Quando Ortega concluse i suoi studi filosofici in Germania, non si entusiasmò per la filosofia tedesca. Anzi, proprio qui sviluppa la consapevolezza di dover uscire dall’idealismo: ” salviamoci nelle cose “, scrive. E questo tornare al concreto della circostanza sembra proprio la peculiarità spagnola di cui manca l’Europa. In un articolo della rivista spagnola “El basilisco”, compare un interessante articolo di Jacinto Sà¡nchez Min~ambres (“Ortega y el nacimiento de la posmodernidad”), secondo il quale “la filosofia orteghiana può essere analizzata come antecedente di detto movimento”, di cui furono introduttori Nietzsche e Heidegger. Come testo di base da cui partire per una trattazione della postmodernità orteghiana, Min~ambres cita “Il tema del nostro tempo” (1923). Vediamo di cosa tratta questo breve ma denso volume. Come già si ò detto nel precedente paragrafo, il nostro filosofo parla insistentemente della necessità della circostanza per l’uomo. Si ò parlato di hic et nunc, di prospettiva. La filosofia orteghiana può essere in effetti definita come una filosofia circostanziale. Nel testo che ci accingiamo a trattare, l’argomento riprende spostando, si potrebbe dire, lo sguardo dall’uomo e la sua vita, alla conoscenza e al suo rapporto con la verità . La domanda di base ò: ” come accostarsi alla verità , che ò una e invariabile, dentro la vitalità umana, che ò per essenza mutevole e varia da individuo a individuo, da razza a razza, da età a età ? Se vogliamo attenerci alla storia (â¦) dobbiamo rinunciare all’idea che la verità si lasci catturare dall’uomo “. A questa domanda Ortega propone tre possibili risposte: le prime due hanno una base storica, sono già state battute dalla storia della filosofia; la terza ò la sua personale risposta e coincide con la sua filosofia, con il suo filosofare. 1) Il relativismo ò la prima risposta che sfocia da questo accostamento tra la verità oggettiva e universale e la soggettività individuale: ò rinuncia alla verità . Ma ciò che il relativismo offre ò in realtà ” più difficile di quel che sembra a prima vista “. Perchè ” se non esiste la verità , il relativismo non può prendere sul serio se stesso. In secondo luogo, la fede nella verità ò un fatto radicale della vita umana: se la amputiamo, questa viene convertita in qualcosa di illusorio e di assurdo “. 2) La seconda via già battuta ò il razionalismo. La ragione cartesiana ò una sorta di soggetto astratto che prescinde dalla mutevole individualità , ma in questo modo si produce un dualismo pericoloso: vita e concreto da una parte e ragione e astratto dall’altra. La ragione, scrive ancora Ortega, ” ci abilita a raggiungere la verità ma (â¦) in cambio non vive, irreale spettro che scorre immutabile attraverso il tempo, estraneo alle vicissitudini che sono sintomi di vitalità “. L’ errore razionalista (così lo definisce, prendendo in causa Socrate), che ha creato secoli di predominio dei sistemi filosofici, ha una ragione psicologica alle sue spalle, che spiega come sia stato possibile una vita tanto lunga e incontrastata. Nella stessa opera che stiamo trattando, Ortega descrive i concetti puri come ” immutabili, perfetti, esatti “. Infatti all’interno di questi logoi, non si trovano princìpi contrari che sporchino l’ideale che tali concetti portano con sè: ” l’uomo virtuoso ò sempre, contemporaneamente, più o meno vizioso; ma la Virtù ò esente dal Vizio “. I concetti puri ” si comportano secondo leggi esatte e invariabili ” e danno perciò all’uomo una certezza, una sicurezza che produce appagamento, a prescindere dalle contraddizioni che caratterizzano la vita: formano un mondo ideale, sostituendosi alla realtà , per cui la vita quotidiana, al loro confronto, ò deficiente, mancante, inesatta e imperfetta. Ma noi viviamo qui: hic et nunc ! Queste due vie, quindi, sono impercorribili. Se ò vero che la ricerca della verità ò un imprescindibile bisogno umano, ò altrettanto vero che tanto un mortifero astrattismo quanto una concreta visione unilaterale, non conducono a nulla. 3) Ciò a cui Ortega aspira ò piuttosto un tutto con le sue parti e questo traguardo si può raggiungere solo attraverso la prospettiva. Nella prefazione alla “Meditazione sul Chisciotte”, scrive: ” quando ci apriremo alla convinzione che l’essere definitivo del mondo non ò materia nè anima, non ò una cosa determinata ma una prospettiva? “. Scartare quelle due vie non significa ricominciare da capo, ma ” invertire la relazione “. Torniamo un attimo alla concezione orteghiana di filosofia. Ortega introduce il ‘concetto’ dell’ amore, che non ò altro che ” un allargamento dell’individualità (â¦) lega cosa a cosa e tutto a noi, in una salda struttura essenziale “: in questo senso la filosofia ò ” scienza generale dell’amore (â¦) impulso verso una connessione globale “. C’ò una differenza sostanziale tra comprendere e sapere. Comprendere ò con-prendere, abbracciare, alla sua base c’ò un sentimento, se si vuole, che conduce il soggetto pensante a calarsi nell’oggetto pensato e a non acconsentire a un dualismo freddo e impenetrante. Tant’ò che Ortega prosegue, sempre nella prefazione di “Meditazioni sul Chisciotte”, dicendo che ” la filosofia ò idealmente il contrario della notizia, dell’erudizione (â¦) tornarvi nella nostra era equivarrebbe a una regressione alla filologia, come se la chimica tornasse all’alchimia o la medicina alla magia “; insomma, ha fatto il suo tempo, bisogna andare oltre. Se la prospettiva deve divenire la cifra per il raggiungimento della verità , ecco che deve cambiare anche l’esposizione della propria idea. Propongo, in tal senso, le parole stesse del nostro filosofo: “Anche i libri di intenzione scientifica cominciano ad esser scritti con uno stile meno didattico e da manualetto; per quanto ò possibile si sopprimono le note a pie’ di pagina e il rigido apparato meccanico della prova viene sciolto in un’elocuzione più organica, vivace, personale. A maggior ragione si dovrà farlo nei saggi di questo tipo, dove le dottrine, pur essendo per l’autore convinzioni scientifiche, non pretendono di essere ricevute dal lettore come verità . Io offro solo ‘modi res considerandi’, possibili nuove maniere di guardare le cose. Invito il lettore a saggiarle da solo; che provi se in effetti procurano visioni feconde; egli, dunque, in virtù della sua intima e leale esperienza, ne proverà la verità o l’errore. Nelle mie intenzioni queste idee hanno un compito meno grave di quello scientifico: non debbono ostinarsi a farsi adottare dagli altri, ma vorrebbero solo ridestare nelle anime sorelle altri pensieri fratelli, fossero pure fratelli nemici “. Da queste parole si evince il compito essenziale della filosofia: permettere ad ogni singolo uomo di orientarsi nella realtà e di trovare la propria verità , vagliare le varie proposte secondo la propria personale esperienza e farle proprie, rielaborarle anche, per adattarle alla propria vita, per la propria vita. Tramite questo procedimento, che richiede ” attenzione riflessiva “, ” meditazione a ciò che si trova vicino alla nostra persona “, l’uomo acquista un’autenticità esperenziale, una consapevolezza di vivere che non si esaurisce nella propria singolarità , anzi: ” l’uomo rende il massimo della sua capacità quando acquista la piena coscienza delle sue circostanze. Attraverso di esse comunica con l’universo “. Tornando ora al concetto introdotto all’inizio di questo paragrafo, si può meglio comprendere la tesi di Min~ambres, che vede Ortega quale precursore del postmodernismo (sarebbe meglio dire ‘della postmodernità ‘, togliendo dal pensiero orteghiano ogni -ismo, che condurrebbe ipso facto ad un’astratta quanto sterile scientificità dogmatica). La postmodernità ò fondamentalmente un superamento del relativismo e del razionalismo. Ortega propone un’altra ragione: la ” ragione vitale “, strettamente connessa alla prospettiva, per cui risulta evidente che vi siano ” infinite prospettive, tutte ugualmente veritiere e autentiche (â¦) ogni individuo ò un punto di vista essenziale. Giustapponendo le visioni parziali di tutti, si riuscirebbe a ottenere la verità totale ed assoluta “. In un articolo (“Ni vitalismo ni racionalismo”) Ortega riassume la sua teoria sulla ragione e spiega in quali circostanze essa scade in razionalismo: ” La ragione, che consiste in mera analisi o definizione, ò in effetti la massima intellezione, perchè scompone l’oggetto nei suoi elementi e pertanto ci permette di vederne l’interno, di penetrarvi e renderlo trasparente. Di conseguenza, la teoria che aspiri ad essere pienamente tale dovrà essere sempre razionale. Ma, contemporaneamente, la ragione si rivela una mera operazione formale di dissezione, un semplice strumento di discesa dal composto ai suoi elementi. Ed esistono composti infiniti -tutte le realtà – che sono pertanto irrazionali. D’altra parte, gli elementi cui si può eventualmente giungere sono ugualmente irrazionali. Di modo che: la ragione ò una piccola zona di chiarezza analitica che si apre tra due strati insondabili di irrazionalità . Il carattere essenzialmente formale e operativo della ragione la conduce inesorabilmente verso un metodo intuitivo, opposto ad essa, ma di cui essa vive. Ragionare ò un puro combinare visioni non ragionabili. Questo ò, a mio giudizio, il ruolo della ragione. Tutto ciò che ò in più, degenera in razionalismo “. Quella “ragione vitale” di cui si ò parlato poco sopra, ò il “logos del Manzanares”. Il Manzanares, piccolo fiume di Madrid, rappresenta l’umile e piccola realtà , la circostanza che deve essere salvata dalla ragione. Questa nuova ragione deve iniziare a prendersi carico anche di quelle cose apparentemente banali e insignificanti che sembrano non essere state finora sufficientemente elevate per essere prese in considerazione. Il razionalismo ò uno sguardo arrogante ed escludente che genera lamenti inascoltati, umiliazione e “rancore”. Questi elementi semplici e umili, apparentemente non adeguati alla ragione, fanno parte integrante della superficie, della terra, dell’ hic su cui viviamo quotidianamente. A tal proposito, Ortega scrive: ” Non sono le grandi cose, i grandi piaceri o le grandi ambizioni, a trattenerci sulla superficie della vita, ma questo momento di benessere accanto al fuoco, d’inverno, questa gradevole sensazione di un bicchiere di liquore bevuto, quel modo in cui calpesta il terreno, nel camminare, una fanciulla gentile che non amiamo nè conosciamo; quella genialità che l’amico geniale ci dice con la sua buona voce abituale. Mi sembra molto umano l’episodio di quel disperato che andò a impiccarsi a un albero e mentre si metteva la corda al collo sentì l’aroma di una rosa ai piedi del tronco e non s’impiccò “.
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- Filosofia - 1900