Nietzsche - Studentville

Nietzsche

Commento dell'opera.

Il Nietzsche di Heidegger – di cui ora viene proposto il compendio – riunisce le ricerche e i corsi universitari di Heidegger su Nietzsche tra il 1936 e il 1946. Già  a partire dal 1930 (ò lo stesso Heidegger ad indicare questa data, nella “Premessa” del suo Nietzsche), Nietzsche era diventato per Heidegger un inelubibile punto di riferimento. Ma dal 1936/37 al 1940 Heidegger tiene lezione quasi esclusivamente su Nietzsche, in un confronto serrato che egli definisce una “Aus-einander-setzung”, e la grafia con i trattini, nel vocabolario heideggeriano, sottolinendo le varie componenti della parola, accentua il significato di un disporsi dell’uno contro l’altro, e quindi di un contendere come in un corpo a corpo. (Il termine ò impiegato per tradurre il concetto di pòlemos in Eraclito). Ecco i titoli dei corsi: Nel semestre invernale 1936/37: “Nietzsche. La volontà  di potenza”. Nell’opera del ’61 il titolo diventa: “La volontà  di potenza come arte”. Nel semestre estivo del 1937: “La posizione metafisica di fondo di Nietzsche”, con il sottotitolo: “L’eterno ritorno dell’uguale”, divenuto l’unico titolo nel Nietzsche del ’61. Nel semestre estivo del 1939 (dopo un intervallo di due anni, causato, nel pieno del suo “corpo a corpo”, da un grave esaurimento nervoso che lo costringe ad interrompere l’attività  didattica): “La dottrina nietzscheana della volontà  di potenza come conoscenza”, divenuta poi: “La volontà  di potenza come conoscenza”. In questo stesso periodo scrive un testo che mostra la connessione tra la dottrina della volontà  di potenza e il pensiero dell’eterno ritorno, che nel Nietzsche si trova all’inizio del secondo tomo con il titolo: “L’eterno ritorno dell’uguale e la volontà  di potenza”. Nel secondo trimestre del 1940: “Nietzsche: il nichilismo europeo”, nel secondo tomo del libro del ’61. Nell’agosto dello stesso anno egli prepara un ulteriore testo intitolato: “La metafisica di Nietzsche, che viene annunciato per il semestre invernale del 1941/42 (in realtà , poi tenne un altro corso) e che fu inserito nel Nietzsche. A questi corsi sono aggiunte alcune trattazioni stese fra il 1940 e il 1946. Il risultato ò la grande opera pubblicata in due tomi nel 1961 dall’editore Neske di Pfullingen. La traduzione italiana ò la versione integrale di tale opera, riunita in un unico volume. La strategia di Heidegger nei confronti di Nietzsche va oltre i confini di una mera interpretazione: non solo infatti la sua lettura del testo nietzscheano ò in funzione del progetto filosofico che va elaborando, ma egli “pensa in parallelo” con Nietzsche, in una continua e serrata interrogazione. Come egli scrive, “rimane comunque decisivo [..] ascoltare Nietzsche stesso, porre le domande con lui, per mezzo di lui e così al tempo stesso contro di lui, ma per l’unica intima cosa comune in questione nella filosofia occidentale”. La “cosa in questione” ò il problema dell’ essere, che, secondo Heidegger, Nietzsche ha in comune con la tradizione della metafisica occidentale. Per Heidegger, Nietzsche ò un pensatore “essenziale”, proprio perchò ha pensato un unico pensiero, quello dell’essere, interpretato come volontà  di potenza ed eterno ritorno dell’uguale. Non ò mia intenzione, in questa sede, soffermarmi sull’interpretazione heideggeriana di Nietzsche (di cui il mio compendio vuole essere un invito e una guida agile alla lettura), ma piuttosto indicare, per grandi linee, il contesto teorico in cui matura tale confronto. Nietzsche occupa una posizione particolare nello sviluppo del pensiero di Heidegger successivo a Essere e tempo, e ne condiziona gli esiti speculativi. In questa fase, la filosofia di Heidegger ò incentrata sul problema della metafisica e della sua storia; a ciò egli ò sollecitato dalle stesse conclusioni della sua opera principale. Nella Lettera sull’umanismo del 1947, egli dice che la “svolta” (Kehre) dall’analitica esistenziale – incentrata sull’esserci, ossia sull’uomo – verso l’analisi del senso dell’essere in generale, non c’ò stata, perchò il linguaggio, ancora sostanzialmente condizionato dall’apparato concettuale della metafisica, l’ha resa impossibile. Ne emergeva la necessità , dunque, di ripensare la storia della metafisica occidentale e individuarne l'”errore” che la caratterizza. Gli scritti che scandiscono questo nuovo itineriario sono, in particolare, L’essenza della verità  del 1930 (pubblicata nel 1943), l’ Introduzione alla metafisica del 1935 (edito nel 1953), Hoelderlin e l’essenza della poesia del 1937, i già  citati lavori su Nietzsche, e, infine, La dottrina di Platone sulla verità  del 1942. Va chiarito, in primo luogo, che cosa intende Heidegger per “metafisica”: essa si identifica in quella tradizione di pensiero che pone il problema dell’essere dell’ente, andando oltre (metà ) l’ente stesso, in una dimensione trascendente, ma che tuttavia lo risolve in modo errato, poichò riconduce l’essere sullo stesso piano dell’ente, concependolo come semplice-presenza (Vorhandenheit) – secondo la terminologia di Essere e tempo. Ciò avviene sia pensando l’essere come il carattere comune di tutti gli enti, il più astratto e indeterminato – il che rende possibile il suo rovesciamento nel nulla, come nella Logica di Hegel -; sia come causa e fondamento degli enti – il Dio della teologia aristotelica e cristiana. In ogni caso si oscura la “differenza ontologica” che distingue l’essere dall’ente e si giunge a quell’ “oblio dell’essere” (Seinsvergessenheit) che contraddistingue la storia della metafisica occidentale fino a oggi. Ora, questi sviluppi, contenuti implicitamente già  in Essere e tempo (là  dove si descrive la comprensione dell’essere nell’esistenza inautentica) e tematizzati nelle opere immediatamente successive Che cos’ò la metafisica? e L’essenza del fondamento – entrambe del 1929 – trovano tuttavia una più ampia articolazione negli scritti sopracitati degli anni trenta e quaranta. Ed ò appunto in questo periodo che la problematica heideggeriana si confronta con la filosofia di Nietzsche. Ma per comprendere meglio questo punto, occorre seguire più da vicino la ricostruzione che Heidegger compie della storia della metafisica, sottolineando alcune tappe fondamentali. La storia della metafisica si rende comprensibile se si parte dal problema dell’ essenza della verità . Fare la storia della verità , non significa solo ricostruire i diversi significati di una parola, ma ripensare la storia dello stesso essere e, quindi, la nostra storia. Ma nostra non nel senso che ò stata decisa da noi, poichò, se ò vero che per Heidegger la metafisica ò l’apertura storica da cui dipende il destino di noi occidentali, tuttavia tale apertura non dipende da noi, bensì dall’essere. Schematicamente, seguendo le diverse ricostruzioni che Heidegger ha elaborato negli scritti di questo periodo, possiamo articolare tale storia secondo cinque tappe fondamentali: 1) Nel mondo greco. In greco, la parola verità , a-lòtheia, ò formata da un alpha privativo e dal verbo lathein che significa essere nascosto; di qui la verità  come “svelamento” (Unverborgenheit); il che implica un originario legame di svelamento e nascondimento, una originaria coappartenenza di verità  e di non-verità . Ciò che la verità  svela ò la natura (physis), ossia l’essere nel suo originario manifestarsi. (La radice phu ò comune sia a physis che a phainesthai, manifestare). La verità , per i Greci, ò dunque il manifestarsi dell’essere che, sottraendosi al nascondimento, si offre in visione. Ma già  nel pensiero greco questo originario legame di svelamento e di nascondimento viene dimenticato. 