Il capitale e il plusvalore - Studentville

Il capitale e il plusvalore

Il capitale dal punto di vista di Marx.

Il modo di produzione capitalistico si presenta come un’enorme produzione e raccolta di merci: l’indagine sul capitale deve dunque principiare con l’analisi della merce. La merce è, in primis, qualcosa che per le sue qualità  può soddisfare bisogni umani di qualsiasi tipo, materiali o intellettuali, come mezzo di sussistenza o di godimento o per produrre qualcosa: in questo sta il suo valore d’uso, che si realizza solo nell’uso, ovvero nel consumo che si fa di essa. Rispetto a questo valore si distingue il valore di scambio, che si presenta dapprima nei termini di un rapporto quantitativo e, più precisamente, come la proporzione in cui determinati valori d’uso sono scambiati con altri valori d’uso, per esempio una data quantità  di grano con una data quantità  di seta o con una d’oro, considerate equivalenti. Ogni merce ha quindi molteplici valori di scambi, secondo le altre merci con cui è scambiata, ma perchò lo scambio sia attuabile bisogna che tutti i valori di scambio delle merci scambiate siano equivalenti e di uguale grandezza. Questo vuol dire che in queste merci scambiabili deve essere presente qualcosa di comune: questa cosa comune non può essere una qualità  connessa al loro valore d’uso, visto che ciascuna cosa ha valori d’uso differenti ed è proprio l’astrazione dai valori d’uso che caratterizza il rapporto di scambio delle merci. Invece, tra cose che hanno valore di scambio equivalente non esistono differenze: esse risultano del tutto intercambiabili. Se si prescinde dal loro valore d’uso, nelle merci rimane solo una proprietà , quella di essere prodotte dal lavoro, ma non da un tipo particolare di lavoro distinto da ogni altro, ma dal ‘ lavoro umano eguale in astratto ‘. A determinare il valore di una merce è quindi il lavoro cristallizzato in essa. Questo significa che si fa astrazione dalle differenze reali sussistenti fra i vari tipi di lavoro e ‘ li si riduce al carattere comune che essi possiedono in quanto dispendio di forza-lavoro umana ‘. In tal modo, un valore d’uso, cioò un bene, ha valore solamente perchò in esso viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano. Tale valore è misurabile in base alla quantità  di lavoro cristallizzata in esso e la quantità  di lavoro, a sua volta, è misurata in base alla sua durata temporale. Per determinare questa misura bisogna prescindere dal tempo necessario al singolo operaio: è evidente infatti che se egli è inabile o pigro, impiegherà  più tempo per produrre un oggetto e dunque, paradossalmente, il suo prodotto verrebbe ad essere più costoso di quello di un operaio abile e solerte. E’ invece il tempo di lavoro socialmente necessario, in media, in specifiche condizioni storiche di produzione a determinare il valore dell’oggetto prodotto. Le cose, quando sono viste soltanto come merci interscambiabili, senza che si scorga il lavoro umano cristallizzato in esse, si trasformano in fetici, assumono una qualità  ‘sovrasensibile’, che contiene nascosto in sò un rapporto sociale. Si assiste ad un fenomeno analogo a quello che intercorre in ambito religioso, dove un oggetto fabbricato dall’uomo, il feticcio, è tramutato in una divinità  autonoma rispetto all’uomo stesso. Questo fenomeno, tipico del modo di produzione capitalistico, dove il prodotto domina l’uomo e i rapporti sociali appaiono come semplici rapporti tra cose, autonome rispetto a chi le ha prodotte, Marx lo chiama feticismo delle merci. Il denaro è l’equivalente generale di tutte le merci; con esso viene determinato sul mercato, tramite il rapporto tra la domanda e l’offerta, il prezzo delle merci, ovvero l’espressione in termini quantitativi del loro valore di scambio. Tipico del modo di produzione capitalistico è il fatto che la conversione di merci in denaro, e viceversa, è finalizzata non all’acquisto di altre merci e quindi al consumo di tali merci, ma all’aumento del denaro, ossia al profitto. Il primo tipo di circolazione denaro-merci, proprio di un modello