Herbert Marcuse - Studentville

Herbert Marcuse

Pensiero e vita del filosofo.

Introduzione al pensiero Tra i pensatori legati alla scuola di Francoforte, chi più utilizzò le riflessioni di Freud sulla civiltà  fu Herbert Marcuse (1898-1979). Nato a Berlino il 19 luglio 1898 da ricca famiglia ebrea, si laureò nel 1921 a Friburgo. Nell’intero arco evolutivo dell’opera di Marcuse occorre anzitutto ricordare la sua ottima e vastissima preparazione di germanista, e il lavoro monumentale pubblicato a 24 anni come dissertazione di dottorato, Il Romanzo dell’artista nella letteratura tedesca (Der Deutsche Kà¼nstlerroman), che in quasi cinquecento pagine ripercorre questo genere letterario dall’epoca romantica, a fine Settecento, a Thomas Mann; un’opera in cui ò visibile l’influenza hegeliana, anche attraverso l’interpretazione di Già¶rgy Lukà cs. A Friburgo, dove si era laureato, tornò nel 1929 per studiare con Husserl e Heidegger, il risultato di questo periodo ò L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità , pubblicato nel 1932. Nello stesso anno, per tensioni con Heidegger, che si stava sempre più avvicinando al movimento nazionalsocialista, Marcuse lasciò Friburgo e divenne membro dell’Istituto di Francoforte ma poco dopo, con l’avvento del regime nazista, dovette abbandonare la Germania ed emigrare negli Stati Uniti. Qui per vari anni, sino al 1950, fu impegnato a lavorare per il Dipartimento di Stato americano, dal 1951 al 1954 fu anche incaricato di svolgere una ricerca sull’Unione Sovietica conclusa con la pubblicazione di Marxismo sovietico (1958). Nel frattempo, Marcuse aveva già  pubblicato in inglese un nuovo studio su Hegel, Ragione e Rivoluzione (1941), e ne 1951 era diventato professore alla Brandeis University. Inizia allora la pubblicazione delle sue opere più note, Eros e civiltà . Un’indagine filosofica in Freud (1955), e L’uomo a una dimensione. Studi sull’ideologia della società  industriale avanzata (1964), che diventeranno testi canonici durante gli anni della contestazione studentesca negli Stati Uniti e in Europa. Nominato professore all’università  di San Diego, in California, nel 1965, contribuì alle lotte e alle discussioni nate nel movimento degli studenti con altri scritti, quali la Critica della pura tolleranza (1965), un’intervista dal titolo La fine dell’utopia (1967), e il Saggio sulla liberazione (1969). Tra gli anni Trenta e i Quaranta – dopo che Marcuse divenne membro, nel ’32, dell'”Istituto per la ricerca sociale” di Horkheimer e Adorno – pubblicò sulla “Zeitschrift fà¼r Sozialforschung” una serie pregevoli saggi in cui rielaborava alcune categorie fondamentali del marxismo ( come ad es. il lavoro) sotto una angolazione esistenziale heideggeriana, e andava anche rivedendo, alla luce di questa filosofia politica, concetti fondamentali della tradizione filosofica e ideologica occidentale, dall’edonismo antico al liberalismo moderno. Su Hegel tornerà  poi nel 1941, con Ragione e rivoluzione, un’opera in cui tutto il pensiero hegeliano viene interpretato in chiave “negativa”, vale a dire in opposizione alle dittature nazifasciste che stavano devastando l’Europa. Poi l’incontro con la metapsicologia di Freud. Quel che Hegel aveva rappresentato per Marcuse sul piano più rigorosamente teoretico, rimanendo per lui un modello filosofico permanente, un ineguagliato culmine del pensiero speculativo e della comprensione dialettica della logica, della storia e dell’estetica, divenne, a partire dagli anni Cinquanta, per il nostro filosofo, Freud sul piano dei meccanismi psicologico-sociali e della genesi istintuale profonda della civiltà . Risultato di questo nuovo grande influsso ò Eros e civiltà , del 1955, un’opera veramente rivoluzionaria, forse il capolavoro di Marcuse, in cui per la prima volta egli formula una proposta positiva, di società  “liberata” dai meccanismi della repressione sociale che Freud considerava inevitabili per la costruzione di una civiltà , e quindi ormai irreversibili: l’impegno di Marcuse sta qui tutto nel dimostrare, al contrario, che la rinuncia degli istinti non sarebbe affatto indispensabile per la vita familiare, per il lavoro, per le istituzioni fondamentali della vita associata. A testimoniare poi quanto fosse critica la sua fedeltà  al marxismo sta Il marxismo sovietico, del 1958, in cui il filosofo svolge una linea di pensiero sottile, difficile, ma nitida e trasparente: dimostrare come il comunismo sovietico può essere criticato a partire dallo stesso marxismo, e come, facendo leva su quanto rimaneva di quest’ultimo nell’ideologia e nella società  sovietica, si poteva compiere una sorta di “rivoluzione interna” al cosiddetto “socialismo reale”. Un’ipotesi purtroppo fuori dalla storia e dalla concretezza, ma suggestiva e significativa degli orientamenti ideologici e politici di un uomo che potremmo chiamare il “padre di tutti i dissensi” antiautoritari, il filosofo che non ha mai smesso di contestare, a