2) Nel platonismo. Con Platone si assiste a un capovolgimento dell’essenza della verità  che sarà  decisivo per la storia dell’Occidente. Il vero diventa l’ idèa, ciò che ò “visibile”, afferrabile con esattezza dal nostro intelletto. La radice id del termine greco idèa ò la stessa del verbo latino video (vedere) e videor (apparire), ma ora non si tratta più dell’apparire dell’essere, ma dello sguardo dell’uomo sull’essere stesso. La verità  “cade sotto il giogo dell’idea”, diventa qualcosa di relativo all’uomo, al suo saper “vedere” correttamente l’ente. La verità , da originaria manifestazione di ciò che si nasconde, ò diventata correttezza dello sguardo rivolto all’idea, che consiste nella corrispondenza (orthòtes in greco, adaequatio in latino) tra l’idea e la cosa. In questo passaggio, che riduce l’essere a oggetto di valutazione dell’uomo, Heidegger ha visto le premesse del dominio della tecnica. 3) In Aristotele e nel Medioevo. La concezione della verità  come corrispondenza tra il pensiero o la proposizione e le cose, presuppone che l’essere sia qualcosa di effettivamente presente. Da qui si sviluppa la metafisica come onto-teo-logia, ossia quella dottrina dell’essere dell’ente, che concepisce come tratto essenziale dell’essere la presenza effettiva. I passaggi successivi sono rappresentati da Aristotele, che privilegia la concezione dell’essere come enòrgheia, l’esistenza in atto, e dal Medioevo, che identifica l’essere in un ente supremo – il Dio della teologia cristiana, causa del mondo e fondamento di tutti gli enti – al quale vengono attribuite, oltre alla presenza, la capacità  di fondazione e la causalità . 4) In Cartesio e nell’idealismo tedesco. Con Cartesio, da cui prende avvio la scienza moderna, l’uomo si instaura come soggetto, “prendendo posto nel bel mezzo dell’ente”. La verità  diventa la certezza del soggetto umano, e l’essere si trasforma in oggetto, in qualcosa che sta di fronte (Gegen-stand) al calcolo e al progetto tecnico dell’uomo. Con ciò si rende possibile la tecnicizzazione del mondo, la quale, dunque, si configura come il naturale sbocco del pensiero metafisico. L’idealismo, da Fichte a Hegel, ha proseguito sulla medesima via che riconduce l’essere delle cose all’io, e, dunque, alla volontà  del soggetto. 5) In Nietzsche. Heidegger vede Nietzsche come il pensatore del compimento della metafisica, in cui si attua “il massimo e più profondo raccoglimento, cioò il compimento di tutte le posizioni di fondo essenziali della filosofia occidentale da Platone in poi.” In Nietzsche giunge al termine il platonismo, ossia la tradizione di pensiero caratterizzata dalla distinzione tra mondo vero e mondo apparente, che l’Occidente ha fatto propria grazie anche al cristianesimo, una forma di “platonismo per il popolo”. Il nichilismo, ossia il venir meno dei valori e il depotenziamento della vita, ò connaturato con tale tradizione, che svaluta il mondo sensibile e la corporeità . Nietzsche non si limita tuttavia a rovesciare il platonismo – nel senso di mantenere la struttura di quest’ultimo invertendone gli spazi – il mondo sensibile al posto del soprasensibile – ma effettua un passaggio più elaborato, uno “svicolamento” (Herausdrehung) che comporta una profonda trasformazione filosofica e una metamorfosi dell’uomo: il superuomo, inteso come l’uomo che va oltre (ueber) l’uomo che c’ò stato finora. In opposizione al platonismo, Nietzsche pensa l’essere come volontà  di potenza ed eterno ritorno (dottrine che risponderebbero alle tradizionali domande metafisiche sul “che cosa” e sul “come” l’ente ò), in altri termini, come potenziamento e innalzamento incessante, in un perenne ritorno su di sò. Caduta la distinzione metafisica tra mondo vero e mondo apparente, la verità  dell’essere ò posta senza fondamento, in certo qual modo solo su se stessa. Tuttavia, l’essere pensato come volontà  di potenza, (o volontà  di volontà , termine che, secondo Heidegger, esprime meglio la totale infondatezza della volontà  che vuole solo se stessa) rappresenta l’estrema radicalizzazione del soggettivismo e dell’antropomorfismo, esemplificata nella massima di Nietzsche: “”Antropomorfizzare” il mondo, cioò sentirci sempre più in esso come signori”. Anche la filosofia di Nietzsche, pertanto, rimane, per Heidegger, nell’ambito del nichilismo, della storia, cioò, in cui “dell’essere non ne ò più niente”. Il nichilismo ò quindi il compimento della metafisica, che culmina nel trionfo della razionalità  scientifica; il mondo, in cui si ò persa ogni traccia della differenza ontologica, si ò così trasformato in un immenso arsenale di strumenti della “volontà  di potenza”. Con Nietzsche, dunque, la metafisica perviene alla sua forma estrema, e solo in questa forma diviene comprensibile la sua essenza, che consiste nell’oblio dell’essere. Di tale evento, di cui noi non siamo semplici spettatori, poichò la storia della metafisica, come si ò detto, ò anche la nostra, veniamo a conoscenza solo quando ò giunto alla fine. Ma nel momento in cui si apre la possibilità  di ripensare l’essenza della metafisica, occorre di nuovo volgersi al primo inizio, per attingere nuove possibilità  e un altro destino dell’essere. Per questo, secondo Heidegger “Dobbiamo pensare Nietzsche, vale a dire sempre il suo unico pensiero e quindi il semplice pensiero-guida della metafisica occidentale, fino al suo proprio limite interno. Esperiremo allora come prima cosa, quanto ampiamente e quanto decisamente l’essere sia già  coperto dall’ombra dell’ente e della supremazia del cosiddetto reale. […] Eppure, scorgendo questa ombra come ombra, noi stiamo già  in un’altra luce, senza trovare il fuoco da cui emana il suo rilucere”. Libro Primo I – La volontà  di potenza come arte (1936/37) Nietzsche come pensatore metafisico L’ espressione “La volontà  di potenza” ha in N. un duplice ruolo: 1) ò il titolo della sua opera capitale, programmata per anni ma mai realizzata; 2) ò la denominanazione di ciò che costituisce il carattere fondamentale di tutto ciò che ò. In questo secondo senso, ò la risposta a quella che ò da sempre la domanda-guida (Leitfrage) della filosofia che chiede che cosa ò l’ente: tutto ciò che ò, ò per N. volontà  di potenza. Nostra intenzione ò chiarire la posizione di fondo all’interno della quale N. sviluppa la domanda-guida del pensiero occidentale. N. ò un grande pensatore, un pensatore genuino, nel suo pensiero la tradizione del pensiero occidentale si raccoglie e si compie secondo una prospettiva decisiva. Per questo un confronto con N. ò un confronto con il pensiero occidentale fino a oggi. Il libro “La volontà  di potenza” La programmata opera filosofica capitale di N. non fu mai realizzata. Il testo di cui oggi disponiamo, intitolato La volontà  di potenza contiene lavori preliminari ed elaborazioni parziali. Il piano secondo il quale i frammenti sono ordinati, l’articolazione in quattro libri e i titoli di essi sono di N.. I piani, i progetti, le articolazioni dell’opera sono cambiati più volte, senza che ci fosse una elaborazione dell’insieme che consenta di intravvedere un abbozzo determinante. Nell’ultimo anno (1888), prima del crollo, sono definitivamente abbandonati i piani iniziali. L’autentica filosofia di N. non arriva mai ad assumere una forma definitiva nelle opere pubblicate; ciò che egli ha pubblicato ò sempre avanscena. La prima edizione della Volontà  di potenza, apparsa nel 1901 dopo la morte di N., comprendeva 483 brani, ordinati secondo un piano dell’Autore del 1887. Nel 1906 vi fu una nuova edizione, notevolmente accresciuta, comprendente 1067 brani; ma l’intero materiale ò contenuto nell’edizione completa, nei volumi XIII e XIV dei frammenti postumi. Questi brani, per lo più, non sono semplici frammenti e annotazioni fugaci, ma aforismi accuratamente elaborati. Piani e lavori preliminari alla “costruzione capitale” Dall’ 82 all’88 N. elabora diversi piani e progetti, che mutano di volta in volta. Si possono tuttavia distinguere tre posizioni fondamentali (la prima, che cronologicamente si estende dall’ 82 all’83; la seconda, che comprende gli anni dall’85 all’87; la terza, che va dall’87 all’88). Ognuna di esse ò caratterizzata da un titolo predominante. La