Umberto Saba: biografia, poetica e poesie - Studentville

Umberto Saba

Vita e opere di Umberto Saba e commento ad alcune poesie.

“Esser uomo fra gli umani / io non so più dolce cosa”

Le poesie:

  1. La Capra (1911) (dalla sezione “Casa e campagna”)
  2. Dopo La Tristezza (1911) (dalla sezione “Trieste e una donna”)
  3. A mia moglie (1909) (dalla sezione “Casa e campagna”)
  4. Trieste (1910)  (dalla sezione “Trieste e una donna”)
  5. Città vecchia (1912)(dalla sezione “Trieste e una donna”)
  6. La ritirata di Piazza Aldrovandi a Bologna (1914) (dalla sezione “La serena disperazione”)

Saba: biografia

Umberto Saba nasce a Trieste nel 1883 da Rachele Coen (ebrea) e Ugo Poli (cattolico). Il matrimonio fra i genitori si spezza ancor prima della nascita del poeta, che conoscerà il padre solo vent’anni dopo, nel 1905.
Quando all’età di tre anni viene riportato in famiglia, è costretto ad affrontare una situazione tutt’altro che lieta: nella separazione dalla balia, nell’assenza del padre, nel carattere della madre, donna amareggiata e piena di rancore verso il marito, dura e poco espansiva con il figlio, vanno rintracciate le cause della crisi di angoscia destinate ad angustiarlo, con varia intensità, per tutta la vita.

La sua carriera scolastica è piuttosto breve: frequenta il ginnasio e, soltanto per pochi mesi, l’Accademia di Commercio, abbandonata quasi subito per la necessità di trovare un lavoro (si impiega presso una casa di commercio triestina).
Parallelamente affronta la lettura dei classici, Leopardi prima di tutti, Parini lirico, Foscolo, Petrarca, Manzoni. Nel 1905 si trasferisce a Firenze, per prendere contatto con gli ambienti intellettuali e letterari di questa città, riscattandosi dal ritardo culturale che gli deriva dalla sua condizione di periferico.

A Firenze ha contatti con il gruppo della rivista “La Voce”, dai quali non fu mai veramente compreso, giudicato arretrato e passatista.
Nel 1909 sposa Carolina Wölfer (la Lina del Canzoniere) e due anni più tardi pubblica, a sue spese,  il suo primo volume di versi, Poesie, che riceve un’accoglienza critica e piuttosto fredda, soprattutto dagli intellettuali vociani.
Nel settembre 1913, nel teatro “Fenice” di Trieste, viene rappresentato per la prima ed ultima volta, con clamoroso insuccesso, il dramma in un atto Il letterato Vincenzo, unico e modesto testo teatrale sabiano a noi pervenuto.

Dopo la prima guerra mondiale, cui prende parte ricoprendo ruoli amministrativi e di retroguardia, rileva a Trieste una vecchia libreria antiquaria, alla quale si dedicherà con impegno ed entusiasmo per gran parte della sua vita.
L’introduzione delle leggi razziali in Italia (1938) segna un brusco cambiamento nella vita del poeta, prima costretto a cedere almeno formalmente la gestione della libreria, poi, dopo l’8 settembre 1943, a fuggire con la famiglia da Trieste e a vivere nella clandestinità. Per circa un anno trova rifugio a Firenze, dove può contare sull’appoggio ed il conforto di pochi e fidati amici, prima fra tutti Eugenio Montale, che sfidando il pericolo, va a fargli visita quasi tutti i giorni.

Dopo la fine della guerra nel clima di ritrovata fiducia, si trasferisce a Roma dove trascorre forse i mesi più felici della sua vita, circondato dal calore e dalla stima di tanti intellettuali e scrittori.
Negli anni della vecchiaia, l’acuirsi di crisi depressive lo allontanerà per sempre da quello che ormai gli appare come un “nero antro funesto”.
Morirà in una clinica di Gorizia nel 1957.

Dal punto di vista storico, l’Italia si trova in un momento di grande fermento politico: la lotta politica, dopo la Grande Guerra, è viva ed intensa, in particolare tra socialisti e popolari, ma, successivamente, la nascita dei partiti comunista e fascista dominerà l’intera scena.
Dopo la prima guerra mondiale, infatti, i partiti fino ad ora estranei alla tradizione dello Stato liberale saranno favoriti, per una generale sfiducia nelle strutture politiche che erano intervenute nel conflitto mondiale, contro l’orientamento delle masse popolari.

