Nelson Goodman, nato nel 1906, fu uno dei più eminenti epistemologi e filosofi americani del Novecento. Amico e collega di Quine (entrambi hanno insegnato a lungo nell’università di Harvard a Boston), egli condivide alcuni principi ed esigenze di fondo dell’autore di Parola e oggetto: il proposito di restare all’interno di una prospettiva fondamentale empiristica, emancipandola però dalle sue ristrettezze e dai “dogmi” (Quine) che la impoveriscono e la irrigidiscono: l’esigenza di valorizzare in più modi, la dimensione teorico-costruttiva dell’attività conoscitiva rispetto alla sua dimensione osservativo-fattuale; l’obiettivo di “liberalizzare” e di pluralizzare gli schemi concettuali coi quali l’uomo conosce e “dice” il mondo: il rifiuto, in ambito di filosofia del linguaggio e della logica, di ogni concezione di tipo platonico-essenzialistico. A quest’ultimo proposito, in un famoso saggio-manifesto scritto congiuntamente con Quine ( Passi verso un nominalismo costruttivo, 1947) Goodman respinge radicalmente la credenza nell’esistenza di quelle che chiama “entità astratte” (le classi, gli universali): il mondo ò composto solo di ” oggetti fisici o eventi o di unità di esperienza sensoriale “; i predicati ” che non siano predicati di individui concreti, o che non siano spiegati in termini di predicati di individui concreti ” vanno “respinti”. Quanto alla matematica, considerata da molti (a cominciare da Russell) l’espressione e insieme la prova del darsi di verità autonome e universali, viene interpretata come un mero “apparato” strumentale: le sue formule sono solo ” comodi mezzi per rendere più facili i calcoli “, ma ” non comportano questioni di verità “. Già nell’ampia e complessa opera La struttura dell’apparenza (del 1951, ma risalente in gran parte agli anni ’30) e nelle successive Ipotesi e previsioni (1953-54) Goodman si distanzia su alcuni punti cruciali dal neopositivismo. Così, in particolare, egli respinge quello che altri chiamerà il ” mito del dato “: non esistono “dati” dal significato univoco-oggettivo, in grado per ciò stesso di costruire un fondamento empirico certo per la conoscenza. Così, ancora, egli critica nella stessa prospettiva la distinzione neopositivistica tra “osservazionale” e “teorico”: ogni atto cognitivo ò atto teorico in quanto si muove all’interno di un sistema di assunti non empirico-fattuali ma simbolico-concettuali. Così, infine, egli esprime riserve radicali sull’ulteriore distinzione cara ai neopositivisti tra analitico e sintetico, e poi sul grado di validità del metodo induttivo, sulla strategia riduzionistica, su determinati criteri di verifica delle procedure della conoscenza, ecc. Sarà tuttavia soprattutto la riflessione degli anni seguenti, affidata ai due volumi I linguaggi dell’arte (1968) e Modi di fare il mondo ( Ways of Worldmaking, 1978; il titolo della traduzione italiana ò Vedere e costruire il mondo, 1988), a produrre i risultati che hanno creato il maggior interesse odierno nei confronti di Goodman. In tali opere il filosofo americano ha sviluppato infatti in modo stimolante e radicale alcuni princìpi largamente circolanti nella riflessione contemporanea di orientamento anti- neopositivistico. Per Goodman il pensiero ò un’assai complessa e differenziata attività conferitrice di senso. Esso ò anzi, più precisamente, una “costruzione” simbolico-concettuale di forme e di significati (donde la denominazione di ” costruttivismo radicale ” data a questa posizione teorica): una concezione priva non solo di fondamento prestabilito, ma anche di un metodo univoco e a priori. In effetti, ben lungi dall’osservare i rigidi binari euristico-procedurali e gli altrettanto rigidi criteri di verificazione stabiliti dal neopositivismo, il pensiero opera in modo estremamente libero e “pluralistico”. Esso infatti costruisce i propri concetti (le proprie ” versioni del mondo “, come le chiama Goodman) da un lato in rapporto ai propri fini e interessi, dall’altro in rapporto ai propri contesti e riferimenti categoriali-normativi: anche perchè il suo obiettivo ò