prima ha per titolo: Filosofia dell’eterno ritorno, con il sottotitolo: Un tentativo di trasvalutazione di tutti i valori. La seconda ò intitolata: La volontà  di potenza, con il sottotitolo: Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori. La terza: Trasvalutazione di tutti i valori. “Eterno ritorno”, “volontà  di potenza” e “trasvalutazione” sono le tre parole-guida sotto le quali sta la progettata opera capitale. Per comprendere la filosofia di N. occorre cogliere la connessione tra questi concetti e la loro relazione necessaria con la metafisica occidentale. L’unità  di volontà  di potenza, eterno ritorno e trasvalutazione La dottrina dell’eterno ritorno ò intimamente connessa a quella della volontà  di potenza, ed entrambe, nella loro unità , si autocomprendono come trasvalutazione di tutti i valori. Ma in che senso eterno ritorno e volontà  di potenza sono connessi? Di questa domanda, in quanto decisiva, ci occuperemo più a fondo in seguito; per ora, basti una risposta allusiva. L’espressione “volontà  di potenza” nomina il carattere fondamentale dell’ente in quanto ente. Con ciò non si ò ancora risposto alla prima autentica domanda della filosofia, bensì all’ultima domanda preliminare. La domanda decisiva che si pone al termine della filosofia occidentale ò quella sul senso dell’essere, è la domanda fondamentale (Grundfrage), che non ò sviluppata come tale nella storia della filosofia; anche in N. rimane entro la domanda-guida. La questione dell’essere ò il pensiero più grave della filosofia, e non ò un caso che l’eterno ritorno, per N. sia denominato “il pensiero più grave”. Con tale dottrina N. pensa quel pensiero che domina per intero tutta la storia della filosofia occidentale. Pensare l’essere come eterno ritorno significa pensarlo come tempo: l’eternità  non come un “ora” che resta fermo, nò come una successione all’infinito, ma come l’ “ora” che si ripercuote su se stesso. Se non si coglie la connessione tra la volontà  di potenza, come carattere fondamentale dell’ente, e l’eterno ritorno, come determinazione somma dell’essere, non si comprende neppure il contenuto metafisico della dottrina della volontà  di potenza. Se però ò la dottrina dell’eterno ritorno ad essere il nucleo più intimo della filosofia di N., in realtà , il suo sforzo decisivo ò quello di mostrare il carattere fondamentale dell’ente come volontà  di potenza; in questo senso la volontà  di potenza ò la dottrina centrale. Nell’interpretazione dell’opera, non ci atterremo alla successione dei singoli brani così come si presenta nella raccolta postuma, poichò tale ordinamento ò arbitrario e inessenziale. Occorre pensare i singoli brani secondo il loro movimento speculativo interno. E’ comunque decisivo ascoltare N. stesso, porre le domande con lui, per mezzo di lui e così al tempo stesso contro di lui, ma per l’unica intima cosa comune in questione nella filosofia occidentale. La struttura dell'”opera capitale”. Il modo di pensare di Nietzsche come rovesciamento Determiniano la posizione metafisica di N. per mezzo di due tesi: 1) Il carattere fondamentale dell’ente in quanto tale ò “la volontà  di potenza”. 2) L’essere ò “l’eterno ritorno dell’ugale”. Se interroghiamo a fondo la filosofia di N. secondo queste due tesi, andiamo oltre la sua posizione e quella della filosofia a lui precedente. Ma soltanto questo andare oltre consente di ritornare su Nietzsche. Ciò avverrà  per mezzo di una interpretazione della Volontà  di potenza. Il piano di quest’opera, su cui si basa l’edizione in volume, secondo un progetto dell’87, presenta la seguente forma: La volontà  di potenza – Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori Libro primo: Il nichilismo europeo. Libro secondo: Critica dei valori finora supremi. Libro terzo: Principio di una nuova posizione di valori. Libro quarto: Disciplina e allevamento. La nostra interrogazione comincia e si limita al terzo libro. Per N. una posizione di valori ò una posizione in base alla quale si determina il modo come deve essere tutto ciò che ò. Una “nuova” posizione porrà , rispetto a quella antica, un valore diverso che sarà  determinante per il futuro. Per questo nel secondo libro ò premessa una critica dei valori supremi finora in vigore, legati al cristianesimo, alla morale e alla filosofia. Tali valori vengono confutati in base all’origine problematica della loro posizione. Questa critica ò a sua volta preceduta da una esposizione del nichilismo europeo, contenuta nel primo libro. Il nichilismo per N. ò il fatto fondamentale della storia occidentale; esso consiste nella svalutazione dei valori supremi attraverso un lungo processo storico che inizia nei secoli prima di Cristo, giunge fino al XX secolo e interesserà  i secoli venturi. Il nichilismo non ha solo un carattere puramente negativo, di dissoluzione; non esclude, per lunghi tratti del suo cammmino storico, momenti di ascesa creativa. “Corruzione” e “degenerazione fisiologica” non sono cause del nichilismo, ma conseguenze, per cui esso non può essere semplicemente superato con la loro eliminazione, ma solo ritardato. Il contromovimento che si oppone al nichilismo, appartiene anch’esso alla storia del nichilismo, ò interno ad esso, e sarà  una transvalutazione di tutti i valori. Ogni nuova posizione di valori dovrà  ‘allevare’ coloro che portano il nuovo atteggiamento, nonchò i nuovi bisogni e le nuove esigenze. Perciò l’opera termina, nel quarto libro con “Disciplina e allevamento”. La posizione dei valori supremi non avviene di colpo, ma coloro che li pongono, ossia i filosofi, i creatori, devono tentare nuove strade; con il loro domandare devono mettere alla prova l’ente in relazione al suo essere e alla sua verità . N. scrive: “Facciamo un tentativo con la verità ! Forse sarà  la rovina dell’umanità ! Orsù!” Qual ò il principio della nuova posizione dei valori? E’ importante anzitutto chiarire il titolo del terzo libro. Il termine “principio” significa fondamento, nel senso dell’archò dei Greci: ciò a partire da cui una cosa si determina diventando quello che ò. Il principio di una nuova posizione dei valori ò quindi il fondamento di un porre valori nuovi rispetto a quelli finora in vigore. N. vuole fondare in modo nuovo la maniera in cui i valori vengono posti. Questo fondamento ò la volontà  di potenza. Come la si deve intendere? Abbiamo detto che per N. la volontà  di potenza denomina il carattere fondamentale dell’ente, ciò che propriamente ò. Ora, la riflessione decisiva di N. procede così: se si deve fissare ciò che propriamente deve essere, lo si potrà  fare solo se prima si saprà  con chiarezza che cosa ò e che cosa costituisce l’essere. Per questo la volontà  di potenza ò già  in se stessa un porre valori, poichò l’ente ò concepito come volontà  di potenza. E quindi diventa superfluo un “dover essere” che si sovrapponga all’ente affinchò questo lo prenda per misura. Mettere in evidenza il principio della nuova posizione dei valori significa anzitutto dimostrare che la volontà  di potenza ò il carattere fondamentale dell’ente. In relazione a tale compito i curatori della Volontà  di potenza hanno suddiviso il terzo libro in quattro capitoli: I. La volontà  di potenza come conoscenza II. La volontà  di potenza nella natura. III. La volontà  di potenza come società  e individuo. IV. La volontà  di potenza come arte. Tale disposizione appare ben fondata, sulla base dei manoscritti di cui disponiamo; i curatori hanno utilizzato, per la suddivisioneripartizione dei capitoli e la ripartizione degli aforismi diverse indicazioni di N. . Iniziamo l’interpretazione dal quarto e ultimo capitolo: “La volontà  di potenza come arte”, che comprende gli aforismi dal n. 794 al n. 853. Iniziamo dal quarto e non dal primo capitolo per ragioni che dipendono dal contenuto stesso: ò soprattutto in base alla concezione nietzscheana dell’arte che si può comprendere il significato della volontà  di potenza. Affinchò però l’espressionr “volontà  di potenza” non continui a restare una mera parola, anticipiamo i tratti dell’interpretazione del quarto capitolo, domandando: 1) Che cosa intende N. con questa espressione? 