generale di società  mercantile, è esprimibile con la formula M-D-M, dove D sta per Denaro e M per Merce: dalla vendita della merce si ricava denaro, impiegato allo scopo di acquistare altre merci. Per quel che riguarda il capitalismo, invece, la formula diventa: D-M- D’ dove D’ è maggiore di D, cioò il denaro acquisito a conclusione del ciclo è aumentato rispetto al denaro impiegato inizialmente per acquistare la merce M. Ma quale è la merce che permette di generare questo aumento di denaro, ovvero il profitto (D’)? Una merce non può essere venduta ad un prezzo superiore al suo valore di scambio e quindi non è da tale vendita che dipende il profitto; secondo Marx, la fonte del profitto va ricercata non nella sfera della circolazione delle merci, ma in quella della loro produzione e, più precisamente, in un tipo di merce dotato di capacità  produttiva e dal quale può essere estorto un profitto (D’), ovvero un guadagno rispetto al denaro speso per acquistarlo: questa merce è la forza-lavoro, l’energia erogabile per produrre oggetti. L’esistenza sul mercato di questo tipo particolare di merce, ossia la forza lavoro, è resa possibile dall’esistenza di individui giuridicamente liberi e legittimi possessori della propria forza-lavoro, ma costretti a venderla come unico mezzo per procurarsi il proprio sostentamento. Marx non guarda dunque con simpatia al liberalismo, politico ed economico: mentre i socialisti ‘riformatori’, concependo il processo storico in termini evoluzionistici, vedevano in esso il primo passo avanti verso la democrazia e il socialismo, Marx si accorge che il liberalismo prevede una libertà  meramente apparente, che crea solo divario tra poveri e ricchi; essendoci infatti il libero scambio e la libertà  giuridica, i ricchi possono ancora più liberamente dominare i poveri. Ora, se per i socialisti si trattava di fare un passo avanti per raggiungere il socialismo, per Marx occorre fare un passo indietro, ossia eliminare il liberalismo: la disuguaglianza tra il capitalista e il proletario che vende la sua forza-lavoro esiste non solo malgrado la libertà  giuridica, ma anzi esiste proprio grazie alla libertà  di agire così: è vero che l’operaio è libero e non costretto a vendere la sua forza-lavoro, ma se non la vendesse che cosa farebbe? Morirebbe di fame. Allo stesso modo, perchò ci sia uguaglianza giuridica ci deve essere uguaglianza sociale: un ricco e un povero davanti alla legge saranno anche uguali, ma se il povero non ha un quattrino per pagarsi l’avvocato ha già  perso in partenza. Per l’operaio non esiste dunque libertà : sceglie liberamente il padrone che lo sfrutterà ; ò libero di non lavorare, cioò di morir di fame; ò libero di lavorare 12 ore al giorno, cioò libero di morire di fatica. Questa situazione non è eterna, ma è tipica dell’età  moderna: essa è condizione necessaria per il costituirsi della produzione capitalistica, in cui anche il lavoro, sotto forma di forza-lavoro, diventa una merce. Altra condizione basilare è l’esistenza di individui che siano unici possessori dei mezzi di produzione: essi sono i capitalisti, che impiegano parte del proprio capitale, sotto forma di salario, per acquistare forza-lavoro al fine di generare il profitto, che Marx chiama plusvalore. Come è possibile che l’acquisto di questa merce generi plusvalore? La fonte del profitto è per Marx il pluslavoro: in quanto merce, anche la forza-lavoro ha un valore di scambio che, proprio come tutti i valori di scambio, sarà  determinato in base al tempo medio di lavoro richiesto per produrlo. Questo vuol dire che il valore della forza-lavoro è calcolato non in base al suo rendimento, ma al costo necessario per produrla, ovvero per garantire la continua disponibilità  di forza-lavoro, assicurando i mezzi per la sopravvivenza dell’operaio, la sua riproduzione e l’apprendimento delle abilità  necessarie al suo lavoro. Il plusvalore potrà  generarsi solamente se il salario corrisposto dal capitalista equivale ad una sola parte del tempo impiegato dall’operaio nella produzione, e precisamente alla parte che