimenti negativi: quello di svegliarci, consentendoci di gustare con la dovuta attenzione e gratitudine ciò che ò bello e che ò sublime, perchè non sono esperienze dovute, ma che potrebbero anche non esserci date. Detto questo, abbiamo subito una domanda previa: come dobbiamo leggere il testo, rispetto alla ricerca che stiamo conducendo? In altri termini: in che rapporti sta questa tematica rispetto alla femminilità ? Kant stesso ci risponde all’inizio del cap. III, osservando che tanto il bello quanto il sublime non sono un’esclusività  di genere; tuttavia, ci si aspetta che tutte le doti maschili siano unificate nella figura del sublime, e quelle femminili secondo la categoria del bello. Perciò il sublime “ò contrassegno del sesso maschile” (p. 315) e, per antonimia, il bello di quello femminile. Da questo non si può evidentemente concludere che ogni manifestazione del sublime sia una androfania: per Kant il cielo stellato ò sublime, ma resta difficile pensarlo come maschile; o inversamente pensare come femminile una giornata radiosa, solo perchè ò bella. Tuttavia se ci chiediamo quale sia l’orizzonte di questo saggio, dobbiamo riconoscere che esso ò eminentemente antropologico, come si vede assai bene dalla struttura dei quattro capitoli. E il cielo stellato non ò sublime per il gatto, ma per l’uomo che lo guarda. Ed ò sublime perchè in chi guarda si presenta un sentimento specifico e chiaramente identificabile. Ora la natura suscita molti sentimenti: un uragano provoca sgomento, o persino terrore. Ed ò pure vero che tutti i sentimenti, condizionando fortemente le decisioni umane, orientano l’esistenza. Ma ò solo del bello e del sublime, per Kant, una correlazione stretta con il dimorfismo sessuale. In esso c’ò qualcosa che va molto al di là  del meccanismo biologico riproduttivo: e bello e sublime sono le categorie tipiche espressive e denotative di questa trascendenza. Questa annotazione ò importante, perchè ci consente di realizzare che Kant ci parlerà  della femminilità  in due modi: uno esplicito, soprattutto negli ultimi due capitoli, e uno implicito, ogni volta che farà  riferimenti generali al bello. Più precisamente, dovremo tener conto che ciò che egli dice in generale del bello ha una applicazione eminente nella considerazione della femminilità . Per cui i due temi non si possono disgiungere: non si può cogliere correttamente ciò che Kant pensa della femminilità , se non nell’orizzonte della sua estetica. E, inversamente, non si può cogliere a fondo la sua estetica, se non in rapporto al suo pensiero sulla femminilità . Questo apre a conseguenze ermeneutiche molto importanti, perchè la comprensione della femminilità  suppone la dialettica di genere, e da qui la domanda: vi ò un rapporto, in Kant, fra la formulazione generale del suo pensiero e la problematica di genere? A me pare di sì, per cui potrà  essere interessante chiederci se la prospettiva di genere conduca ad una esegesi più feconda del pensiero kantiano. La donna: sue caratteristiche psicologiche e morali Della donna, in modo esplicito e diretto, [11] afferma l’ indole gioviale, il gusto del bello, del pulito, del gioco e dell’ arguto, e non meno dell’ eleganza e dell’ autodominio. [12] Qui Kant sta guardando la donna dall’esterno, coi suoi pregi e i suoi limiti. “…molte delle debolezze femminili sono, per così dire, dei bei difetti. L’ingiuria e la sventura muovono a pietà  la loro anima sensibile” (p. 319). La vanità  ò un bel difetto. Con essa la donna ravviva le proprie attrattive e, sotto questo aspetto, ha un certo grado di necessità . [13] La vanità  onesta non ò offensiva e, se unita al buon gusto, biasimarla sarebbe sgarbato. Il difetto vero, per Kant, comincia quando la vanità  ò immoderata e devia dal suo scopo onesto: così se unita a frivolezza produce sventatezza; se unita all’ambizione smodata mette “discordia fra le donne, le quali si giudicano a vicenda con molta durezza, perchè l’una sembra oscurare le attrattive dell’altra; in realtà  quelle che accampano forti pretese di