2) Perchò il carattere fondamentale dell’ente ò denominato come volontà ? L’essere dell’ente come volontà  nella metafisica tradizionale La concezione dell’essere dell’ente come volontà  ò in linea con la migliore tradizione della filosofia tedesca. La troviamo in Schopenhauer, la cui opera Il mondo come volontà  e rappresentazione, fu inizialmente uno stimolo per la filosofia di N., anche se egli intende per volontà  qualcosa di completamente diverso. L’opera di Schopenhauer, d’altra parte, ò profondamente debitrice nei confronti di Schelling e di Hegel. Questi ultimi hanno interpretato l’essere come volontà . Schelling ha scritto nel trattato Sull’essenza della libertà  umana che il volere ò l’essere originario. E Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, ha concepito l’essenza dell’essere come sapere, ma il sapere come uguale per essenza al volere. Entrambi erano consapevoli di interpretare il pensiero di un altro grande pensatore tedesco, Leibniz, il quale determinava l’essenza dell’essere come unità  originaria di perceptio e appetitus, di rappresentazione e volontà . Tuttavia la dottrina di N. non ò dipendente da quella di questi grandi pensatori. Un grande pensatore del resto ò tale perchò ò in grado di trasformare in modo originale il pensiero degli altri “grandi”. Ciò vale per N., la cui dottrina dell’essere come volontà  si inserisce nella corrente di pensiero più profonda e necessaria della metafisica occidentale. La volontà  come volontà  di potenza Per N. la volontà  non ò altro che volontà  di potenza, e la potenza non ò altro che l’essenza della volontà . La volontà  di potenza ò allora volontà  di volontà , cioò volere ò volere se stesso. Se vogliamo tentare di chiarire concetti che pretendono di cogliere l’essere dell’ente, non ci possiamo richiamare ad un ente determinato o ad un modo d’essere particolare. Così, ad esempio, non si può dire che la volontà  ò una facoltà  psichica, perchò se ò la volontà  a determinare l’essenza di ogni cosa, non ò quest’ultima che avrà  il carattere della psiche, ma sarà  la psiche ad avere il carattere della volontà . Se la volontà  di potenza connota l’essere stesso, non ci sarà  più nulla che possa determinare ulteriormente la volontà . La volontà  ò volontà ; ma questa definizione, formalmente corretta, non dice più nulla, e può indurre in errore in quanto si crede che alla semplice parola corrisponda una cosa altrettanto semplice. Nietzsche nondimeno la denomina a volte come “affetto”, come “passione”, come “sentimento”, o come “comando”. Anche se questo modo di procedere può suscitare perplessità , in quanto non si tratta di determinazioni chiarite a sufficienza, va considerato che, data la polisemia del concetto di volontà , non restava a N., per definirne l’essenza, che utilizzare termini noti. La determinazione del volere che si impone per prima, ò quella di un tendere a.., mirare a qualcosa, essere diretti a qualcosa. (Anche se nell’essere diretti a qualcosa, come per es. nella rappresentazione, non ò insito ancora un volere). Si dice anche volere nel senso di desiderare; ma il volere non ò un desiderare, poichò implica la risolutezza del comando. Nel volere inoltre ò implicito il riferimento ad un oggetto: l’errore di Schopenhauer, al proposito, ò quello di ritenere che esista un volere puro, senza un oggetto determinato. Sta invece nell’essenza del volere che in esso consistano il voluto e il volente. E’ contenuto nel volere l’ essere risoluto a se stesso, un volere al di là  di se stesso e la determinatezza dell’oggetto. Quando N. accentua il carattere di comando della volontà , intende evidenziarne la risolutezza e la fermezza. In questa fermezza del volere che si slancia oltre se stessa sta l'”essere signore di..”. In questo senso la volontà  ò potenza, e la potenza volontà . Pertanto l’espressione “volontà  di potenza” non significa che la potenza sia il fine della volontà , un qualcosa che va ad aggiungersi ad essa, ma un chiarimento della volontà  stessa. Solo dopo aver chiarito questi aspetti di fondo, si possono comprendere le ulteriori connotazioni del concetto di volontà . La volontà  come affetto, passione e sentimento N. chiama la volontà  sia affetto, sia passione, sia sentimento. In un brano della Volontà  di potenza (il n. 688), egli definisce la volontà  di potenza l’affetto originario, e tutti gli affetti forme derivate di essa. Queste spiegazioni non vanno intese nell’ottica della psicologia comune. La caratteristica essenziale di un affetto ò quella di trasportarci fuori di noi stessi. Nell’affetto siamo sovreccitati, non siamo più padroni di noi stessi, siamo al di là , fuori di noi. Nell’affetto la volontà  diviene non volontà . Così in tedesco l’ira si dice anche Un-wille, alla lettera: non volontà , appunto. Oltre che come affetto la volontà  ò connotata anche come passione. La passione ò qualcosa di sostanzialmente diverso dall’affetto. In essa c’ò uno slancio che non rende ciechi, ma al contrario lucidi, freddi, come ad es. nell’odio. Una passione ha anche una maggiore persistenza e compattezza, che non chiude l’io in se stesso, ma lo raccoglie aprendolo. In questo senso la volontà  ò un essere padrone-di-sò, nel quale diventiamo lucidi e prendiamo potere dell’ente intorno a noi e in noi. Un sentimento invece ò il modo in cui ci troviamo nei confronti delle cose e di noi stessi. Nel sentimento si apre e si mantiene aperto tale modo di essere, ò esso stesso questo stato originario. Ne viene una ulteriore delucidazione dell’essenza della volontà , per cui essa si schiude a se stessa. Nel volere mettiamo in luce noi stessi, la nostra identità , e tale luce ò implicita nell’essenza della volontà , non deriva da una riflessione che sopravvenga dopo. N. designa la volontà  ora come affetto, ora come passione e sentimento, ma dietro questi termini vede qualcosa di più originario: essi sono, nel fondo della loro essenza, volontà  di potenza. Perciò non ha molto senso definire “emozionale” la sua concezione, in contrapposizione a quella idealistica. L’interpretazione idealistica della dottrina nietzscheana della volontà  Se per interpretazione idealistica della volontà  si intende quella concezione che dice che la volontà  nella sua essenza ò un rappresentare, ossia ò determinata da idee, allora idealistica ò l’intera tradizione occidentale che inizia con Aristotele. Questi, trattando della natura del desiderio, dice infatti che “ciò che nel desiderio ò desiderato muove, e l’intelletto, il rappresentare, muove soltanto perchò si rappresenta ciò che nel desiderio ò desiderato”. Il pensiero filosofico successivo fa propria questa concezione. Per Kant la volontà  e quella facoltà  desiderativa che agisce secondo concetti. Il rappresentare differenzia la volontà  desiderativa dall’appetito cieco. Anche nell’idealismo tedesco viene ripreso questo concetto. Per Hegel sapere e volere sono la stessa cosa. Il vero sapere ò anche agire. Nietzsche stesso dice: “volere, cioò comandare”, ossia: “mirare in modo chiaro, teso” ad una cosa. E in ciò ò insito appunto il rappresentare, il pensiero che comanda. Tuttavia, se vogliamo avvicinarci il più possibile alla concezione nietzscheana della volontà  dobbiamo evitare tutte le denominazioni usuali, sia che vengano definite idealistiche o emozionali, o altro. Volontà  e potenza. L’essenza della potenza Ogni volere ò un voler-essere-di-più; quindi ò potenza nel senso del potenziamento, dell’elevazione; ò anche autoaffermazione, nel senso di un riandare all’essenza, all’origine. La volontà  di potenza ò dunque volontà  di essenza, e in quanto tale ò qualcosa che crea e distrugge: l’essere-signore-al-di-là -di-sò ò sempre anche annientamento. Anche il nulla, la