Molti furono gli episodi di tensione in questo clima: la nascita dei Fasci di combattimento nel 1919, il mito della cosiddetta “vittoria mutilata” e l’impresa di Fiume nello stesso anno, i moti contro il “caro-viveri”, i frequenti scioperi e le agitazioni agrarie, i contrasti del movimento operaio e la nascita del Pci, fino all’affermazione del fascismo agrario e dello squadrismo, e alla nascita del Partito Nazionale Fascista, che, con il suo conseguente successo darà vita al regime.

Umberto Saba: contesto storico

La cultura italiana risentiva della forte influenza dannunziana, ma molto interessanti sono anche i nuovi movimenti, come quelli che diedero vita a numerose riviste (La Ronda, Il Baretti, Strapaese, Stracittà, Solaria), e quelli stranieri dell’espressionismo, del dadaismo e del surrealismo.
Altri importanti movimenti poetici, contemporanei a Saba, sono quello crepuscolare, futurista ed ermetico.

E’ molto difficile, però, inquadrare Saba in un preciso filone o movimento letterario: egli stesso sottolinea, nella sua autobiografia in versi, il suo distacco nei confronti della cultura e della letteratura a lui contemporanee (Gabriele D’Annunzio alla Versiglia/ vidi e conobbi; all’ospite fu assai/ egli cortese, altro per me non fece./ A Giovanni Papini, alla famiglia/ che fu poi della Voce, io appena o mai/ non piacqui. Era fra lor di un’altra specie.)
Saba, dunque, si estrania dai due movimenti letterari e culturali che dominarono gli anni della sua formazione: la poesia dannunziana e le esperienze delle riviste, con intellettuali come Papini e Prezzolini .

Il suo isolamento persisterà anche dopo la Grande Guerra, rifiutando i movimenti della “Ronda”, del novecentismo, dell’ermetismo, e del frammentarismo.
Ma “proprio per la sua naturale incapacità di adattamento ha finito così con l’essere forse il poeta più tipico, se non più rappresentativo di questo periodo” (Pasolini).

Umberto Saba: La poesia onesta

In un articolo del 1912, Quello che resta da fare ai poeti (che inviato a “La Voce”, non viene pubblicato), Saba ha fissato i canoni fondamentali della sua poetica. Già nell’esordio dichiara perentoriamente che “ai poeti resta da fare la poesia onesta”, prendendo così le distanze da alcune tendenze dominanti nella letteratura italiana di quegli anni: l’estetismo e il superomismo dannunziano, la furia eversiva e modernistica dei futuristi, le perplessità dei crepuscolari. Per poesia “onesta”, rappresentata emblematicamente dagli Inni Sacri e dai Cori dell’Adelchi del Manzoni, Saba intende una poesia capace di “non sforzare mai l’ispirazione”, una poesia autentica, strumento di scavo per superare le ambiguità e le doppiezze dell’apparenza e arrivare al nocciolo delle cose e dei sentimenti. Questo concetto di poesia come mezzo di conoscenza non ha nulla a che vedere con la concezione misticheggiante dei simbolisti e degli ermetici, che attribuiscono alla parola poetica il compito quasi magico di far luce sul mistero di una realtà in conoscibile dal punto di vista razionale. Scriverà limpidamente Saba in Scorciatoie e raccontini: ‹‹Non esiste un mistero della vita, o del mondo o dell’universo. Tutti noi, in quanto nati dalla vita, facenti parte della vita, sappiamo tutto, come anche l’animale e la pianta. Ma lo sappiamo in profondità. Le difficoltà incominciano quando si tratta di portare il nostro sapere organico alla coscienza››.
La “poesia onesta” si contrappone alla “poesia disonesta”, quella che è ricerca del bello anche a danno del vero, è compiacimento estetico, è in poche parole quella di D’Annunzio, che è “letterato di professione”, celeberrimo ed ammiratissimo,  e per questo più attento al successo che alla ricerca della verità.

La poesia di Saba e la psicanalisi

La sua poesia, come quella di molti grandi autori del Novecento, risente, inoltre, di un notevole influsso della psicoanalisi. Egli, infatti, venuto a contatto con trattamenti psicoanalitici per il suo caso di nevrastenia, studia la scienza approfonditamente e con grande interesse.
Ora la sua poesia mira, grazie a questo apprendimento, ad analizzare piuttosto che a descrivere.
“Ciò che egli derivò dai suoi “buoni maestri” (così chiamò Nietzsche e Freud) non fu, come per tanti altri, un freudismo e un niccianismo spicciolo, ma, prima di tutto, una lezione di stoica “implacabilità nella dirittura, la dirittura fino quasi al sadismo”, cioè al rafforzamento della sua tendenza a una ricerca spietata di verità, per capire l’essere “vero” del mondo e il senso profondo della sua storia e di sé”.