Ovest come a Est, i regimi che si autodefinivano “democrazie” – in tutti i sensi possibili – e dicevano ispirarsi alla tolleranza (una tolleranza a cui egli aggiunse polemicamente l’aggettivo di “repressiva”). La prima fase dell’attività  filosofica di Marcuse ò caratterizzata dall’influenza congiunta sul suo pensiero da Heidegger e Marx. Ai suoi occhi Essere e tempo aveva mostrato la radicale storicità  dell’esistenza umana e posto il problema della sua autenticità  in termini di decisione, ossia di prassi. Tale progetto, tuttavia, era fallito perchè non aveva identificato la decisione con la rivoluzione, in quanto atto mirante a rendere universale l’autenticità , e quindi non aveva riconosciuto il vero agente di questo processo storico nel proletariato. Qui diventava allora necessario rifarsi al marxismo, che tuttavia (e in questo Marcuse si mostrava in sintonia con Lukà cs) doveva abbandonare la tesi della priorità  della struttura e la pretesa di applicare la dialettica anche alla natura, e non soltanto alla storia. I materiali per la costruzione di una nuova antropologia storica erano forniti a Marcuse soprattutto dai Manoscritti del 1844 di Marx, nei quali il lavoro non alienato era presentato come il mezzo con cui l’uomo realizza la propria essenza. Il lavoro era per Marcuse, in questa fase, diversamente da quanto pensavano i francofortesi, lo specifico modo di essere dell’esistenza umana nel mondo. Nel saggio pubblicato sulla rivista dell’Istituto, intitolata Sul carattere affermativo della cultura (1937), egli sosteneva che il tratto specifico della cultura borghese consiste nel fare dello spirito del mondo autonomo di valori, superiore e separato dai bisogni e dai piaceri materiali, realizzabile senza dover intaccare in alcun modo la realtà  esistente. In tal modo la felicità  ò tenuta lontano dalla realtà  quotidiana e riposta nell’ascetismo e nella liberazione dal piano sensibile, inclusa la sessualità , dipende dal fatto che la società  deve disciplinare e tenere a freno masse insoddisfatte, potenzialmente eversive. La mancanza di felicità , ò dunque, soltanto il risultato di un’organizzazione sociale irrazionale. In un altro saggio, pubblicato sulla stessa rivista nel 1938, intitolato Per la critica dell’edonismo, Marcuse insiste sul tema della felicità  personale e ne sottolinea l’incompatibilità  con il lavoro, come testimonia l’esistenza stessa del proletariato: nella condizione storica attuale la felicità  ò irraggiungibile, ma questa società  non ò eterna. L’ edonismo tradizionale, per esempio quello epicureo, con la sua rivendicazione del piacere, contiene un’istanza critica contro di essa, ma privilegiando il punto di vista dell’individuo isolato, non ò in grado di tradursi in un progetto di trasformazione dei materiali di esistenza (il tema dell’epicureismo e della sua ricerca della felicità  individuale, ò bene ricordarlo, era già  stato trattato da Marx nella sua dissertazione dottorale). Questo obbiettivo può essere raggiunto soltanto attraverso la prassi, fondata su una teoria critica che mette il luce, anche attraverso l’immaginazione e l’utopia, l’inadeguatezza della realtà  esistente rispetto alla razionalità . Giunto negli Stati Uniti, Marcuse si trova a dover compiere nei confronti di Hegel un’operazione analoga a quella compiuta da Lukà cs nell’Unione Sovietica: si tratta di liberare Hegel dalla taccia di capostipite del nazismo e dell’irrazionalismo. A questo Marcuse provvede con l’opera Ragione e Rivoluzione, che già  nel titolo mette in rilievo il carattere rivoluzionario, non conservatore, della ragione hegeliana, la quale, contrariamente al positivismo, non si adagia mai nel culto del fatto compiuto ma contiene sempre una spinta critica e negativa. Per essa, infatti, i singoli fenomeni storici possono essere compresi solo in quanto facenti parte di una totalità  e dal punto di vista della loro trasformazione che ne conserva le contraddizioni su questo punto, come sulla valutazione positiva del lavoro, appare chiara la continuità  tra Hegel e Marx. Marcuse, tuttavia condivide con Horkheimer e Adorno un certo pessimismo sulle connessioni tra progresso tecnologico ed emancipazione umana e, quindi, sul socialismo come sviluppo e, insieme dissoluzione del capitalismo. La realtà  sovietica, come egli cerca di documentare in Marxismo sovietico, sembra anzi mostrare che al mutamento dei rapporti di produzione e all’incremento dei processi produttivi ò corrisposto il venir meno della coscienza rivoluzionaria e l’instaurarsi di una morale repressiva. Da questo punto vista, il socialismo reale non ò altro che un’espressione accanto al capitalismo, dei caratteri repressivi della società  industriale avanzata. Per comprendere i caratteri di questa repressione, Marcuse ritiene necessario, in Eros e civiltà , riconsiderare la teoria freudiana del costituirsi della civiltà , in polemica con i neofreudiani, in particolare con Fromm, e con la loro terapia