distruzione fanno parte dell’essenza dell’essere. Con tale concezione N. si ricollega al pensiero occidentale. L’idealismo tedesco ha pensato l’essere come volontà , e si ò spinto fino a pensare il negativo come appartenente all’essere. Hegel, nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito ha parlato di “immane potenza del negativo” e ha scritto che la vita dello spirito ò quella “che sopporta la morte e che in essa si mantiene”. N. che non approvava il disprezzo di Schopenhauer verso l’idealismo, nel brano n. 416 della Volontà  di potenza, ha esaltato la “grandiosa iniziativa” della filosofia tedesca che ha pensato “un panteismo in cui il male, l’errore e il dolore non siano avvertiti come argomenti contro la divinità “. Anche per quanto riguarda il concetto di potenza come determinazione dell’essere N. si ricollega alla tradizione metafisica occidentale. La potenza, per N., in quanto forza, significa essere pronti ad operare, essere capaci di.. (dynamis). Ma potenza ò anche l’atto del dominio, l’essere-all’opera-della-forza (enòrgheia), nonchò venire-a-se-stesso nella semplicità  dell’essenza (entelòcheia). Ma dùnamis, enòrgheia ed entelòcheia sono per Aristotele le determinazioni supreme dell’essere. Vi ò quindi un’intima relazione fra la volontà  di potenza di N. e la metafisica di Aristotele. Ciò non significa intepretare N. attraverso Aristotele, piuttosto, entrambe le dottrine devono essere riprese nel contesto di una domanda più originaria. La domanda-guida e la domanda fondamentale della filosofia Incominciamo l’intepretazione del terzo libro con il quarto e ultimo capitolo, intitolato “La volontà  di potenza come arte”. Chiarendo come N. concepisce l’arte, si chiarisce perchò l’intepretazione della volontà  di potenza debba cominciare proprio dall’arte. Occorre però tenere ben saldo l’intento filosofico fondamentale dell’interpretazione, che si articola nella domanda-guida (Leitfrage) – che chiede che cosa ò l’ente – e nella domanda fondamentale (Grundfrage) – che chiede che cosa ò l’essere-. Queste domande conducono oltre N., ma portano allo scoperto e rendono fertile il suo pensiero. La domanda fondamentale rimane estranea a N., come al pensiero a lui precedente. In N. il problema dell’essenza della verità  (che ò incluso in tali domande), ò legato all’interpretazione dell’ente in quanto volontà  di potenza. E dato che l’arte ha una posizione eminente nel contesto di tale interpretazione, allora ò nell’arte che diviene centrale la questione della verità . Le cinque tesi sull’arte Tentiamo una prima connotazione dell’essenza dell’arte in Nietzsche, mettendo in risalto, sulla base di passi importanti, cinque tesi sull’arte. Che l’arte abbia una posizione decisiva nel compito di una nuova fondazione dei valori lo si evince anche dal brano 797 della Volontà  di potenza, in cui N. afferma: “Il fenomeno dell’ ‘artista’ ò ancora quello più trasparente, che si può scrutare più facilmente”. “Più trasparente” significa più facilmente accessibile nella sua essenza. Questo perchò essere artista significa produrre, porre in essere qualcosa che ancora non ò: nella produzione artistica noi partecipiamo per così dire al divenire dell’ente, e possiamo coglierne nel modo più chiaro l’ essenza. E poichò l’essenza dell’ente ò la volontà  di potenza, e nell’essere artista si trova il modo più trasparente della volontà  di potenza, la meditazione sull’arte ò decisamente prioritaria. Va tenuto presente anche che N. vede l’arte nella prospettiva dell’artista, ossia di colui che crea e produce, non in quella di coloro che ne fruiscono. Torniamo al brano 797; ne possiamo ricavare due tesi essenziali: 1) L’arte ò la forma più trasparente e più nota della volontà  di potenza. 2) L’arte deve essere concepita dalla prospettiva dell’artista. Sempre nello stesso brano, N. aggiunge che ò guardando all’essenza dell’artista che vanno considerate anche le altre forme della volontà  di potenza – natura, religione, morale. Secondo N., anche gli enti che non sono prodotti dall’artista hanno un modo di essere che corrisponde a quello di ciò che ò creato dall’artista. Il concetto di arte non ò inteso in senso stretto, nell’accezione di “belle arti”, ma ò esteso a ogni saper produrre e a ogni cosa prodotta. Da qui si può formulare una terza tesi: 3) L’arte ò l’accadere fondamentale di ogni ente; l’ente ò, in quanto ò, qualcosa che si crea, qualcosa di creato. Ora, affermare che l’accadimento fondamentale di ogni ente ò arte, significa dire che ò la forma somma della volontà  di potenza; la volontà  di potenza, come l’arte, ò un creare e un distruggere. Già  nella Nascita della tragedia N. vedeva l’arte come carattere fondamentale dell’ente, laddove egli parlava di arte come attività  metafisica. E’ dunque dall’arte, e non più dalla morale, dalla religione e dalla filosofia, che dovrà  partire una nuova posizione di valori, che dovrà  essere una trasvalutazione dei valori stessi. Secondo N., i valori tradizionali, determinati dal platonismo e dal cristianesimo, presuppongono una svalutazione del mondo sensibile, a vantaggio del cosiddetto “mondo vero”. Ora, caduto il “mondo vero”, il vero mondo ò soltanto quello sensibile che ò l’oggetto proprio dell’arte. L’arte afferma dunque ciò che il platonismo e il cristianesimo negano. Per questo N. afferma che essa costituisce l’unica controforza contro ogni volontà  che rinneghi la vita. Con ciò si ottiene la quarta tesi: 4) L’arte ò il contromovimento per eccellenza che si oppone al nichilismo. Dunque ogni attività , compresa quella filosofica, devono essere determinati dall’arte. Ne deriva che al posto del filosofo moralista e nichilista, che guarda al cosiddetto mondo superiore, deve essere collocata la figura del filosofo-artista, il filosofo del contromovimento che operando sull’ente decide anche della verità  di quest’ultimo. Dire che per N. nell’arte si decide della verità , può apparire in contrasto con il fatto che egli definisce l’arte come volontà  di parvenza che si oppone alla “volontà  di verità “. Ma per N. la volontà  di parvenza ò volontà  del sensibile e della sua ricchezza, mentre la “volontà  di verità “, corrisponde alla volontà  del “mondo vero” di Platone e del cristianesimo. La volontà  di un “vero” siffatto ò, in realtà , un dire no a questo nostro mondo, dove l’arte ò di casa. In vista di un “mondo vero”, la sottomissione, la compassione, l’umiltà  diventano valori autentici, mentre ogni elevazione creatrice, e ogni orgoglio della vita non sono che abbaglio e peccato. Da ciò si ricava la tesi: 5) L’arte vale di più della “verità “. Sulla scorta di queste cinque tesi va ricordata l’affermazione di N. secondo cui l’arte ò il massimo stimolante della vita; stimolante ò ciò che potenzia, che “eleva al di là  di sò”, ossia ò volontà  di potenza. L’affermazione quindi che l’arte ò il massimo stimolante della vita significa che l’arte ò volontà  di potenza, ed ò la tesi capitale di N., che viene delucidata dalle altre cinque. A questo punto domandiamo. 1) Che cosa offre la concezione nietzscheana dell’arte in vista di determinare l’essenza della volontà  di potenza? 2) Che cosa significa tale concezione per il sapere dell’arte? Sei fatti fondamentali ricavati dalla storia dell’estetica Cominciamo dalla seconda questione. Anche se N. non si pone la questione dell’arte come manifestazione della cultura, soltanto una riflessione sull’estetica ci consente di capire l’interpretazione nietzscheana dell’arte; peraltro egli si muove in linea con la tradizione. Secondo quest’ultima, la riflessione sul sapere dell’arte ò denominata estetica, il cui oggetto ò il comportamento sensibile e lo stato sentimentale in rapporto al bello. Il termine “estetica” per designare la riflessione sul bello e sull’arte ò recente, e risale al XVIII secolo, ma tale riflessione ò antica. Per connotare l’essenza dell’estetica, il suo ruolo entro il pensiero metafisico e il suo riferimento alla storia dell’arte europea, prendiamo in considerazione sei fatti fondamentali. 