Le intuizioni empiriche di per sò non costituiscono ancora autentiche conoscenze. Esse constano infatti di una molteplicità di dati empirici cui manca quella connessione e quell’ unità che li costituisce in un oggetto di conoscenza. La facoltà che compie questa ulteriore operazione di unificazione, pensando agli oggetti che nella sensibilità erano semplicemente intuiti, ò l’ intelletto, il quale opera non più mediante intuizioni (rappresentazioni immediate), bensì attraverso concetti (rappresentazioni discorsive). Il concetto esprime infatti una “funzione”, cioò consiste nell’ ordinare diverse rappresentazioni (che possono a loro volta essere concetti o semplici intuizioni) sotto una rappresentazione comune, conferendo loro unità . L’ atto con cui i concetti dell’ intelletto esplicano la loro forza unificante ò il giudizio: pensare significa quindi sempre giudicare. La prima parte dell’ Analitica trascendentale ha per oggetto le forme a priori dell’ intelletto e prende il nome di Analitica dei concetti. Infatti, la funzione unificante dell’ intelletto ò resa possibile da concetti puri, che costituiscono le forme a priori necessarie di qualsiasi giudizio. In altri termini, essi sono le regole mediante le quali l’ intelletto giudica, unificando le rappresentazioni: soltanto mediante i concetti puri ò quindi possibile pensare un oggetto qualsiasi, riconducendo ad unità il molteplice delle delle intuizioni date dall’ esperienza. Kant chiama tali concetti categorie, in quanto essi definiscono i modi universali del pensare (ovvero del giudicare), così come le categorie aristoteliche definivano i modi universali dell’ essere. Il loro numero e il loro carattere sono determinati in stretta analogia con il numero e il carattere dei tipi possibili di giudizio. Dalla tavola dei giudizi (compilata in base alle regole della logica tradizionale, di ascendenza aristotelico – scolastica ), Kant deduce quindi la Tavola delle categorie secondo il seguente prospetto: TAVOLA DEI GIUDIZI: 1 ) QUANTITA’: universali, particolari, singolari 2 ) QUALITA’: affermativi, negativi, infiniti 3 ) RELAZIONE: categorici, ipotetici, disgiuntivi 4 ) MODALITA’: problematici, assertori, apodittici TAVOLA DELLE CATEGORIE: 1 ) QUANTITA’: unità , pluralità , particolarità 2 ) QUALITA’: realtà , negazione, limitazione 3 ) RELAZIONE: inerenza e sussistenza ( substantia et accidens ), causalità e dipendenza ( causa ed effetto ), comunanza ( azione reciproca tra agente e paziente ) 4 ) MODALITA’: possibilità -impossibilità , esistenza-inesistenza, necessità -contingenza E’ importante notare che nelle categorie della relazione entrano anche la sostanza e la causa, concetti che erano stati oggetto di una radicale delegittimazione in nome della critica alla metafisica, soprattutto da parte della tradizione empiristica inglese ( Locke, Hume). D’ altra parte questi concetti erano indispensabili alla fisica moderna ( Newton ), seppure su un piano non più metafisico ma metodologico. Ed ò appunto nell’ ambito gnoseologico che Kant realizza il recupero di questi concetti. Anche per lui – come per gli empiristi inglesi – sostanza e causa perdono ogni validità sul piano metafisico, in quanto non sono attributi delle cose in sè (che cadono al di là di ogni possibilità di conoscenza). Essi invece, in quanto concetti puri dell’ intelletto, sono forme a priori che condizionano la possibilità stessa della conoscenza e, nello stesso tempo proiettano su di essa l’ universalità e la necessità che li caratterizza. In altri termini, la validità oggettiva di questi concetti ò data dal fatto che noi non possiamo pensare i fenomeni dell’ esperienza se non in termini di sostanza e di causa, poiche la sostanza e la causa rappresentano strutture necessarie del nostro pensiero intellettuale. L’ esposizione della Tavola delle categorie lascia tuttavia aperto un problema. Come si può dimostrare che i concetti puri, pur essendo forme intellettuali soggettive, danno luogo a conoscenze fornite di validità universale e oggettiva? Sorge, in altri termini, il problema della legittimazione delle categorie e del loro uso; problema che non si poneva nel caso delle intuizioni pure, poichò qui il materiale dell’ intuizione non può darsi se non attraverso le forme a priori dello spazio e del tempo, che vengono legittimate proprio dall’ unicità e necessità del loro uso. Ma, nel caso delle categorie, in primo luogo, è da dimostrare che l’ unificazione da esse operata corrisponde agli oggetti dell’ esperienza; e, in secondo luogo, occorre accertare quale sia l’ uso