basta a produrre la sussistenza dell’operaio stesso. Se, ad esempio, tale parte equivale a 6 ore di lavoro, tutto il lavoro compiuto in altre ore nella stessa giornata, ovvero il pluslavoro, non essendo retribuito, genera plusvalore: Marx ò pienamente convinto che il salario pagato corrisponde ai bisogni minimi per sopravvivere, arbitrariamente calcolati dal padrone, e delle 12 ore che fa l’operaio, 6 servono per mantenerlo in vita, le altre 6 sono regalate al padrone: il lavoro che l’operaio fa in più, senza essere pagato, ò appunto il pluslavoro; esso ò l’origine del plusvalore e permette l’accumularsi del capitale, costituito dall’insieme dei mezzi di produzione: macchine, operai, riserve finanziarie, ecc. Ed ò solo il pluslavoro che consente l’accumularsi del capitale: in questo consiste, nello stesso tempo, l’orrore e la funzione della società  capitalistica. Il saggio di plusvalore sarà  allora dato dal rapporto fra due quantità  di lavoro nella sfera della produzione, cioò tra il tempo di pluslavoro e il tempo impiegato per produrre la sussistenza del lavoratore. Il plusvalore è il fine della produzione capitalistica e si forma nell’ambito della produzione. La concorrenza obbliga il capitalista a smerciare i suoi prodotti al minor prezzo possibile e per abbassare il prezzo egli deve aumentare il pluslavoro. L’instabilità  della moneta gli permette di mascherare l’intensificarsi dello sfruttamento. Dal momento che l’unica funzione del salario ò quella di mantenere in vita l’operaio come una bestia da soma, e poichè d’altra parte i bisogni dell’operaio sono gli stessi della sua famiglia, la concorrenza spinge il padrone a far lavorare nella sua fabbrica tutta la famiglia dell’operaio: donne e bambini lavorano in fabbrica, ma la somma dei salari di una famiglia intera non supera mai il salario che avrebbe guadagnato l’operaio da solo. Nel Capitale Marx intende studiare anche le differenti fasi storiche dell’organizzazione produttiva del lavoro come metodi differenti per ottenere plusvalore. Diversi sono i modi di organizzare il lavoro nella produzione capitalistica, ma tutti sono finalizzati al plusvalore: a fondamento di essi c’è la cooperazione, intesa come la forma di lavoro di molte persone che lavorano insieme in uno stesso luogo e contemporaneamente, secondo un piano. Questo differenzia i tipi principali di organizzazione capitalistica del lavoro, ossia la manifattura e la fabbrica, dall’artigianato, che non richiede la compresenza spaziale e la contemporaneità  nell’esecuzione dei lavori. Il carattere assunto dalla cooperazione nell’economia capitalistica porta ad accrescere la produttività , ma toglie all’operaio il controllo del proprio lavoro, contrariamente a quanto avviene per l’artigiano. Quando tutto il plusvalore è consumato come reddito, si ha quella che Marx definisce riproduzione semplice; mentre quando una parte di esso è reinvestita per accrescere la produttività  si ha la riproduzione allargata, caratterizzata da una crescita del capitale; essa ha luogo nello stadio industriale del capitalismo, quando una parte del capitale è investita nell’acquisto di macchine: queste costituiscono il capitale costante, mentre i salari corrisposti agli operai costituiscono il capitale variabile. Le macchine sono lo strumento fondamentale per accrescere la produttività  perchò permettono una divisione del lavoro tendenzialmente illimitata; mentre un artigiano compie un’attività  che implica l’uso di una pluralità  di strumenti e l’esecuzione di una pluralità  di operazioni, tramite le macchine questa unica attività  può essere suddivisa in molteplici operazioni affidate ciascuna a persone diverse. In questo modo cresce l’efficienza del lavoro svolto dal singolo operaio, addetto ad una sola operazione, ma il lavoro stesso diventa unilaterale e ripetitivo. Più aumenta la specializzazione delle funzioni e più l’operaio è costretto a vendere la sua forza-lavoro, non solo perchò privo di mezzi di produzione, ma perchò non ha più la capacità  di svolgere un mestiere compiuto. Tutte le diverse operazioni