conquista, di rado sanno essere amiche fra loro nel senso vero della parola” (p. 320. Noto che la sintonia fra il pensiero di Kant e di S. Tommaso, qui ò notevole). “L’oggetto della grande scienza femminile ò piuttosto l’uomo, e, fra gli uomini, un uomo. La filosofia delle donne non consiste nel ragionare, ma nel sentire. Quando si voglia dar loro occasione di perfezionare la loro bella natura, bisognerà  sempre aver dinanzi agli occhi questo fatto” (p. 318). Dunque la donna ò accreditata di una grande scienza, quasi ad insinuare in lei la capacità  di rivelare l’uomo a se stesso. E’ una nota che troveremo ribadita in Ortega y Gasset. Stiamo già  passando ad una considerazione più intima dell’animo femminile. La “pulizia rientra nel sesso bello, fra le virtù di primo piano, e non sarà  mai praticata eccessivamente dalle donne […]. Il pudore serve anche a tirare un velo misterioso persino davanti agli scopi convenienti e indispensabili della natura, perchè una troppo comune familiarità  con essi non cagioni nausea o almeno indifferenza rispetto all’intenzione ultima di un istinto a cui convergono le più sottili e vivaci inclinazioni della natura. Questa qualità  ò assai propria al bel sesso, e ad esso specialmente si addice. ” (p. 321). Della pulizia Kant aveva già  parlato in precedenza. Questa ripetizione, subito accostata al tema del pudore, potrebbe rimandare pudicamente alla cura della pulizia dei sentimenti, cura tipica della delicatezza d’ animo della donna. L’ etica femminile ò un’ etica del bello e non del doveroso; [14] l’autocostrizione ò rara nella donna, come la disciplina della lingua. Kant constata senza giudizio, anzi, quasi difendendo la comunicazione nel suo valore, sebbene fra le righe traspaia la sua stima per la riservatezza. “Le nobili qualità  del sesso femminile, […] non si manifestano mai in modo così chiaro e sicuro che per mezzo della modestia: una specie assai meritevole di nobile semplicità  e ingenuità . Da essa traspare un pacato affetto, un rispetto per gli altri, collegato ad una dignitosa fiducia in se stessi, a quella giusta considerazione di sè che sempre ha da trovarsi in un nobile carattere. […] una tale fine combinazione [di modestia e fiducia in se stessi] conquista con le attrattive, e col rispetto soggioga […]. Persone dotate di un simile temperamento hanno anche un cuore propenso all’amicizia; il che in una donna non sarà  mai apprezzato abbastanza, perchè ò così raro e al tempo stesso attraente oltre misura” (p. 322). E qui si svela – io credo – il cuore dell’uomo; e, forse, il significato recondito del suo celibato. [15] Ma qui abbiamo anche la chiave per capire in che senso la vanità  femminile sia un vizio. Infatti se il maggior potere di attrarre ò quello dell’anima, quando la donna cura più il corpo dello spirito viene meno alla perfezione della sua femminilità . E, non di rado, la stravolge. Kant ritorna poco dopo sul tema, che evidentemente gli preme: il giudizio di gusto può essere esercitato in modo rozzo, oppure in modo più fine. Il primo modo ò più attento a ciò che ò materiale; il secondo a ciò che ò spirituale. Per questo giudicare la donna con finezza ò essere attenti a ciò che in lei ò spirituale, o che non lo ò. “Riguardo alle avvenenze del secondo tipo, una donna viene detta leggiadra”. La regolarità  e armonia delle fattezze esterne piacciono allo stesso modo in un mazzo di fiori, ma meritano un freddo plauso. Per cui la donna leggiadra ò affascinante e attrae; mentre una interiormente bella commuove: [16] e solo lei ò capace di suscitare una sensazione costante di gentilezza e di rispetto. E questo ò un punto da tenere in gran nota, perchè il problema della stabilità  del sentimento ò al cuore di tutta l’etica kantiana. Non solo: Kant mette pure in rilievo che vi sono donne così consapevoli dell’importanza di conformarsi ad una bellezza sublime, che giungono a tenere in gran conto un certo pallore sano del volto, quasi che esso, più che il colorito roseo, si confaccia ad un’alta bellezza morale. Qui mi