delle nevrosi in termini di adattamento alla società  esistente. Per Freud, la civiltà  inizia quando l’umanità  per sopravvivere, rinuncia la soddisfacimento immediato delle proprie pulsioni e sostituisce al principio di piacere il principio di realtà . La civiltà  comporta, dunque, necessariamente il differimento dei piaceri e la repressione degli istinti: la società  impone una modificazione nella struttura degli istinti stessi, in quanto non ha i mezzi sufficienti per mantenere in vita i suoi membri se non imponendo ad essi il lavoro e dirottando le loro energie dall’attività  sessuale per farle convergere sul lavoro. La domanda di Marcuse ò se tale repressione sia un fatto costitutivo e ineliminabile della civiltà  umana oppure sia un fenomeno storico e, quindi, rinnovabile. Secondo Marcuse, la scarsità  di beni necessari a soddisfare i bisogni umani non ò un fatto naturale, ma la conseguenza di una specifica organizzazione sociale della scarsità  ossia di una distribuzione iniqua di essa o dei beni destinati soddisfare i bisogni umani. In altri termini, Freud ha scambiato per società  tout court quello che ò un determinato assetto sociale, fondato su un dominio imposto agli individui prima con la violenza pura e poi, in forma più sottile ed efficace, con l’amministrazione totale della società . In tal modo, alla repressione connessa all’instaurarsi del principio di realtà , necessario alla sopravvivenza dell’umanità , viene ad aggiungersi una repressione addizionale, fondata su un diverso principio, il principio di prestazione. Questa repressione ò connessa alle restrizioni imposte dal dominio sociale e alla stratificazione della società  secondo le prestazioni, ossia il lavoro fornito da vari individui all’apparato complessivo della società . I canali di produzione della repressione addizionale sono indicati da Marcuse nella struttura familiare patriarcale e monogamica, nella canalizzazione della sessualità  in direzione della genitalità  e soprattutto della divisione gerarchica del lavoro e nell’amministrazione collettiva dell’esistenza privata. In questa situazione la società  tende a essere totalitaria, ossia a rendere impossibile ogni opposizione. Di fatto, l’apparato produttivo ha raggiunto un tale livello di sviluppo, da rendere disponibili le risorse necessarie per un mutamento qualitativo dei bisogni umani, ma la società  totalitaria crea bisogni falsi e artificiali allo scopo di impedire la liberazione degli individui dal dominio attraverso il soddisfacimento completo dei bisogni vitali. Proprio confrontandola alle potenzialità  non repressive che essa contiene, la società  contemporanea può essere criticata e si può aprire lo spazio per la fantasia, la quale conserva tracce dell’impulso al piacere: grazie ad essa, diventa possibile immaginare, sulla scorta di suggestioni desunte da Schiller come da Fourier, una società  utopica non repressiva, nella quale l’eros ò liberato e meno energie istintuali sono investite nel lavoro che finisce così per diventare lavoro attraente e trasformarsi in gioco. Nell’opera successiva, L’uomo a una dimensione, Marcuse nutre minori speranze in una possibilità  di liberazione, perchè la società  industriale avanzata appare totalitaria, unidimensionale. Nella stessa tecnologia, egli riconosce uno strumento per istituire nuove forme di controllo e di coesione sociale, piacevoli e quindi più efficaci. Questo vuol dire che ò proprio l’innalzamento del tenore di vita, dovuto ai progressi tecnici raggiunti nella società  opulenta, a diventare veicolo di repressione: esso, infatti, genera il bisogno ossessivo di produrre e consumare lo spreco e ottunde la capacità  di resistenza e di opposizione al sistema. In questa situazione, trova spazio quella che Marcuse chiama desublimazione e tolleranza repressiva: grazie all’estensione in massa di valori culturali, che vengono appiattiti sull’ordine sociale esistente, si verifica anche una concessione di libertà  apparenti che non ledono gli interessi dominanti e, anzi, garantiscono rafforzano la persistenza della repressione. Nelle democrazie moderne, infatti, la tolleranza secondo Marcuse coincide con il permissivismo, perchè viene concesso sulla base dell’assunto che nessuno ò in possesso della verità  e che pertanto il soggetto delle scelte deve essere la collettività , che si suppone sia composta di individui capaci di scegliere. In realtà , la società  come amministrazione totale dell’esistenza degli individui, produce esattamente l’effetto contrario, ossia un generale conformismo. Anche il pensiero corrispondente a questa situazione ò una unidimensionale, modellato sulla realtà  esistente e incapace di opposizione e critica. Questa ò l’imputazione che Marcuse muove ad alcune delle tendenze più significative della filosofia del Novecento, dal pragmatismo al neopositivismo alla filosofia analitica. In esso, secondo Marcuse, la verità  di una teoria ò riposta nella constatazione empirica