La psicoanalisi non gli servì, dunque, solo a guarire, ma anche a comporre con una più chiara coscienza di sé, degli altri, della realtà e della storia.
In particolare, sono gli elementi di eros e thanatos, appresi dalla psicoanalisi, ad influenzare la sua produzione: l’eros, desiderio di vita, e il thanatos, impulso di morte, si fondono l’un l’altro, divenendo un binomio fondamentale.
Ma questo binomio non vale solo per la personale esperienza e sensibilità del poeta, ma può essere rintracciato in qualunque esperienza quotidiana sua e di tutti.
Nelle sue poesie, infatti, sono sempre presenti componenti di malinconia e di tristezza, che, però, vengono bilanciate dal suo amore per la sua città, la sua gente, dal suo incanto per la vita, seppur dolorosa.

La sua è “un’adesione totale alla vita scoperta come dominata dal dolore, dalla frustrazione, dalla morte e senza una meta vera, ma dotata di un fascino invincibile”.
Strettamente collegato a questo elemento vi è la totale accettazione della vita e della condizione umana.
Infatti, come poteva egli, affascinatone com’era, detestare la vita?
“Saba ha amato gli uomini, la natura, le cose, e la sua lirica è tutta folta di immagini luminose e gioiose. Ma al fondo vi è, sempre più con gli anni, un sapore di amaro, o, a dire meglio, un ambiguo sapore in cui disperazione e consolazione, solitudine e amore degli altri si intrecciano in nodi indissolubili”.
Per questo egli si affianca agli uomini con grande umanità: “egli persegue un suo istintivo moralismo che cerca la risonanza, la comunicazione umana” , nel desiderio, come afferma lui stesso di “vivere la vita di tutti, d’esser come tutti gli uomini di tutti i giorni”.

Ma la sua celebrazione delle “piccole cose” è ben diversa da quella pascoliana: mentre Pascoli, per l’azione del fanciullino, tendeva ad attribuire grandi valori alle piccole cose, Saba comprende che solo l’accettazione delle cose “quali esse sono” permette di vincere la disperazione.

Umberto Saba: il linguaggio poetico

Il linguaggio utilizzato da Saba è un linguaggio discorsivo e quasi colloquiale, seppur illuminato dalla grande cultura e conoscenza dei classici.
Egli si vantò di essere ‹‹il poeta più chiaro del mondo›› e tese ad eliminare il lessico aulico, cercando al suo posto versi ‹‹mediocri e immortali››.
Le parole venivano scelte per la loro concretezza, non per la loro musicalità o suggestione: c’è in Saba una profonda avversione per le complicazioni intellettualistiche, gli sperimentalismi formali, gli artifici letterari, le menzogne, gli autoinganni, l’incapacità di accettare la vita nella sua elementare chiarezza.

E’ ancora Saba a definirsi “il poeta meno rivoluzionario che ci sia”. Il fatto è che la vera rivoluzione, a suo giudizio, si realizza nella conquista di una verità profonda; una conquista difficile che deve combattere anche contro la tentazione del preziosismo formale, per evitare che tradisca l’autenticità dell’ispirazione.

Saba: il Canzoniere

L’opera fondamentale di Saba è il “Canzoniere”, un volume pubblicato nel 1921, che raccoglie tutta la sua produzione precedente. Esso è diviso in sezioni, corrispondenti alle primitive raccolte e a tutte quelle che egli vi aggiunse nelle successive edizioni.
Chiaro è il riferimento al Petrarca, a cui Saba stesso afferma di essersi ispirato, confermando, ancora una volta, la sua opposizione alla letteratura a lui contemporanea.
Successivamente, nel 1948, venne pubblicato “Storia e cronistoria del Canzoniere”, in cui egli spiega e commenta la sua opera principale.

