Versione Tradotta dell’Eneide: Testo originale, Versi 54-89 Libro 4
His dictis
impenso animum flammavit amore
spemque dedit dubiae menti solvitque pudorem.
principio delubra adeunt pacemque per
aras
exquirunt; mactant lectas de more bidentis
legiferae Cereri Phoeboque patrique Lyaeo,
Iunoni ante omnis, cui
vincla iugalia curae.
ipsa tenens dextra pateram pulcherrima Dido
candentis vaccae media inter cornua fundit,
aut
ante ora deum pinguis spatiatur ad aras,
instauratque diem donis, pecudumque reclusis
pectoribus inhians spirantia
consulit exta.
heu, vatum ignarae mentes. quid vota furentem,
quid delubra iuvant? est mollis flamma medullas
interea et tacitum vivit sub pectore vulnus.
uritur infelix Dido totaque vagatur
urbe furens, qualis coniecta cerva
sagitta,
quam procul incautam nemora inter Cresia fixit
pastor agens telis liquitque volatile ferrum
nescius:
illa fuga silvas saltusque peragrat
Dictaeos; haeret lateri letalis harundo.
nunc media Aenean secum per moenia ducit
Sidoniasque ostentat opes urbemque paratam,
incipit effari mediaque in voce resistit;
nunc eadem labente die
convivia quaerit,
Iliacosque iterum demens audire labores
exposcit pendetque iterum narrantis ab ore.
post ubi
digressi, lumenque obscura vicissim
luna premit suadentque cadentia sidera somnos,
sola domo maeret vacua stratisque
relictis
incubat. illum absens absentem auditque videtque,
aut gremio Ascanium genitoris imagine capta
detinet,
infandum si fallere possit amorem.
non coeptae adsurgunt turres, non arma iuventus
exercet portusve aut propugnacula
bello
tuta parant: pendent opera interrupta minaeque
murorum ingentes aequataque machina caelo.
Versione Tradotta dell’Eneide: Testo tradotto, Versi 54-89 Libro 4
Con tali parole infiammò l’animo di intenso
amore
e diede speranza al cuore dubbioso e dissolse il pudore.
Prima visitano i templi ed implorano pace
attorno agli altari; sacrificano pecore scelte di rito
per Cerere legislatrice e per Febo e per il padre Lieo,
per
Giunone fra tutti, cui stanno a cuore i vincoli coniugali.
Lei, la bellissima Didone, tenendola con la destra, versa
la
coppa tra le corna d’una candida vacca,
o presso le statue degli dei si aggira tra carichi altari,
ed inizia il giorno
con doni, e nei petti squarciati
degli animali, ansiosa consulta le viscere palpitanti.
Ahi, mente ignara degli indovini!
A che giovano i voti
ad una folle, a che i templi? La fiamma divora le molli midolla
intanto e tacita vive sotto il petto
la ferita.
Si brucia l’infelice Didone e vaga pazza
per tutta la città, quale cerbiatta colpita da freccia,
che da
lontano un pastore, ignaro, cacciando con armi,
incauta trafisse tra i boschi cretesi e lasciò il
ferro
alato: ella in fuga percorre le selve e le gole
dittee; la punta letale aderisce nel fianco.
Ora conduce Enea
con sé in mezzo alle mura
ed ostenta i beni sidonii e la città pronta,
inizia a dire e si blocca in mezzo alla
frase;
ora tramontando il giorno chiede uguali conviti,
e di nuovo invoca di ascoltare, pazza, i dolori di Ilio
e di
nuovo pende dalla bocca del narratore.
Poi quando, divisi, anche la luna oscurata a sua volta
copre la luce e le stelle
tramontando invitano ai sogni,
sola geme nella vuota reggia e sui tappeti abbandonati
si sdraia. Pur lontana, lui lontano
lo ode e lo vede,
o trattiene Ascanio in grembo, presa dall’immagine
del padre, se mai potesse ingannare l’indicibile
amore.
Le torri iniziate non s’alzano, la gioventù non s’allena
alle armi o non preparano i porti le difese sicure
per
la guerra: pendono le opere interrotte e minacce
ingenti di muri ed una macchina eguagliata al cielo.
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