dei fatti o nel successo conseguito praticamente con essa o nella sua conformità  alle regole del linguaggio comune. Ciò significa che la ragione e il linguaggio non appaiono più capaci di trascendere i fatti e la realtà  esistente. Il compito della filosofia consiste, invece, nell’opporre un grande rifiuto alla società  esistente, tenendo in piedi la possibilità  di alternative e mantenendosi fedeli al contenuto universale dei concetti: i concetti di bellezza o di libertà , infatti, racchiudono anche tutta la bellezza e tutta la libertà  che non si sono ancora realizzate. Grazie a questa impostazione diventa allora possibile comprendere le cose alla luce delle loro potenzialità  e anticipazioni. In questa direzione, Marcuse assegna una funzione fondamentale all’ immaginazione, la quale ò indipendente dai dati di fatto ed ò capace di vedere un oggetto anche se non ò presente l’immaginazione al potere diventerà  parola d’ordine della rivolta degli studenti. Più che alla classe lavoratrice nel suo complesso, la quale appare sempre più integrata nel sistema, di cui tende a condividere i valori, Marcuse guarda appunto agli studenti e a gruppi marginali come i negri, i guerriglieri del terzo mondo, gli emarginati e il sottoproletariato delle città , come a potenziali soggetti rivoluzionari: al tempo stesso, tuttavia, egli riconosce la loro impotenza se non si alleano con altre forze di opposizione organizzate all’interno della società . Nell’esperienza storica di questi nuovi movimenti di protesta e di rivolta, di cui almeno in un primo momento giustifica la violenza verso il sistema, in quanto mossa dalla vera intolleranza ossia dal telos della verità . Marcuse vede annunciarsi la fine dell’utopia e la liberazione di ogni forma di repressione finora esistita. La diagnosi della società  tecnologica avanzata che Marcuse ha tracciato ne L’uomo a una dimensione ò impeccabile. Qui la prospettiva si rovescia: tutti gli spazi alternativi, tutte le forme di opposizione, tutte le dimensioni “altre” da quella della tecnologia al servizio dei consumi e del potere capitalistico (come anche della dittatura terroristica sovietica) sarebbero conquistati dal dominio apparentemente “democratico” della società  industriale avanzata: l’uomo, la società  e la cultura sarebbero ridotti all’unica dimensione tecnologico-consumistica, che condiziona nel profondo bisogni e desideri umani, precostituendoli. Una società , quindi, senza vera opposizione e senza libertà , come suona già  l’inizio dell’opera: ” Una confortevole levigata, ragionevole, democratica non-libertà  prevale nella civiltà  industriale avanzata, segno del progresso tecnico”. L’avversione ad una tecnologia che conterrebbe in sè già  incorporata un’ideologia del dominio ò di chiara matrice heideggeriana e prosegue, da sinistra, la condanna che Heidegger pronunciò contro la tecnica, in cui vide l’estremo consumarsi del nichilismo moderno. Nulla sfugge a questa non-libertà , tutte le classi, compresa la classe operaia, sono ormai pienamente integrate nel “sistema”; solo fuori del sistema, si potrebbe ancora trovare qualche potenziale rivoluzionario, “al di sotto della base popolare conservatrice”, tra gli emarginati, ” il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili”, e – così termina L’uomo a una dimensione, con una citazione di Walter Benjamin – ” ò solo per merito dei disperati che ci ò data la speranza”. Il vero paradosso ò che proprio quest’opera, che preclude così drasticamente ogni possibilità  di cambiamento e di opposizione, divenne il vademecum dei rivoluzionari del ’68. Certo, una simile diagnosi mette sotto accusa in modo implacabile, sullo stesso piano, capitalismo e comunismo, e, alla radice di ambedue, la stessa struttura tecnologica avanzata, scatena di per sè una spontanea reazione ad un “sistema” così soffocante. I contestatori trovarono quindi in questo libro il più fedele rispecchiamento della loro rabbia e i motivi della loro rivolta. Ma la plumbea atmosfera attribuita alla società  tecnologica, descritta così efficacemente ne L’uomo a una dimensione, apparve essere dipinta a tinte troppo fosche, e svanì ben presto: quell’analisi non poteva reggere nè ad esami più rigorosi nè alla prova dei fatti. Fu lo stesso Marcuse ad accorgersene nelle opere successive (soprattutto nel Saggio sulla liberazione del 1969) allorchè manifestò nuova fiducia nell’utopia di una società  liberata. Una frase significativa, su cui grava chiaramente il peso delle tante obiezioni rivoltegli, esprime un nuovo modo di concepire la società  tecnologica, ed ò rivelatrice di un grande mutamento di prospettive: “E’ ancora il caso di sottolineare che non sono la tecnologia, nè la tecnica, nè la macchina gli strumenti della repressione, ma la presenza in essi dei padroni che ne determinano il numero, la durata, la forza, il posto nella vita, e il bisogno di esse? E’ ancora il caso di ripetere che la scienza e la tecnologia sono grandi