pare che sia lui che quelle dame paghino un consistente tributo agli stereotipi del tempo. Però resta un indicatore sociologicamente significativo dell’attenzione non solo di Kant per questa problematica. La donna: sua missione Per Kant ò del tutto evidente che il significato della donna si ha solo nell’opposizione antonimica con l’uomo. Tuttavia si tratta di una opposizione sui generis, in quanto in questo caso la natura ha creato una diversità  solo a motivo di una mutua attrazione e collaborazione. Di ciò ò evidente segno non solo e non tanto la mera attività  procreatrice, ma l’esperienza storica di quel connubio singolare che ò la famiglia. E qui ò molto interessante che per Kant la missione femminile non si esaurisca affatto nella famiglia, mentre la famiglia resta una forma eminente, un luogo tipico del ministero femminile. Occorre dunque fermarsi su questo punto, onde meglio apprezzare il senso complessivo del pensiero kantiano. “Nella vita coniugale la coppia deve costituire quasi una sola persona spirituale, che viene animata e governata dalla intelligenza dell’uomo e dal gusto della donna” (p. 329). [17] Di nuovo, qui ò tutto Kant. Una battuta lapidaria, ma di una profondità  da vertigine. Intanto la comunione ò un fatto spirituale, che si pone come trascendente rispetto ai sottosistemi costituenti. In quanto tale il suo orizzonte ò l’eternità  del vincolo. Poi questo nuovo sistema ha un governo unificato; ma, sorprendentemente, usciamo dai canoni patriarcali e dagli stereotipi del pater familias, perchè scompare la figura del marito come capo, mentre compaiono due binari che tracciano le direttrici di governo: l’intelligenza dell’uomo e, sullo stesso piano, il gusto della donna. [18] Se raffrontiamo il modello kantiano con Ef 5, 22-33; o con 1Pt 3, 1-7; [19] ci accorgiamo facilmente che per un verso vi ò una enorme affinità ; ma per un altro il messaggio ò formulato nei due casi secondo schemi culturali diversi. E’ vero che i passi neotestamentari, che parlano delle reciproche relazioni fra marito e moglie, insistono sul dovere del marito di amare la moglie: il che evidentemente deve avere qualche diversità  dallo spadroneggiare. Ma se prendiamo Col 3, 18+ il marito ò incontestabilmente l’auctoritas, tanto nei confronti della moglie che dei figli. In Kant compare una doppia autorità : anche la moglie ò autorevole, perchè il suo sentire ò più fine di quello maschile, per cui non ò solo la donna che ha motivo di imparare dall’uomo, ma anche l’uomo dalla donna. Come abbiamo visto, la donna ò depositaria di una grande scienza, e l’uomo farebbe malissimo a non giovarsene, perchè ne seguirebbe uno squilibrio grave nel governo familiare. ¿E se vi fosse contrasto fra intelligenza maschile e gusto femminile? Perchè poi il problema ò tutto qui. E, magari, su questioni per nulla banali, quali l’educazione dei figli. Kant ò drastico: il contrasto delle preferenze ò insulso, “e quando accade, costituisce l’indizio più certo di gusti grossolani, ovvero accoppiati in modo ineguale. Se si arriva fino al punto di contendere sulla supremazia, la cosa ò giunta alla sua estrema rovina; perchè là  dove l’intero legame si fonda sull’inclinazione, esso ò già  per metà  rotto, non appena comincia a farsi sentire il dovere” (p. 329). Qui abbiamo due elementi teoretici: 1. la comunione suppone gusto fine; 2. il legame non si fonda sul dovere o sulla legge, ma sull’inclinazione. Il secondo punto non viene approfondito: ò un’ intuizione geniale, ma resta l’anello debole della costruzione. [20] La mia impressione ò che nel pensiero kantiano finisca per prevalere l’idea, del resto già  presente in questo scritto, che non si ha vera condotta morale sulla base della semplice inclinazione: questo sarebbe l’atteggiamento di Alceste, che Kant ritiene immaturo. Tuttavia ò vero che nell’innamoramento l’ inclinazione prevale di gran lunga su ogni altra forza unitiva: e dunque questa tesi non ò poi così peregrina, per quanto possa restare l’esigenza di articolarla in modo soddisfacente