necessarie per produrre un oggetto finito sono ormai compiute dal sistema integrato operaio-macchina. Si raggiunge l’apice con la divisione del lavoro tra macchine differenti e con l’organizzazione del lavoro a catena. In questa situazione gli operai sono al servizio della macchina, devono adattare i loro ritmi di lavoro a quelli della macchina, le loro funzioni tendono a livellarsi e gli operai diventano intercambiabili tra loro. Ecco quindi che affiora nuovamente, in una nuova veste, il tema dell’alienazione, caro a Marx fin dalla gioventù. L’operaio non può più decidere sulle modalità  delle operazioni da compiere e sull’uso delle macchine stesse ed è completamente subordinato a decisioni prese da altri: in tal modo arrivano al culmine la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale (che consiste nelle funzioni direttive) e l’antagonismo tra le forze produttive. Per non soccombere alla concorrenza, il capitalista deve investire in misura crescente il plusvalore ricavato in macchinari, ovvero in capitale costante, e per non diminuire i propri profitti deve cercare di tenere sempre più basso il capitale variabile (gli stipendi). Ciononostante, Marx è convinto dell’esistenza di una legge tendenziale di caduta del saggio di profitto, con la conseguente progressiva concentrazione del capitale in poche mani. E questo, a sua volta, forma un binomio indisgiungibile con l’ immiserimento crescente degli operai: con l’avvento delle macchine, che possono sostituire il lavoro di molti operai, aumentano i disoccupati e, quindi, anche l’offerta di forza-lavoro sul mercato, cosicchò anche per questo aspetto i salari tendono a diminuire: aumenta la povertà  e il numero dei disoccupati, di conseguenza il capitalista può tenere più bassi i prezzi dei salari e guadagnarci di più. In questa situazione si genera la massima contraddizione tra il carattere privato della proprietà  dei mezzi di produzione e il carattere sociale sempre più rilevato della produzione, tra lo sviluppo delle forze produttive (il proletariato) e il numero sempre più ristretto di capitalisti: e Marx può affermare che ‘ la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’inevitabilità  di un processo naturale, la propria negazione ‘. Ma l’emancipazione della classe operaia non può nò deve avvenire solo sul piano politico; nello scritto Per la critica dell’economia politica Marx aveva asserito che ‘ una formazione sociale non perisce finchò non si sono sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso. Ecco perchò l’umanità  non si propone se non quei problemi che può risolvere ‘, ovvero quando si stanno formando o già  esistono le condizioni materiali per la sua soluzione. Il fatto che lo sviluppo delle forze produttive stesse crescendo, ma al tempo stesso non accennasse a diminuire la miseria del proletariato, appariva a Marx, insieme ad un’ accresciuta coscienza di classe da parte degli operai, la condizione per il sovvertimento dell’assetto capitalistico e la transizione ad una nuova formazione economico-sociale. Marx prevedeva che una prima fase sarebbe stata caratterizzata dalla dittatura del proletariato, solamente temporanea, che avrebbe portato all’abolizione delle classi sociali. Al ‘regno della necessità ‘, tipico della società  capitalistica, sarebbe così subentrato il ‘regno della libertà ‘, il pieno sviluppo delle capacità  umane, reso attuabile anche da un impiego alternativo delle macchine allo scopo di alleviare la fatica e di accorciare la giornata lavorativa, oltre che di accrescere la produttività . Nella Critica al programma di Gotha Marx avrebbe descritto questa nuova società , in cui non sarebbe più stata necessaria l’esistenza dello Stato, come il luogo in cui ‘ il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti ‘. Alla prima fase, in cui il motto è ‘A ciascuno secondo il suo lavoro’, sarebbe subentrato il comunismo pienamente realizzato, il cui motto è ‘ Ciascuno secondo le sue capacità , a ciascuno secondo i suoi bisogni ‘.

  • Filosofia del 1800

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