veicoli di liberazione, e che ò soltanto il loro uso e il loro condizionamento nella società  repressiva che fa di esse il veicolo della dominazione? “. Marcuse, come si ò detto, si può definire solo in modo molto generico un pensatore “marxista”. I suoi tratti più originali ed efficaci stanno, a mio avviso, nell’aver scorto nella liberazione dell’eros – da non confondere con la “liberazione sessuale”, da lui vista come un altro condizionamento strumentale della società  repressiva – il futuro di una società  più aperta e libera. Una liberazione dell’eros come liberazione delle energie creative profonde dell’uomo, della libido come fonte di un ethos di uomini liberi e solidali tra loro; un eros da intendere come radice estetica, come possibile fonte di un mondo più “bello”, meno deturpato dall’aggressività , dalla violenza, dalla distruzione della natura e dell’ambiente, dalla guerra, dall’odio razziale e di classe. Marcuse sostenne in tutte le sue opere che l’arte e l’estetica – nella duplice radice semantica di quest’ultima nella “sensualità ” e nella “bellezza” – rappresentano l’opposizione al dominio e al principio di realtà  repressivo; l’arte, la fantasia e l’immaginazione sono opposte alla schiavitù della repressione e possono diventare la forma di una società  più autentica, bella e libera. Non a caso l’ultima opera di Marcuse, il suo “testamento spirituale “, ha per titolo, nell’edizione inglese e italiana, The Aesthetic Dimension, La dimensione estetica, e nell’edizione tedesca Die Permanenz der Kunst, la “permanenza dell’arte”, intesa come dimensione insopprimibile e fondamentale della convivenza sociale. Fino a quella bellissima espressione che compare nelle sue ultime opere: “la società  come opera d’arte”. Un'”utopia”, senza dubbio. Ma le utopie muovono la storia. E il vecchio Marcuse forse ha ancora qualcosa da dire alla civiltà  del Duemila, che si preannuncia ogni giorno più dominata da uno sviluppo tecnologico sempre più accelerato e vertiginoso, che invade tutti gli ambiti della vita umana. L’arte e l’estetica, la bellezza in tutte le sue forme e la creatività  umana potranno essere – anche se non nella misura dell’utopia marcusiana – un qualche antidoto? Una delle più grandi intuizioni marcusiane fu questa: di fronte al fallimento novecentesco delle previsioni di Marx, egli apportò notevoli modifiche teoriche alla dottrina originaria, suggerendo, ad esempio, che se ò vero che nel Novecento lo scontro di classe sembra essere sfumato nel mondo occidentale, ò altrettanto vero che tale scontro non si ò dileguato, ma si ò semplicemente spostato su un nuovo fronte: la nuova lotta ò combattuta tra Paesi capitalisti del mondo occidentale e Paesi sfruttati del “terzo mondo”, con l’inevitabile conseguenza che anche gli operai del mondo occidentale finiscono per essere sfruttatori del “terzo mondo”, in quanto anch’essi siedono al banchetto dei capitalisti, pur accontentandosi delle sole briciole. Un’indagine sul nazismo Dopo un lungo silenzio Herbert Marcuse torna a far parlare di sè. L’occasione ò la pubblicazione di una serie di scritti, stralci di lavori incompiuti od articoli mai pubblicati, a cui il teorico francofortese lavorò in una forbice temporale che va dal 1940 al 1948. Questi inediti, curati nell’edizione italiana da Carlo Galli e Raffaele Laudani, vennero concepiti dal filosofo tedesco durante la sua collaborazione con il governo americano e acquistano una straordinaria rilevanza sotto due profili. Innanzitutto, fanno luce su un periodo pressochè sconosciuto della produzione marcusiana. Il rinvenimento nell’archivio del filosofo di questi testi ha infatti permesso di sfatare un luogo comune che si era fatto strada fra gli studiosi, cioò che nella fase di collaborazione con il governo americano (1942-1951) Marcuse avesse temporaneamente sospeso la sua attività  filosofica per dedicarsi esclusivamente all’elaborazione di analisi sul nazismo e al progetto di denazificazione da attuarsi una volta sconfitti i regimi totalitari. L’altro aspetto rilevante ò legato al contenuto di questi scritti. L’indagine condotta sul nazismo rivela alcuni degli aspetti più originali della produzione francofortese e, nel contempo, testimonia della vicinanza teorica che accomunava Marcuse a Franz Neumann. Nel testo più interessante fra quelli qui presentati dedicati all’ “analisi del nemico”, Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo scritto nel 1942 (ò la rielaborazione di una conferenza organizzata dai francofortesi, e in particolare da Pollock, durante l’esilio newyorkese nel 1941), Marcuse riprende l’ impostazione elaborata da Neumann nel Behemoth condividendo molte delle intuizioni avanzate dal politologo francofortese. In verità , il dibattito sul nazismo alimentato dalla Scuola di Francoforte, che, peraltro, si inseriva nel contesto più ampio delle discussioni interne al marxismo sulle forme organizzate assunte dal nuovo capitalismo, aveva determinato il sorgere