La Capra (1911) (dalla sezione “Casa e campagna”)

Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

Nella lirica c’è un paragone uomo-animale: la capra ha una connotazione negativa, è compagna di dolore del poeta.
Come lui, infatti, la capra è consapevole della sofferenza della vita e, per questo, si tormenta.
Quasi si può dire che Saba instauri un “senso di comunione cosmica che è dato dal dolore di tutte le creature”.
La capra, inoltre, presenta caratteristiche che la possono far risalire ad un ebreo (viso semita): Saba, come è noto, ha origini ebraiche e ciò spiega per quale motivo egli prenda come esempio ‹‹ il popolo più perseguitato dalla storia››.

Il primo verso ha un tono favolistico, ma poi, dal v. 5 in poi, tra il poeta e l’animale si stabilisce un colloquio, “grazie a quella lingua universale che è il dolore”.
Al v. 2, “sazia d’erba” vuole forse indicare un “taedium vitae”, piuttosto che il soddisfacimento della fame.
Inizialmente il poeta risponde alla capra incredulo, quasi per scherzo (per celia), ma poi riconosce un accento inconfondibile in quel belato: il dolore.
La ripetizione di alcune parole (dolore, voce, capra) serve per dare alla poesia un tono quasi solenne.

Dopo La Tristezza (1911) (dalla sezione “Trieste e una donna”)

Questo pane ha il sapore d’un ricordo,
mangiato in questa povera osteria,
dov’è più abbandonato e ingombro il porto.
E della birra mi godo l’amaro,
seduto del ritorno a mezza via,
in faccia ai monti annuvolati e al faro.
L’anima mia che una sua pena ha vinta,
con occhi nuovi nell’antica sera
guarda un pilota con la moglie incinta;
e un bastimento, di che il vecchio legno
luccica al sole, e con la ciminiera
lunga quanto i due alberi, è un disegno
fanciullesco, che ho fatto or son vent’anni.
E chi mi avrebbe detto la mia vita
così bella, con tanti dolci affanni,
e tanta beatitudine romita!

In un’osteria vicino al porto, mangiando dell’umile pane, il poeta osserva ciò che gli è intorno.
Egli ha appena vinto una pena e, dunque, può guardare queste cose serenamente, ‹‹con occhi nuovi››.
‹‹In questa sera il poeta non vede nulla di diverso da quello che ha visto in tutte le altre sere della sua vita, nella sua città, e per questo si tratta per lui di una serata “antica”, ma diverso è ora il suo stato d’animo che gli fa guardare tutto con “occhi nuovi”››.

Ricorre nella poesia il tema del ricordo (‹‹questo pane ha il sapore d’un ricordo›› ‹‹un disegno fanciullesco che ho fatto or son vent’anni››), il passato e il presente si intrecciano.
Il parco pranzo e la visone del porto dimostrano la celebrazione del quotidiano caratteristica dell’autore.
Gli ultimi tre versi mostrano la già citata accettazione della vita del poeta, che unisce termini contrastanti: i “dolci affanni” e la “beatitudine romita” non gli impediscono di affermare che la sua vita è “così bella”.
Questa lirica non ebbe un grande successo, anche se l’autore la considerava una delle sue migliori: proprio per questo il poeta scrive: ‹‹Saba tanto meno piaceva quanto più era Saba››.

A mia moglie (1909) (dalla sezione “Casa e campagna”)

Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio,
Così, se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.

Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la tua carne.
se l’incontri e muggire
l’odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l’erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t’offro quando sei triste.

Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d’un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.

Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l’angusta
gabbia ritta al vederti
s’alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?

Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.

Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.

Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l’accompagna.

E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna.

La poesia chiude il volumetto Poesie del 1911 e fu inserito nel 1921 nella sezione “Casa e campagna” del Canzoniere. La singolarità del testo si esprime nel sincero paragone che il poeta instaura tra la moglie ed alcuni animali domestici e della campagna. La serie di paragoni è inusitata, ma descrive limpida e spontanea la commozione del poeta di fronte alla purezza della moglie. Ne evidenzia i tratti più semplici, elementari, naturali ed istintivi proprio attraverso il paragone con gli animali della campagna più vicini a lui. L’amore del poeta è adesione totale all’esistenza, è intima comunione con la natura.

Scrive lo stesso Saba in un commento tratto da Storia e cronistoria del Canzoniere (1948): “La poesia fa pensare ad un improvviso ritorno all’infanzia; un ritorno che non esclude la contemporanea presenza dell’uomo. Il poeta, come il fanciullo, ama gli animali che, per la semplicità e nudità della loro vita, ben più degli uomini, obbligati da necessità sociali e continui infingimenti, “avvicinano a Dio”, alle verità che si possono leggere nel libro aperto della creazione. Un giorno, e fu un bel giorno, Saba deve aver sentito, con acuta gioia e tenera commozione, le identità che correvano fra la giovane donna che gli viveva accanto e gli animali della campagna dove egli abitava. Il poeta ritrova la sua donna nella giovane e bianca pollastra, nella gravida giovenca, nella lunga cagna, nella pavida coniglia, nella rondine, nella provvida formica, come “in nessun altra donna””.