non tanto (o non necessariamente) la “costruzione” della verità quanto quella del senso. Non sorprende, dati questi presupposti, che Goodman abbia fortemente riabilitato il ruolo e la funzione dell’ ” arte: ben lungi dall’adempiere ad un ufficio puramente espressivo di sentimenti e di emozioni, l’arte ha per il filosofo americano la capacità costitutivo- costruttiva di elaborare versioni e interpretazioni dei fenomeni dotate di una loro irriducibile significazione razionale. In sede gnoseologico-epistemologica le tesi più significative di Goodman sono forse le seguenti: a) l’inseparabilità del mondo dalle modalità simboliche con cui noi lo descriviamo e ne rendiamo conto; b) l’esistenza di un’irriducibile pluralità di queste modalità – o meglio, per riprendere la già ricordata locuzione goodmaniana, di queste “versioni del mondo”; c) l’inesistenza di ” versioni del mondo” oggettivamente più vere o più fondamentali di altre. La prima tesi muove dal rifiuto della credenza di alcuni neopositivisti nella possibilità di acquisire dati o esperienze reali indipendentemente da strutture o modelli teorici. Qualunque oggetto del mondo, spiega Goodman, ” non ò mai propriamente l’oggetto-a-una-certa-distanza-e- angolazione-e-sotto-una-certa-luce; ma ò l’oggetto così come noi lo consideriamo e concepiamo, una versione o un’interpretazione dell’oggetto “. Qualsiasi cosa entri nel nostro campo di esperienza ò insomma già organizzata all’interno di un determinato ” schema concettuale “. Una prima conseguenza di questa tesi ò che non si può cogliere un mondo reale in sè, e che dunque le questioni puramente e strettamente ontologiche sono mal poste e irrilevanti. ” Se chiedessi qualcosa intorno al mondo, ciò che mi si può rispondere ò come esso compare sotto uno o più quadri di riferimento; ma se insistessi nel chiedere come esso ò indipendentemente da tutti i quadri di riferimento, che cosa mi si può dire? Noi siamo vincolati ai modi di descrizione delle cose descritte. In nostro universo – per così dire – consiste in questi modi, piuttosto che di un mondo o di mondi. ” Una seconda conseguenza della tesi di qui sopra ò l’assunzione di una prospettica nettamente anti-realistica e costruttivistica nell’interpretazione del mondo e delle forme o dei sensi che a noi pare di cogliere in esso (non a caso due capitoli dei libri citati sopra si intitolano ” Rifare la realtà ” e ” La costruzione dei fatti “). E’ del tutto a torto, esemplifica Goodman a questo proposito, che noi crediamo che qualcosa come ” le costellazioni celesti ” si diano oggettivamente nel firmamento. In verità , ciò che esiste ò solo l’insieme infinito degli astri. Siamo poi noi, coi nostri modelli e schemi concettuali, a “costellare” in un certo modo il cielo, costruendo dei confini intorno a certi punti piuttosto che intorno a certi altri. E’ bene precisare che oltre a sostenere un radicale antirealimo (ogni mondo ò un mondo costruito) Goodman professa un non meno radicale anti-idealismo; egli respinge cioò la posizione secondo cui la realtà sarebbe null’altro che una versione concettuale. La seconda tesi di Goodman (quella relativa alla pluralità delle versioni del mondo) consiste nell’assunto che, essendoci tanti modi di costruire la realtà , si danno tante realtà quante sono le nostre versioni. Si prenda, ad esempio, un uomo. Egli non ha (o non ò) una realtà univoca di sè, che un giorno o l’altro una Scienza potrà cogliere in modo oggettivo e definitivo. Al contrario, in sede cognitiva l’essere umano può essere considerato – a seconda delle versioni o degli schemi concettuali in base ai quali noi lo consideriamo – di volta in volta un fascio di atomi, un complesso di cellule, un animale bipede implume, un soggetto socialmente costituito, un amico per il quale provo sentimenti di amicizia e molte altre cose ancora. Inoltre lo stesso mio riferirmi all’oggetto uomo ha molteplici modalità : lo posso denotare, lo posso descrivere, lo posso interpretare, lo posso metaforizzare – e posso fare tutto ciò utilizzando vari sistemi o veicoli simbolici (verbali