di due differenti posizioni. La prima, elaborata da Pollock ed Horkheimer, vedeva nel nazismo la forma totalitaria del “capitalismo di Stato”, il nuovo ordinamento sociale che aveva sostituito il “capitalismo monopolistico”. In definitiva, l’ eliminazione dell’autonomia del mercato aveva posto le basi per il superamento delle crisi endemiche che avevano caratterizzato le forme precedenti di capitalismo. Il nazismo aveva dunque sancito il passaggio da un’economia di scambio ad un’economia strettamente dipendente dal potere politico. Neumann e Marcuse contestavano l’idea che la nuova organizzazione del capitalismo avesse determinato un superamento delle crisi endemiche, anche se la frattura fra queste due concezioni non era così ampia come fa intendere Laudani nella Postfazione, e asserivano che queste erano celate dall’apparato burocratico e dall’ideologia. Nel saggio Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo Marcuse avvia la sua analisi negando che il nazismo abbia prodotto una rivoluzione. Le relazioni fondamentali del processo produttivo non sono state modificate, anzi “l’organizzazione economica del Terzo Reich ò costruita attorno ai grandi cartelli industriali, i quali, in larga parte con l’aiuto governativo, hanno costantemente accresciuto la loro influenza rispetto al periodo che ha preceduto l’ascesa al potere di Hitler” (p. 13). Il nazionalsocialismo, nella concezione marcusiana, ha soppresso i tratti peculiari dello Stato moderno attraverso l’abolizione di “ogni separazione fra Stato e società ” e con il “trasferimento delle funzioni politiche ai gruppi sociali attualmente al potere” (p. 15). La conseguenza più tangibile di questa trasformazione era l’autogoverno diretto ed immediato dei gruppi sociali dominanti sul resto della popolazione. Le tre caratteristiche dello Stato moderno, il rule of law, il monopolio del potere coercitivo e la sovranità  nazionale, che incarnavano la separazione razionale delle funzioni tra Stato e società , vengono dunque abolite nell’architettura politica nazionalsocialista che vedeva nello Stato l’agente esecutivo dell’economia. “Se vi ò qualcosa di totalitario nel nazionalsocialismo”, asserisce Marcuse, “questo non ò certamente lo Stato” (p. 17). Lo Stato, nell’ottica hitleriana, era solamente un tassello di uno schema molto più ampio ed articolato, il cui primo obiettivo era l’espansione industriale e, quindi, la trasformazione della Germania in un gigantesco competitore internazionale. Ma raggiungere questa prima condizione significava automaticamente il sacrificio dello Stato democratico e della legislazione sociale weimariana che poneva ostacoli insormontabili alla realizzazione del progetto nazionalsocialista e la transazione ad un sistema politico autoritario. Con la trasformazione di tutte le relazioni economiche in relazioni politiche (e qui l’analisi del nostro converge con quella di Pollock ed Horkheimer) Hitler si era convinto di aver posto le basi per l’affermazione dell’ industria tedesca nella competizione internazionale, mentre il ricorso alle armi assicurava l’apertura di nuovi mercati e la sottomissione degli altri competitori. “Per garantire la capacità  industriale e la sua piena realizzazione”, scrive Marcuse, “tutte le barriere fra politica ed economia, tra Stato e società  dovevano essere rimosse; le istituzioni intermedie dovevano essere abbandonate; lo Stato doveva identificarsi direttamente con gli interessi economici predominanti e ordinare tutte le relazioni sociali in base ai loro bisogni” (p. 21). Dell’analisi di Neumann, come ha osservato Laudani, Marcuse condivide anche la struttura multipla della classe dirigente nazista. La grande industria, il partito nazista e l’esercito erano le tre gerarchie al potere. Queste forze avevano un solo obiettivo comune: mantenere in vita il regime. L’eterogeneità  dei loro interessi si conciliava nella figura del fà¼hrer che diventava il punto di mediazione finale; “egli ò il soggetto per mezzo del quale gli interessi divergenti delle tre gerarchie al potere vengono coordinati e indotti come interessi nazionali. Egli media tra le forze in competizione; ò il luogo del compromesso finale, piuttosto che quello della sovranità ” (p. 22). Un’armonia estremamente fragile quella che legava fra loro industria, esercito e partito che avrebbe potuto funzionare solo se il sistema avesse continuato ad espandersi. Il successo era quindi la condizione da soddisfare per mantenere in equilibrio l’intera impalcatura nazionalsocialista. Il quadro della struttura dirigenziale nazista si completava poi con la burocrazia, esecutrice materiale delle decisioni adottate dalle tre forze in competizione e definita da Marcuse come una delle “amministrazioni più altamente razionalizzate ed efficienti dell’era moderna” (p. 24). Pur seguendo sotto diversi profili l’impostazione di Neumann, Marcuse prende in parte le distanze dalla tesi centrale del Behemoth. Neumann definiva senza