1) La grande arte greca ò priva di una corrispondente riflessione concettuale che la pensi. Ciò non significa che tale arte sia solo “vissuta”. Piuttosto, essa si manifesta in un contesto di lucido sapere, così da non avere bisogno di un’estetica. 2) L’estetica nasce presso i Greci quando la grande arte, nonchò la grande filosofia che le ò parallela, si approssima alla fine. In tale periodo, con Platone ed Aristotele, vengono coniati quei concetti fondamentali che da allora in poi definiranno ogni posizione dell’arte. Anzitutto la coppia di concetti materia – forma (ylò – morfò). Questa concezione ha origine nella concezione dell’ente, fondata da Platone, che guarda al suo aspetto : eìdos, idòa. Dove l’ente viene percepito come ente e distinto dagli altri in base al suo aspetto, i suoi confini sono avvertiti come limitazione interna ed esterna. La forma ò ciò che delimita, ciò che ò delimitato la materia. A questa coppia di concetti si unisce un altro termine, la tòcne, con cui i Greci denominano sia l’arte che l’artigianato. Con ciò non si intende equiparare l’arte all’artigianato: la tòcne non ò un semplice fare o un produrre, ma un tipo di sapere che guida ogni iniziativa umana. Successivamente, con l’emergere della distinzione di materia e forma, il termine perde la sua forza semantica originaria e viene riferita alla fabbricazione di cose belle, e quindi la riflessione su questi concetti si sposta nell’ambito dell’estetica. 3) Il terzo fatto coincide con l’inizio dell’età  moderna. L’uomo e il suo sapere diventano il luogo della decisione che stabilisce come l’ente vada sperimentato, determinato e configurato. La libera presa di posizione dell’uomo, il suo modo di sentire le cose, in breve: il suo gusto, diventano il tribunale che decide dell’ente. In metafisica, la certezza dell’essere e la sua verità  sono fondate sull’autocoscienza del cogito. La stessa riflessione sul bello viene riferita in modo esclusivo allo stato sentimentale dell’uomo. E’ in questo periodo che l’estetica viene fondata e praticata consapevolmente. Di pari passo la grande arte si avvia verso la decadenza. Tale decadenza non consiste in una peggiore qualità  del prodotto, ma nel fatto che l’arte non assolve più il compito di rendere manifesta nelle opere la verità  dell’ente nel suo insieme. Da qui capiamo il quarto fatto: 4) La grande arte ò alla fine nel momento in cui l’estetica raggiunge la sua massima altezza. La grandezza di questa estetica consiste proprio nel riconoscere la fine della grande arte: tale estetica ò quella di Hegel. Egli non ha inteso negare la possibilità  e l’esistenza di singole opere d’arte, ma affermare che essa ha perduto per sempre il suo potere assoluto. Da ciò deriva la posizione dell’arte nel XIX secolo, che può essere indicata in un quinto punto. 5) Il XIX secolo, in relazione alla decadenza dell’arte che perde la sua essenza, osa compiere, ad opera di Richard Wagner, il tentativo dell’ “opera d’arte totale”. Essa consiste nel fatto che tutte le arti, e in funzione predominante la poesia e la musica, devono essere congiunte in una sola opera. Inoltre, l’arte deve diventare la celebrazione della comunità  del popolo, la sua religione. L’ “opera d’arte totale” realizza il dominio dell’arte come musica, e con esso il dominio dello stato sentimentale puro, dissolvendo ogni elemento stabile nel languido, nell’evanescente, esaltando la sfrenatezza dei sensi: “l’estasi del sonnambulo”, come la definisce Nietzsche. Nell’ “opera d’arte totale” l’arte deve ridiventare bisogno assoluto, ma l’assoluto ò concepito ormai come sentimento puro; per questo il tentativo di Wagner ò destinato al fallimento. D’altro canto, fu proprio questa ebbrezza sentimentale dell’opera wagneriana ad incantare il giovane Nietzsche per quella dimensione che egli poi definì dionisiaca. Mentre Wagner tuttavia cercava la mera esaltazione del dionisiaco, N. mirava a domarlo, a dargli forma: la rottura fra i due era inevitabile. Nel XIX secolo il sapere dell’arte, in corrispondenza alla crescente incapacità  di un sapere metafisico, si trasforma in una indagine scientifica sui puri fatti della storia dell’arte. La storia dell’arte e la dimensione estetica, diventano oggetto di una ricerca condotta con i metodi delle scienze naturali. Ma tale lavoro e fervore intorno all’arte, non ò altro che il proscenio di quell’accadere che N. enunciò come nichilismo. Con questo arriviamo all’indicazione dell’ultimo fatto fondamentale: 6) Ciò che Hegel ha enunciato riguardo all’arte – l’aver perso la potenza di configurare l’assoluto – N. lo ha riconosciuto riguardo i “valori supremi”. Ma mentre per Hegel ò l’arte, e non la religione, la morale e la filosofia, a cadere vittima del nichilismo, per N., al contrario, l’arte rappresenta il contromovimento. Mentre inoltre per Hegel l’arte diviene oggetto di un sapere metafisico, N. considera la riflessione sull’arte una “fisiologia dell’arte”. “L’estetica ò per l’appunto nient’altro che una fisiologia applicata”, egli scrive infatti in Nietzsche contra Wagner del 1888. Dunque, da un lato l’arte ò il contromovimento che si oppone al nichilismo, dall’altro ò “fisiologia”: indagine scientifica degli stati e dei processi corporali e delle cause che li provocano. L’ebbrezza come stato estetico Vista dall’esterno questa posizione sembra assurda: come può l’arte porre nuovi criteri e valori se viene ricondotta a processi nervosi e a semplici relazioni causali? Per cercare di cogliere una unità  fra cose apparentemente contrastanti, esamineremo un abbozzo di N., comprendente una sequenza di diciasette appunti numerati, intitolato “Per la fisiologia dell’arte”, che si trova tra i piani della “Volontà  di potenza”. Nonostante tale abbozzo non contenga un’idea direttrice visibile, fornisce tuttavia un quadro di ciò di cui si deve trattare. “Per la fisiologia dell’arte” Per determinare meglio il materiale, seguiremo un duplice filo conduttore: anzitutto la considerazione della dottrina della volontà  di potenza, quindi le dottrine capitali dell’estetica tradizionale. La questione dell’arte in N. ò estetica, poichò essa viene determinata facendo ricorso allo stato sentimentale dell’uomo a cui appartengono la produzione e la fruizione del bello. Ma questa estetica deve essere fisiologia: gli stati sentimentali sono indagati nella loro corrispondenza con gli stati corporei. E’ l’unità  psicosomatica dell’uomo ad essere posta come ambito degli stati estetici; quindi quando N. parla di fisiologia intende anche l’ambito psicologico. Leggiamo innanzitutto un passo del Crepuscolo degli idoli (1888), intitolato “Per la psicologia dell’artista”. In esso N. afferma che lo stato estetico fondamentale ò l’ebbrezza, nelle sue varie forme (derivanti da eccitazione sessuale, dagli affetti forti, dalla festa, da narcotici, ecc.). Possiamo confrontare questo passo con il brano 798 della Volontà  di potenza, in cui N. parla di “due stati nei quali l’arte stessa insorge nell’uomo come una forza della natura”. Questi stati sono l’apollineo e il dionisiaco, che vengono concepiti quindi come la condizione preliminare dell’arte. Tali concetti erano già  stati sviluppati nella Nascita della tragedia, nella quale, in particolare, l’apollineo e il dionisiaco venivano associati ai fenomeni fisiologici del sogno e dell’ebbrezza. Anche nel frammento 798 della Volontà  di potenza l’apollineo ha il carattere del sogno, e il dionisiaco dell’ebbrezza. Ora però, nel passo del Crepuscolo degli idoli, si afferma che anche l’apollineo ò una specie di ebbrezza: l’ebbrezza diviene lo stato estetico fondamentale. A questo punto, occorre pertanto chiarire: 1) Qual ò l’essenza generale dell’ebbrezza? 