e anche non verbali, come suoni, figure, modelli, ecc. ). Evidentemente l’idea di un unico mondo (e di un’unica conoscenza) reale ò incapace di dar conto della ricchezza e della varietà delle nostre “versioni” di esso, e se a volte non notiamo questa pluralità , ciò accade (spiega Goodman) perchè ci muoviamo all’interno di versioni talmente familiari che ci sembrano naturali piuttosto che costruite, uniche/assolute piuttosto che relative. La terza tesi di Goodman sviluppa idealmente quella di cui si ò appena parlato. Se quest’ultima affermava l’irriducibile pluralità delle versioni del mondo, la nuova tesi sostiene l’ inesistenza di una versione oggettivamente più vera, o più “fondamentale” delle altre. E in effetti, per riprendere l’esempio precedente dell’essere umano, quale delle varie versioni sopracitate di uomo ci dice che cosa l’oggetto uomo ò veramente? Ci troviamo palesemente di fronte alla difficoltà di individuare una versione che sia più vicina delle altre alla “realtà “. Il problema ò ulteriormente complicato dalla circostanza che le varie versioni sono spesso eterogenee e in conflitto tra di loro. Possono esistere dei modi per conciliarle? Possono esistere, per utilizzare nuovamente l’esempio dell’uomo, delle regole per unificare un animale bipede implume a un amico, o un aggregato di molecole a un soggetto sociale? Per Goodman la risposta a questo interrogativo ò del tutto negativa. Anzi, a ben guardare, alcune delle questioni sopra poste sono addirittura improponibili: non si può chiedere quale versione del mondo sia in assoluto più vera in rapporto alla “realtà ” perchè, come già sappiamo, non esiste alcuna realtà in sè che noi possiamo cogliere oggettivamente, così da farla funzionare come criterio di verifica “pura” delle nostre varie versioni (il che non significa che sia a priori impossibile valutare quale sia la versione più vera non già in assoluto, bensì relativamente a un determinato contesto, a un determinato fine e a un determinato insieme di più regole). C’ò da aggiungere che, recuperando e sviluppando precisi motivi pragmatistici (come Quine, ma in modo assai più radicale di lui), Goodman sottolinea più volte che il criterio di valutazione delle versioni del mondo non può nè deve essere necessariamente essere solo quello vero/falso: oltre a tale criterio ve ne sono, anche in sede cognitiva, altri spesso di importanza non minore (i criteri di rilevanza, di efficacia, di semplicità , ecc. ). Alla luce di quanto precede, non meraviglia che Goodman respinga un altro caposaldo della gnoseologia sostenuta da una parte del neopositivismo e dalla filosofia “scientifica” da Russell a Popper: la teoria delle verità come “corrispondenza” del linguaggio al mondo. In effetti l’obiettivo suggerito da tale teoria ò irrealizzabile e fuorviante, non essendo il mondo qualcosa di definibile in mondo oggettivo-univoco ed extra-linguistico. Per questo e per altri motivi Goodman abbandona la concezione “corrispondentistica” della verità e introduce altri criteri di valutazione delle versioni del mondo, a cominciare da quello (nuovamente di ascendenza pragmatistica) di “appropriatezza” o ” congruenza “. Tale congruenza può essere a sua volta “interna” o “esterna”. E’ interna quando riguarda il rapporto tra una versione del mondo e ciò a cui essa si riferisce: da questo punto di vista la celebre proposizione di Tarsky ” ‘La neve ò bianca’ ò vera solo se la neve ò bianca” andrebbe per Goodman riespressa così: ” ‘La neve ò bianca’ ò un enunciato vero stando a una certa versione, se e solo se la neve ò bianca secondo quella versione” (ossia se ò congruente con quella versione). La “congruenza” ò invece “esterna” quando riguarda il rapporto tra diverse versioni del mondo. Su questo Goodman ha cura di sottolineare che non ogni versione del mondo ò compatibile con qualsiasi altra: la questione della compatibilità , formale e sostanziale, tra le varie versioni del mondo costituisce anzi un ambito di indagine di grande rilievo.
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- Filosofia - 1900