mezzi termini la struttura del nazionalsocialismo come un non-Stato; Marcuse elabora invece il concetto di Stato-macchina. “Questa macchina”, osserva Marcuse, “che abbraccia ovunque la vita degli uomini ò la più inquietante perchè, con tutta la sua efficienza e precisione, ò totalmente incalcolabile e imprevedibile […]. Tutte le relazioni umane sono assorbite nell’ingranaggio oggettivo del controllo e dell’espansione” (p. 25). Il nazionalsocialismo realizzava alcuni aspetti fondamentali della società  individualistica. L’individuo era la principale fonte di energia e potere, la sua efficienza e capacità  andava accresciuta e coniugata con le esigenze dell’apparato produttivo. Per ottenere questo il regime nazista aveva ridotto l’individuo ad un mero numero della “folla” trasformando il Terzo Reich in uno “Stato delle masse”. Invece di sviluppare una “coscienza” comune, gli individui erano indotti ad inseguire i loro interessi più primitivi con la conseguenza di accrescere la loro atomizzazione e il loro isolamento reciproco. Una condizione indispensabile per porre al servizio del regime le forze e le facoltà  individuali. “Il nazionalsocialismo”, scrive Marcuse, “ha introdotto un elaborato sistema di educazione fisica, morale ed intellettuale che mira ad incrementare l’efficienza del lavoro attraverso metodi e tecniche scientifiche estremamente raffinate. I salari vengono differenziati a seconda dell’efficienza del singolo lavoratore. Vengono create istituzioni psicologiche e tecnologiche con il compito di studiare metodi appropriati per l’individualizzazione del lavoro e per contrastare gli effetti dannosi della meccanizzazione. Fabbriche, scuole, campi di allenamento, arene sportive, le istituzioni culturali e l’organizzazione del tempo libero sono veri e propri laboratori di “organizzazione scientifica” del lavoro” (p. 30). L’organizzazione del tempo libero da parte del regime, unica sfera nell’era liberale in cui l’individuo poteva estraniarsi dalla società  ed astenersi da qualsiasi forma di prestazione competitiva, sortiva l’effetto di eliminare la privacy dell’individuo sottomettendolo alle regole disciplinatorie del lavoro. In cambio di questo sacrificio, conclude Marcuse, il nazionalsocialismo offriva due compensazioni: una nuova sicurezza economica e una nuova libertà  di costumi (eliminazione della discriminazione nei confronti delle madri e dei figli illegittimi; incoraggiamento delle relazioni extraconiugali; introduzione di un nuovo culto della nudità  nell’arte e nell’intrattenimento; dissoluzione del ruolo protettivo ed educativo della famiglia). Il nazismo operava paradossalmente una “liberazione” dalle forme tradizionali di repressione che era però finalizzata ad un nuovo asservimento dell’individuo alla forma di dominio totale incarnata dal nazionalsocialismo. Il tema del nazismo, che predomina in questa raccolta di scritti, occupa un posto di primo piano anche nei testi La nuova mentalità  tedesca (1942) e Presentazione del nemico (1942-1943), entrambi consegnati come rapporti periodici all’Office of War Information americano. In queste pagine Marcuse riprende alcuni temi già  esposti in Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo, ma soprattutto mira a fornire degli elementi utili per la propaganda antinazista. Di ben altro tenore ò invece il testo incompiuto La filosofia tedesca nel ventesimo secolo (1940), contributo a cui Marcuse aveva lavorato nell’ambito di un progetto di ricerca intitolato German Economy, Politics and Culture 1900-1933 promosso dall’”Istituto per la ricerca sociale” sotto la direzione di Horkheimer. Il lavoro di Marcuse, mai portato a termine a causa del fallimento dell’intero progetto, si proponeva di riesaminare il ruolo avuto dalla filosofia tedesca nella fase precedente l’avvento al potere del nazismo e di rinnovare le interpretazioni tradizionali che vedevano nel nazismo la conseguenza più nefasta del nichilismo nietzschiano. Come ha correttamente osservato Carlo Galli nella Premessa, “questo uso in grande stile della categoria di nichilismo, non lascia emergere con sufficienza chiarezza, secondo Marcuse, che la grande crisi del razionalismo e della dialettica hegeliana intervenuta dopo la metà  del XIX secolo ha prodotto esiti diversificati: insomma, il potenziale emancipatorio e progressista della modernità  filosofica e politica, e in particolare della cultura classica tedesca – di quella costellazione, che va da Goethe a Marx, passando per Kant, Schlegel, Hegel, Feuerbach, alla quale va la fedeltà  intellettuale ed etica di Marcuse – non ò andato perduto in una sorte di notte in cui tutte le vacche sono nere” (p. XIII). Nel suo percorso che va da Nietzsche ad Heidegger passando per Freud, Dilthey, Weber e Husserl, Marcuse osserva e segnala di volta in volta come alcune delle tendenze considerate progressiste hanno invece facilitato la subordinazione al nazionalsocialismo e come, viceversa, filosofie giudicate