2) In quale senso essa ò lo stato estetico fondamentale? Alla prima domanda N., nel Crepuscolo degli idoli, dà  una risposta concisa: “L’essenziale nell’ebbrezza ò il sentimento del potenziamento della forza e della pienezza”. L’ebbrezza ora ò definita come un sentimento. Il sentimento, come si ò precedentemente chiarito, ò il modo come ci troviamo presso di noi e presso le cose; ò la disposizione in virtù della quale noi siamo trasportati al di là  di noi stessi. Ora, che l’ebbrezza sia un sentimento non ò in contraddizione col fatto che essa sia uno stato fisiologico. Noi non “abbiamo” un corpo, ma “siamo” corpi; il sentirsi, nel sentimento, ò il modo nel quale noi siamo un corpo in carne e ossa in una certa disposizione d’animo. Ora, nell’ebbrezza ò contenuto sia il sentimento del potenziamento della forza che il sentimento della pienezza. Il potenziamento della forza non sta ad indicare tanto un “di più”, una crescita di forza, ma deve essere inteso come una disposizione d’animo verso l’ente nella quale l’ente stesso ò esperito come più ricco e più essenziale. Analogamente, la pienezza indica la massima apertura e la massima esaltazione. Si potrebbe connotare l’ebbrezza anche come una passione, in quanto non ò uno stato passeggero, ma qualcosa che permane. Rimane comunque difficile applicare all’ebbrezza termini quali sentimento, affetto, passione. Per quanto riguarda la seconda domanda, dobbiamo chiederci, secondo le parole di N., in quale senso l’ ebbrezza ò “inevitabile” perchò vi sia arte, se essa sia soltanto una condizione dell’arte o la fonte perenne. Abbiamo visto che l’ebbrezza ò una disposizione d’animo che ci apre fino alla pienezza delle nostre facoltà , le quali si stimolano e si esaltano a vicenda. Procediamo continuando a domandare che cosa ò determinante in questa disposizione perchò possa essere chiamata estetica. La dottrina kantiana del bello. Il suo fraintendimento a opera di Schopenhauer e di Nietzsche Non vi ò in N. una esposizione costruita e fondata sul bello e sulla bellezza. Le sue tesi risultano dal rovesciamento delle vedute estetiche di Schopenhauer. Queste, esposte nel terzo libro del Mondo come volontà  e rappresentazione, non sono ben fondate, ma sono un fraintendimento dell’estetica kantiana. Il fraintendimento delle idee di Kant sul bello e sull’arte, non riguarda solo Schopenhauer e Nietzsche, ma gran parte della storia della filosofia. Tale fraintendimento nasce da una asserzione di Kant sul bello, sviluppata nei parr. 2-5 della Critica del Giudizio. “Bello”, per Kant, ò ciò che piace soltanto in modo puro, “senza interesse”. Per Schopenhauer ciò si identifica nella sospensione della volontà ; in N., secondo uno schema di contrapposizione, “bello” diviene l’ebbrezza, ossia il contrario di ogni “piacere disinteressato”. Ma in Kant l’espressione “piacere disinteressato”, lungi dall’ indicare un’indifferenza verso l’oggetto, al contrario, ne ò una valorizzazione. In Kant il termine “interesse” ha una valenza negativa, sta a indicare ciò che può distoglierci dall’individuazione del bello in quanto tale. Solo dopo aver messo da parte ogni “interesse”, possiamo cogliere l’oggetto nel suo proprio rango e nella sua dignità , e quindi nella sua bellezza. Peraltro, il fraintendimento dell’estetica kantiana ò un limite che N. condivide con il proprio tempo. Però ora si tratta di capire, all’interno di tale contesto storico, ciò che N. dice sulla bellezza. Anch’egli determina il bello come ciò che piace, inteso come ciò che ci si addice, che ci corrisponde. Il bello ò dunque ciò che apprezziamo e veneriamo come l’immagine-modello (Vor-bild) del nostro essere. N. scrive che il bello “ò l’estasi di essere nel nostro mondo”, ossia mediante il bello l’uomo penetra in uno stato fondamentale in cui perviene alla pienezza fondata sulla sua essenza. Una cosa analoga Kant intende con il “piacere della riflessione”, quale comportamento fondamentale in rapporto al bello. Ora, tale stato, per N., e un elevarci-al-di-là -di-noi nella pienezza delle nostre facoltà  essenziali: in altri termini tale stato coincide con l’ebbrezza. L’ebbrezza come forza creatrice di forme Cerchiamo ora di demarcare meglio l’ambito dello stato estetico. Per N. l’essenza del creare non ò sviluppata partendo dall’essenza di ciò che ò creato, dall’opera, ma dallo stato del comportamento estetico. Da un lato, per N., il creare ò un atto vitale, un produrre condizionato dall’ebbrezza, di cui ò possibile fornire una descrizione fisiologica: dilatazione vascolare, temperatura, secrezione, ecc.; dall’altro, il creare ò legato all’essenza dell’ebbrezza e della bellezza, ed implica l’andare-al-di-là -di-sò, il vedere le cose in modo “più pieno”, “più semplice”, più intenso”. Questo aspetto del creare viene definito da Nietzsche “idealizzare”, ossia “estrapolare i tratti capitali”. L’ “idealizzare” ò il segno supremo della potenza, poichò in esso i contrasti sono domati: “Che non sia necessaria alcuna violenza, che tutto segua, obbedisca con tanta facilità , facendo buon viso all’obbedienza – ciò delizia la volontà  di potenza dell’artista”. (La volontà  di potenza, n. 821). Lo stato estetico di chi recepisce l’opera d’arte ò visto da N. in corrispondenza con lo stato di coloro che creano: recepire l’arte ò un rivivere il creare. Quanto esposto finora ci consente di cogliere nello stato estetico non soltanto meccanismi psicosomatici, ma piuttosto i processi dell'”idealizzare” e dell’ “estrapolare i tratti capitali”. Il sentimento estetico non ò perciò una commozione cieca e passeggera, ma ò riferito a una struttura, ossia, nella terminologia dell’estetica usata da N., ad una “forma”. N. spiega la “forma” come un “esporsi”, un “farsi pubblico”, e in ciò si avvicina al significato originario del termine. I Greci chiamavano “forma” (morfò) la figura, l’aspetto di un ente (eìdos), ciò in cui l’ente si espone e viene alla luce. La forma va visto in relazione all’ebbrezza. Quest’ultimo termine non rinvia al caos, ma all’opposto, indica la vittoria della forma che fonda l’ambito in cui l’ebbrezza diviene possibile come tale. Il termine “forma” non va visto inoltre in opposizione al “contenuto”. “Forma” non ò “margine”, limite esterno di un contenuto, ma sua componente essenziale; la forma ò l’unico vero contenuto. Ora però, quando N. tenta di caratterizzare le leggi della forma, nomina quelle leggi logiche e matematiche, che sono viste a loro volta in relazione alla vita fisiologica. “I sentimenti logici”, “il piacere dell’ordinato”, che costituiscono la base dei giudizi di valore estetico, non sono altro che i sentimenti di tutti gli esseri organici “in rapporto alla pericolosità  della loro situazione, o alla difficoltà  del loro nutrimento”. Occorre tuttavia determinare meglio l’ambito in cui si collocano tutti questi elementi: l’ebbrezza quale stato estetico fondamentale, la bellezza, e gli stati del creare e del recepire; quindi la forma e il “sentimento dell’ordinato” quale condizione della vita fisiologica. Cerchiamo di chiarire, semplificandole, le connotazioni fin qui date da N.. Limitiamoci ai due termini essenziali dell’ebbrezza e della bellezza, che stanno fra di loro in un rapporto reciproco. L’ebbrezza ò la disposizione fondamentale; la bellezza ciò che predispone e determina. A prima vista si potrebbe definire la prima come l’elemento soggettivo, la seconda, quello oggettivo. L’ebbrezza tuttavia fa saltare la soggettività  del soggetto: in essa infatti il soggetto ò andato al di là  di sò; la bellezza, d’altra parte, spezza il cerchio dell’oggetto separato e a sò stante – giacchò una bellezza in sò non esiste – e lo porta alla coappartenenza essenziale e originaria con il soggetto. Lo stato estetico dunque non ò nò oggettivo nò soggettivo; i due termini fondamentali, ebbrezza e bellezza, denominano con la stessa estensione l’intero stato estetico. Il grande stile N. parla di “grande stile”, quando si riferisce a quella realtà  dell’arte pervenuta alla sua essenza. Il grande stile ò lontano dall’arte “eroica” e “tronfia” di Wagner, ed