In essa emergono con evidenza le caratteristiche, di stile e di contenuto, peculiari del Saba: la chiarezza e la semplicità del verso, che ricordano la spontaneità di un intimo dialogo; il riferimento ad eventi, cose e personaggi della vita comune e quotidiana; la musicalità del verso; l’abilità del Saba nel comporre la sua poesia “onesta”,  priva di complicazioni intellettualistiche e di sperimentalismi formali, semplicemente limpida, tutta tesa alla rappresentazione della realtà nella sua naturale chiarezza.

Trieste (1910)  (dalla sezione “Trieste e una donna”)

Ho attraversata tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

La poesia fu scritta all’indomani della grave crisi coniugale che l’aveva condotto alla momentanea separazione dalla moglie Lina. In essa il poeta canta l’amore per la sua città, per la “scontrosa grazia”, evidenziandone la sua continua conflittualità: “come un ragazzaccio aspro e vorace”, “come un amore con gelosia”. In particolare “con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore”, che pare sottolineare l’indelicatezza di Trieste “popolosa” di fronte alla personalità pensosa e schiva del poeta. Tuttavia dopo una lunga fuga, che lo spinge ad attraversare tutta la città, il poeta ritrova il suo cantuccio, che pare termini dove termina la città. Ancora una volta il linguaggio è semplice e carico di significato; rispetta le pause e il suono del silenzio, è la limpida espressione della sua contemplazione interiore.

Città vecchia (1912)(dalla sezione “Trieste e una donna”)

Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.
Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il  Signore.
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.

Sulla poesia il poeta scrive ”Città vecchia è una delle poesie più intense e rivelatrici di Saba. Forte è in lui il bisogno innato di fondere la sua vita a quella delle creature più umili ed oscure”. Perduto nei vicoli e violetti di città vecchia (così è detta la parte più antica della città), il poeta trova “l’infinito nell’umiltà”. La folla in essi rigurgitante gli ispira pensieri di religiosa adesione.
Città vecchia, ispirata da una viva simpatia umana per un mondo umile, quotidiano, “minore”, si collega quindi tematicamente ad una lirica successiva, Il borgo, in cui il poeta esprime il suo desiderio di aderire alla “vita di tutti gli uomini di tutti i giorni”. È dunque un sentimento di comunione con la totalità della vita, che lo spinge a cercare nelle persone più umili la più profonda verità.

La ritirata di Piazza Aldrovandi a Bologna (1914) (dalla sezione “La serena disperazione”)

Piazza Aldrovandi e la sera d’ottobre
hanno sposate le bellezze loro;
ed è felice l’occhio che le scopre.
L’allegra ragazzaglia urge e schiamazza
che i bersaglieri colle trombe d’oro
formano il cerchio in mezzo della piazza.
Io li guardo. Dai monti alla pianura
pingue, ed a quella ove nell’aria è il male,
convengono a una sola vita dura,
a un solo malcontento, a un solo tu:
or quivi a un cenno del lor caporale
gonfian le gote in fior di gioventù.
La canzonetta per l’innamorata,
un’altra che le coppie in danza scaglia,
e poi, correndo già, la ritirata.
E tu sei tutta in questa piazza, o Italia.

In questo scorcio di piazza che il poeta osserva, si possono rintracciare sia il suo costante amore verso tutti, sia, più concretamente, la sua posizione anti-militarista.
Nella piazza, che accomuna la sua bellezza a quella della sera di ottobre, ci sono i bersaglieri, pronti a suonare la ritirata con le loro “trombe d’oro”.
Dopo essersi soffermato sulla loro dura vita, Saba li mostra mentre suonano canzoni popolari, prima di intonare la ritirata.
Il poeta dimostra come, secondo lui, l’Italia sia “tutta in questa piazza”: un’Italia dedita ad una vita semplice, popolana, che si allieta con la banda e con ragazzi che schiamazzano nella piazza.
La vita militare non è fatta per l’Italia.
Lo benevolenza del poeta include tutto:le bellezze della piazza e della serata, i ragazzi chiassosi, i bersaglieri e la loro vita.

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