spartiacque del regime hitleriano contengano al loro interno un rifiuto radicale di quell’ordine. Gli ultimi due scritti di questa raccolta assumono invece un rilievo teorico determinante in quanto anticipano alcuni dei temi forti trattati dal filosofo negli anni ’50 e ’60. La nozione di arte come “grande rifiuto” dell’ordine esistente, la neutralizzazione della classe operaia come soggetto della rivoluzione, la critica della tesi sovietica delle “due fasi” e del “socialismo di Stato”, l’individuazione di tratti comuni fra la società  capitalista occidentale del dopoguerra e l’Unione Sovietica sono alcuni esempi delle riflessioni a cui Marcuse lavora in questo periodo e che formalizza nelle Note su Aragon. Arte e politica nell’era totalitaria (1945) e nelle 33 Tesi (1947). Le Note su Aragon costituiscono di fatto il secondo contributo, dopo la tesi di laurea Il “romanzo dell’artista” nella letteratura tedesca, in cui Marcuse formula la sua teoria estetica. L’arte rappresenta per Marcuse la seconda faccia (la prima ò chiaramente la politica) di uno stesso problema. L’opposizione intellettuale sembra essere incapace di preservare il suo valore di negazione di fronte alle forme di vita dominanti. Assimilazione e standardizzazione hanno intrappolato l’arte in un “incantesimo”. In un contesto di questo genere l’arte d’opposizione deve trovare forme differenti di espressione e trasformarsi. “Come strumento di opposizione”, osserva Marcuse, “l’arte dipende dalla forza alienante della creazione estetica; dal suo potere di rimanere insolita, antagonistica, trascendente rispetto alla normalità  e, nello stesso tempo, di costituire la riserva dei bisogni umani soppressi, delle sue facoltà  e dei suoi desideri, di rimanere più reale della realtà ” (p. 94). L’arte “autentica”, come la definisce Marcuse, deve esprimere il “grande rifiuto” di una realtà  oppressiva ed alienante. Per raggiungere questo obiettivo deve rimanere “irrealistica”, in essa “il contenuto della libertà  deve mostrarsi solo indirettamente” (p. 96). Essa deve incarnare una sorta di precondizione della negazione, far balenare “la promessa di felicità “, ma non ha capacità  rivoluzionaria diretta. “Nel medium della forma artistica, le cose sono liberate dalla loro vita – senza essere liberate nella realtà ” (p. 110). Quest’ultimo compito spetta invece alla prassi. Nelle 33 Tesi, il testo più denso da un punto di vista teorico, pensato da Marcuse come contributo al progetto di Horkheimer di rilanciare la rivista originaria dell’Istituto (Zeitschrift fà¼r Sozialforshung), sono invece abbozzate molte delle posizioni definitive che il filosofo assumerà  all’interno di Soviet Marxism, ma soprattutto de L’uomo a una dimensione. In particolare, l’integrazione del proletariato, la stabilizzazione del capitalismo, la burocratizzazione del socialismo, la fine della sinistra rivoluzionaria e l’assenza di forze autentiche per un progressivo cambiamento sociale determinano in Marcuse un cortocircuito del pensiero dialettico e della prospettiva rivoluzionaria. Per certi versi, prende il via proprio in questa fase l’affannosa ricerca marcusiana del luogo e del soggetto della negazione determinata. La riconciliazione del proletariato con il capitalismo, risultato di “un mutamento nella forma dello sfruttamento” (p. 117), e la circostanza che “il socialismo di Stato mantiene in piedi i fondamenti della società  classista” (p. 120) spingono Marcuse ad indagare la realtà  di questi mutamenti nelle sue opere successive e ad individuare, a seconda delle contingenze storiche, nuovi luoghi e soggetti della rivoluzione. L’ultimo atto di questo libro ò la pubblicazione del breve rapporto epistolare intercorso fra Marcuse e il suo maestro Heidegger nell’immediato dopoguerra. àˆ il tentativo posto in essere dall’allievo di ottenere dal maestro una chiarificazione sui motivi che lo hanno spinto ad aderire, seppur per un lasso di tempo breve, al nazismo. All’incalzante richiesta di Marcuse fa riscontro la fragilità  di argomenti di un Heidegger imbarazzato. Questo breve, ma intenso scambio epistolare segnerà  anche la rottura definitiva del rapporto fra i due. Questo libro ha il merito di restituire al lettore una dimensione sconosciuta del pensiero marcusiano. Lo sforzo dialettico che pervade tutti i testi qui presentati e il ricorso sistematico al “pensiero negativo” hegeliano, l’intrinseca capacità  del pensiero di negare “ciò che ci sta immediatamente dinanzi” e di offrire una via di fuga attraverso la prassi emancipatoria di un soggetto antagonista, sono indicatori di una filosofia che, pur alle prese con aporie ed errori di valutazione, non si ò mai arresa di fronte al male della nostra società  (sia esso il nazismo come le altre forme di dominio) e che ha sempre preservato la lucidità  analitica necessaria per cogliere i repentini mutamenti delle strategie di potere.

  • Filosofia del 1900

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