implica la padronanza della misura e della legge, nonchò la calma propria delle anime forti. Lo stile severo, classico, ò quello che maggiormente si avvicina ad esso. “Lo stile classico rappresenta essenzialmente questa calma, semplificazione, abbreviazione, concentrazione – il sentimento sommo della potenza ò concentrato nel tipo classico”. (La volontà  di potenza, n. 799). Nel grande stile trovano la loro sintesi anche l’arte come contromovimento che si oppone al nichilismo, e l’arte come oggetto della fisiologia. Il grande stile esige, da un lato, la misura e la legge che vengono poste nel domare il caos e l’elemento dell’ebbrezza, e quindi presuppone la dimensione fisiologica; dall’altro, esso ò rango e decisione, necessari per porre misure e valori nuovi per realizzare il contromovimento. L’arte come grande stile ò la semplice calma che domina, conservandola, la somma pienezza della vita e riconduce ad unità  gli opposti. Così questa estetica viene portata oltre se stessa: gli stati artistici sono colti in modo estremo, là  dove massimamente si distaccano dallo spirito, nella dimensione fisiologica Associando il grande stile al gusto classico, N. non intende riferirsi al classicismo, che egli associa alla mancanza di contrasti, alla povertà  interiore. Il classico, più che a un’epoca dell’arte, ò una struttura dell’esistenza, la cui condizione fondamentale ò costituita dal dominio della legge sul caos, che si compie all’insegna di una originaria libertà . Nelle riflessioni di N. che cercano di fissare la differenza tra classico e romantico, si può definire l’essenza dell’arte di grande stile e coglierne la dimensione formatrice e creativa. Riferendosi ai concetti di classico e romantico, N. non pensa all’arte intorno al 1800, ma all’arte di Wagner e alla tragedia greca. Nel “classico”, ciò che crea ò la pienezza e la sovrabbondanza; nel “romantico”, ò invece l’insufficienza, la mancanza. Il primo ò “attivo”, il secondo “reattivo”. Tale distinzione di attivo e reattivo si interseca con un’altra, quella di essere e divenire, che tuttavia non manca di ambiguità . Così, ad es., l’esigenza di divenire – di divenire altro, e quindi di distruzione – può essere sia espressione di “forza stracolma e gravida di futuro”, come nell’arte dionisiaca, ma può appartenere anche all’insoddisfazione e all’odio. Analogamente, l’esigenza di essere può derivare sia dalla pienezza che dalla sofferenza, come nel “pessimismo romantico” di Wagner. Il classico ò desiderio di essere che proviene dalla pienezza, e in questo senso “stile classico” e “grande stile” paiono coincidere. Quest’ultimo, però, come essenza vera e propria dell’arte, rinvia ad una unità  più originaria di attivo e reattivo e di essere e divenire. Da questo punto di vista, dall’essenza dell’arte come grande stile, si chiarisce la posizione metafisica di fondo di N.: il grande stile ò il sentimento sommo della potenza, e la potenza ò il dominio della calma che conserva e trasfigura gli opposti. La fondazione delle cinque tesi sull’arte Dall’essenza dell’arte può scaturire la fondazione delle cinque tesi fornulate in precedenza. La prima tesi dice che l’arte ò la forma più nota e più trasparente della volontà  di potenza. Questa tesi si può chiarire nel modo seguente. L’arte ò la forma a noi più nota poichò ò uno stato dell’uomo, dunque di noi stessi, e questo ha la sua fondazione nella concezione del modo secondo cui ò data la dimensione in cui, dal punto di vista estetico, l’arte ò reale; ossia, nell’ebbrezza della vita fisiologica del corpo. Dal momento che l’arte ha il proprio fondamento nello stato estetico, e questo ò concepito in termini fisiologici, essa ò la dimensione nella quale l’ente diventa per noi più perscrutabile. La seconda tesi, che dice che l’arte deve essere concepita dalla prospettiva dell’artista, si dimostra considerando che solo nell’attività  produttrice dell’artista diviene reale la creazione dell’arte. Da questa posizione ò garantito l’accesso al creare in generale, e quindi alla volontà  di potenza. La terza tesi dice che l’arte ò l’accadere fondamentale nell’ente nel suo insieme. Questa tesi, insieme alla quarta, che dice che l’arte ò il contromovimento che si oppone al nichilismo, può essere fondata soltanto a partire dalla quinta tesi. E’ solo partendo da quest’ultima, che dice che l’arte vale più della verità  – e quindi conferisce alla prima un primato unico – che si può stabilire che l’arte ò l’accadere fondamentale. Per fondare questa tesi occorre rispondere alla domanda preliminare della filosofia, sull’essenza della verità . La discrepanza, che suscita sgomento, tra arte e verità  Secondo N., in un appunto del 1888, il rapporto tra arte e verità  ò una discrepanza che suscita sgomento: “Il rapporto dell’arte con la verità  ò stata la prima cosa che mi ha impensierito: e ancora adesso sto, con un sacro sgomento, dinanzi a questa discrepanza”. Per vedere in quale misura l’arte entra in rapporto con la verità , bisogna dire in modo più chiaro di quanto si sia fatto finora che cosa intende Nietzsche con questo termine. Diventa necessario a questo punto procedere a un chiarimento preliminare sul concetto di verità . Va sottolineato che: 1) la necessità  del chiarimento trova la sua ragione nella velatezza dell’essenza delle parole fondamentali come verità , bellezza, essere, conoscenza. La stessa esistenza umana ò espressamente rinviata ai riferimenti nominati in tali concetti. Il termine “verità “, come tutte le parole fondamentali, ha diversi significati, fra loro connessi storicamente e necessariamente. Esso ò dunque storico, sia nel senso che i significati sono diversi da epoca a epoca, sia che ò fondatore di storia, a seconda dell’interpretazione che diviene dominante. 2) Vi sono due linee capitali entro le quali i significati di tali parole oscillano: la linea essenziale e la linea distolta dall’essenza. Il termine “verità ” può riferirsi alla prima, quando denomina l’essenza del vero, e in tal caso la verità  ò una soltanto, o all’altra, quando si riferisce a un certo particolare vero, e allora ammette il plurale. Si ritiene abitualmente che nel primo caso si denomini l’universale, nel secondo i casi particolari che cadono sotto di esso. Senonchò questa ò una semplificazione che, portando a identificare l’essenza come qualcosa di immutabile, ne misconosce il carattere storico. L’unità  dell’essenza può essere pensata tuttavia anche attraverso il mutamento: infatti ciò che ò mutato può diventare quell’Uno che vale per i molti; ciò che si mantiene ò l’elemento immutabile che ò durevolmente presente nel suo mutamento. Ora, per quanto riguarda N., la parola “verità ” si muove lungo la linea distolta dall’essenza. Ciò vuol dire che N. non pone la questione autentica dell’essenza del vero, e quindi della necessaria possibilità  del mutamento della sua essenza e non sviluppa nemmeno l’ambito di questa questione. Tale omissione peraltro riguarda l’intera storia della filosofia occidentale. Ma che cosa ò il vero, ciò che soddisfa l’essenza della verità ? Il vero ò il vero ente, ciò che ò in verità  reale; questo vuol dire: ciò che ò conosciuto, soltanto nella conocenza, infatti, il vero viene fissato come tale. E conoscere ò sempre un’adeguazione alla cosa, “un commisurarsi con”.., per cui ò insito nel vero il riferimento a un qualche parametro. Ma per chiarire meglio l’essenza del conoscere descriviamo, nei suoi tratti capitali, due specie fondamentali di conoscenza: la concezione del platonismo e quella positivista. La verità  nel platonismo e nel positivismo. Il tentativo nietzscheano di rovesciare il platonismo in base all’esperienza fondamentale del nichilismo Nel platonismo il conoscere ò un’adeguazione all’ idea, intesa come realtà  soprasensibile; ò un commisurarsi ad esso, rappresentandolo. Alla base di tale concezione c’ò una determi

  • Filosofia

Ti potrebbe interessare

Link copiato negli appunti