che si può legittimamente fare di esse, nel caso che siano possibili usi diversi. A questo problema risponde la deduzione trascendentale delle categorie, dove il termine ” deduzione ” è preso da Kant nell’ inconsueta accezione, mutuata dal linguaggio giuridico, di ” giustificazione “. Kant comincia con l’ osservare che, poichò ogni nostro pensiero comporta un’ unificazione delle intuizioni, occorre che esista una ” unità originaria ” che preceda ( non cronologicamente, ma logicamente ) tutti i singoli atti di unificazione. In altri termini occorre individuare nel soggetto conoscente un termine di riferimento unitario a cui vengono rapportate tutte le rappresentazioni, in modo che esse trovino la loro possibilità di unificazione proprio in questa relazione con quell’ unico riferimento. D’ altra parte, poichò l’ unificazione è possibile solo attraverso un atto di spontaneità del pensiero ( in opposizione all’ intuizione che comporta una condizione di passività della sensibilità ), questo unico termine di riferimento può essere solamente un atto del pensiero. All’ unità originaria che sta alla base di ogni unificazione Kant dà quindi il nome di Io penso, esprimendo con tale termine l’ autocoscienza ( o appercezione trascendentale ) del soggetto conoscente che, riferendo a se stesso ogni rappresentazione, ne costituisce il comune elemento unificante. L’ io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; altrimenti verrebbe rappresentato in me qualcosa che non potrebbe essere pensato, il che poi significa che la rappresentazione per me sarebbe impossibile o, almeno per me, non esisterebbe, così dice Kant. Affinchò io possa rappresentarmi qualcosa, occorre che la rappresentazione sia presente nella mia autocoscienza; in caso contrario io non posso rappresentarmi nulla. Ma poichò questo vale per tutte le rappresentazioni, esse vengono unificate proprio dal riferimento necessario a quell’ unica autocoscienza che è l’ Io penso. Inoltre, poichò l’ Io penso, pur essendo un’ autocoscienza individuale, è identico in tutti ( ossia tutti hanno la stessa struttura unificante ), il risultato dell’ unificazione sarà valido universalmente e oggettivamente. Ora, le categorie non sono altro che le articolazioni interne dell’ Io penso, le ” funzioni logiche ” attraverso cui esso opera la sintesi trascendentale. Esse vengono quindi dedotte, cioò giustificate, dal fatto che l’ unificazione del molteplice, e quindi la conoscenza stessa, non può avvenire se non attraverso di esse. Nello stesso tempo viene definito il loro unico uso legittimo: dal momento che la sintesi è possibile solo in presenza di una molteplicità di dati intuitivi da unificare, le categorie debbono essere applicate esclusivamente alle intuizioni empiriche, all’ ambito dell’ esperienza ( uso empirico delle categorie ). In altre parole, come le intuizioni della sensibilità , prive della funzione unificante dei concetti, sono ” cieche “, cioò non conducono alla costruzione di alcuna conoscenza, così i concetti, se non sono riferiti al materiale empirico, sono ” vuoti “, cioò danno luogo a puri giochi intellettuali che non hanno riscontro nel mondo esterno al soggetto. Da operazioni concettuali di questo genere, derivanti dall’ applicazione delle categorie al di fuori delle intuizioni sensibili, scaturiscono gli infiniti erramenti della ragione metafisica ( uso trascendentale delle categorie ). Come si è visto a proposito dell’ Estetica trascendentale, le intuizioni sensibili non sono mai rappresentazioni di cose in sò, ma soltanto di fenomeni. Potendo essere applicate esclusivamente ai dati dell’ intuizione, anche le categorie, se usate correttamente, saranno riferibili solo al mondo fenomenico. Oggetto della conoscenza umana è quindi sempre soltanto il fenomeno. La cosa in sò, non potendo essere nò intuita nò unificata categorialmente, non può essere conosciuta. Lo stesso soggetto pensante conosce se stesso solo come fenomeno, cioò come appare a se stesso nell’ esperienza interna, e quindi nell’ intuizione pura del tempo ( l’ Io penso comporta solo la coscienza trascendentale di sò come soggetto, non la conoscenza di sò come oggetto ). Il non – fenomeno non può essere conosciuto ( il che implicherebbe la combinazione di intuizione sensibile e sintesi categoriale ), ma soltanto pensato come concetto – limite, come possibilità negativa che serve a definire, per contrasto, la possibilità positiva del fenomeno: questo concetto limite assume appunto il nome di noumeno ( ” pensato ” ).
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