anche rispetto al polo morale. E qui apro una finestra: la vita spirituale ha due poli: quello estetico e quello morale. Sopprimendo uno dei due le cose nè funzionano nè possono funzionare. Ma il problema di una loro mutua articolazione ò ancora aperto. Sul primo punto, invece Kant si diffonde abbastanza. In primo luogo egli nota che il fascino di una donna dalla bellezza sublime, ossia quello che promana da una intensa vita spirituale, non agisce nello stesso modo sui vari tipi di uomini. Infatti mentre tutti giudicano allo stesso modo la bellezza fisica nella sua oggettività , quelli di gusto rozzo provano freddezza e repulsione dal sublime spirituale, e solo quelli di gusto fine ne vengono attratti (ù p. 325). In questo modo si ha una sorta di selezione naturale, che tende a dar vita a vincoli fra persone dalla finezza di gusto non troppo dissimile. Ora un uomo di gusto fine ò magnanimo, e riterrà  suo dovere assumere il punto di vista della compagna. Inversamente una donna modesta ò abnegata, e dunque incline e desiderosa di valorizzare il punto di vista del marito. Ne segue che il doppio binario kantiano suppone in modo intrinseco il dinamismo dell’ascesi kenotica, ossia dell’ amore (ù p. 329). Questo gusto fine ha poi un rapporto profondo col pudore, ossia con un certo nascondersi e svelarsi poco a poco. Le “attrattive spirituali avvincono di più a misura che diventano visibili, perchè esse solo in occasione di sensazioni morali si rendono operanti e, per così dire, si fanno scoprire, ogni scoperta di una nuova attrattiva lasciandone supporre ancora delle altre: laddove tutte le avvenenze che non si tengono per nulla celate, dopo che, fin dall’inizio, hanno compiuto l’intera opera loro, null’altro possono fare in seguito, se non raffreddare l’amorosa curiosità  e a poco a poco la fanno scadere fino alla indifferenza” (p. 325). Dunque la colla del vincolo ò una vita spirituale così ricca che generi continuamente orizzonti di bellezze inesplorate: in questo modo la reciproca inclinazione non potrà  mai cadere, e l’innamoramento resta la forma normale della vita comune. Ma, quando l’amore arriva a questi livelli, succede che gli amanti si modificano reciprocamente. O meglio succede che l’amore produce delle modificazioni profonde, dato che ciascuno tende ad integrare nella propria personalità  e nei propri giudizi tutto quel mondo di valori e di bellezza che scopre nel coniuge. Si ha cioò una sinergia, un effetto migliorativo reciproco, ed ò precisamente qui che si svela la missione di genere. E, in particolare, emerge la missione della donna. Infatti, ¿cosa succederebbe se invece di profondere sforzi spesso vani nell’educazione maschile, si educassero le fanciulle ad alti sentimenti morali? Succederebbe la “cosa più importante: che l’uomo divenga più perfetto come uomo e la donna come donna” (p. 329). [21] E questo inevitabilmente, perchè se lo standard femminile si alza, ai maschi non resta che delle due una: o adeguarsi, o rinunciare all’accoglienza muliebre. E statisticamente l’effetto traino sarebbe certo. In questa concezione riecheggia evidentemente l’ esperienza del preziosismo; o anche il pensiero di Rousseau: nell’ allocuzione alla Repubblica di Ginevra, che apre il Discorso sull’origine e sui fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini, egli si riferisce alla ginosfera come ad una preziosa metà  del genere umano, che rende felice l’altra metà , e la cui saggezza e dolcezza permettono il mantenimento della pace e dei buoni costumi. Una ulteriore annotazione concerne il fatto che Kant nell’identificare la missione della donna si limita – e intende limitarsi – a leggere e ad illustrare il progetto della natura, che qualche volta chiama esplicitamente Provvidenza. Allora sulla sua religiosità  si potrà  discutere: sulla sua onestà  intellettuale molto meno. E a me pare che egli si ponga nella stessa linea del Visconte di Verulamio: la natura va conosciuta per essere obbedita. E’ in questo la grandezza umana. Tutto l’uomo può, ma all’interno di leggi prestabilite. Viceversa l’ atteggiamento orgoglioso fac et excusa, approda forse ad un dominio effimero, ma ò fuori della linea della vera grandezza. Ebbene, leggendo la natura, Kant rileva che essa dona alla donna bellezza per poi distruggerla. Perchè? Per dar modo ai chirurghi di farsi la villa alle Maldive? No, ma per incentivare la donna alla perfezione della propria femminilità , ossia allo sviluppo di quel sublime spirituale il cui fascino ò inattaccabile dall’erosione del tempo. In altri termini la vecchiaia ò il richiamo potente all’esercizio della femminilità  nella trascendenza dell’eterno. Vi ò infatti una dialettica: di fronte alla vecchiaia l’istinto femminile sente che non può morire, sente che deve esserci una via per vincere. E questa via ò la via dello spirito. La donna ha la missione di essere eternamente bella, eternamente affascinante. Dunque la femminilità  ò una categoria metafisica, perchè una tale sublime missione richiede una condizione di possibilità . Simone Weil scriveva che a Dio si può giungere per due vie: quella della bellezza e quella del dolore. Nella vecchiaia la donna ha la possibilità  di unificare l’una e l’altra, e di accedere ad una bellezza che ò propriamente ierofanica. La dottrina della Metafisica dei costumi In questo testo del 1797 troviamo, come detto, un intero capitolo dedicato al diritto di famiglia. [22] Nel coniugio, l’ uso che uno fa della sessualità  altrui “ò un godimento, per il quale una delle due parti si abbandona all’ altra. In questo atto l’ uomo riduce se stesso ad una cosa, il che ò contrario al diritto dell’ umanità  che risiede nella sua propria persona. Questo diritto non ò possibile che ad una sola condizione, cioò che, mentre una delle due persone ò acquistata dall’ altra, proprio come una cosa, questa alla sua volta acquisti reciprocamente l’ altra; così essa ritrova di nuovo se stessa, e ristabilisce la sua personalità â€. In questa prima parte del § 25, Kant fa due osservazioni: una ò che in quest’ uso reciproco degli organi sessuali, realmente ciascuno diviene un oggetto di consumo: e questo non solo per la materialità  dell’ atto; non solo per il piacere; ma per quell’ aggettivo mio, mia, che ò un dato antropologico innegabile. L’ esperienza dell’ appartenenza ricordiamoci che ò tanto desiderabile che onerosa in entrambi i versi: sia attivo che passivo. Nell’ appartenere alla donna l’ uomo sperimenta la sicurezza della cura, che non ò meno importante del possesso di un corpo. E reciprocamente per la donna. Ora come sarebbe possibile appartenere, se non per un atto di espropriazione? E cos’ ò l’ espropriazione se non reificazione? Per cui Kant ha ragioni da vendere, checchè ne pensino coloro cui piace tantissimo sentirsi dire mia ciccina o mio topastro, ma solo da labbra ipocrite. La seconda osservazione ò che la figura giuridica dell’ uomo reificato ò lo schiavo. Ora delle due una: o si reintroduce il diritto di schiavitù; oppure occorre evidenziare perchè in questa nuova figura non si ripresenti l’ antica. Ebbene, se nel complesso la dottrina che propone non sembra soddisfacente, nel caso del coniugio l’ argomento ò interessante: mentre la schiavitù ò una relazione asimmetrica, il coniugio non ò tale, in quanto non vi ò un inespropriato e un’ espropriata; bensì due possessori e due posseduti. Nell’ essere posseduto creo l’ altro possessore, e poichè entrambi i coniugi si fanno possedere, ciascuno riceve uno schiavo e restituisce a se stesso un essere libero: reintegra l’ altro nella sua dignità  e libertà , proprio nel conferirgli un diritto su di sò. E infatti lo schiavo ò lo stabilmente senza diritto, non l’ accidentalmente tale. Non ò finita: “l’acquisto di un membro dell’uomo ò nello stesso tempo acquisto di tutta la sua persona, perchè la persona ò un’ unità  assoluta; in conseguenza, l’ abbandono e l’ accettazione di un sesso al godimento dell’ altro” non ò possibile che sotto la condizione del matrimonio. Il che ò evidente

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