La scuola a Roma - Studentville

La scuola a Roma

L'organizzazione della scuola nell'antica Roma.

La scuola e le sue figure

Nell'antichità la scuola fu lasciata a lungo all'iniziativa privata. A Roma, ai tempi della repubblica, le scuole non esistevano ed erano i padri ad insegnare ai propri figli le cose più essenziali come leggere, scrivere e far di conto. Quando la vita pubblica divenne più pesante ed impegnativa l'insegnamento fu lasciato agli schiavi, soprattutto greci. Solo nel 235 a.C., sotto l'influsso greco, a Roma sorge la prima scuola pubblica. Le prime scuole statali furono istituite nel periodo imperiale con le cattedre di retorica e filosofia (sec. I-IV d.C.), ma già all'inizio del IV secolo tutto l'insegnamento è finanziato dallo Stato.

La scuola romana comprendeva tre gradi affidati al ludi magister (maestro elementare), al grammaticus (commentatore di testi greco-latini) e al rhetor (maestro di eloquenza).
Le lezioni si svolgevano in locali piccoli e scomodi dove arrivavano i rumori della strada ed era molto difficile impartire lezioni. Le classi erano composte da ragazzi e ragazze senza distinzione di età e di sesso e le lezioni iniziavano all'alba e senza interruzioni continuavano sino a mezzogiorno.

La disciplina era dura e brutale anche perché gli insegnanti ricorrevano a punizioni corporali.
Le scuole chiudevano solo nei giorni di mercato, durante le feste per Minerva e per le vacanze estive. La donna ricca affidava i propri figli al pedagogo di fama che aveva pagato a peso d'oro mentre le donne povere "si liberavano" dei loro figli mandandoli in una di quelle scuole private che i professionisti avevano aperto nell'Urbe alla fine del II secolo e che abbondavano in Roma. I figli pativano di questa specie di abbandono materno. Se l'allievo apparteneva ad una famiglia ricca aveva tutto l'agio di respingere il sedicente maestro al suo ruolo di subalterno, che era poi quello di domestico, anche se precettore. I fanciulli di origine modesta non avevano alcuna considerazione del maestro di cui frequentavano la scuola.

L'ambizione del maestro si limitava meccanicamente ad insegnare agli allievi a leggere, a scrivere e a fare i calcoli, e poiché questo disponeva di parecchi anni, non si preoccupava affatto di perfezionare i suoi metodi approssimativi o piuttosto di rinnovare i suoi triti programmi.

Le figure di retore e grammatico si rivolgevano ad un pubblico ristretto. I primi professori di grammatica e di retorica provenivano dall'Egitto e dall'Asia. Il più famoso dei maestri fu Quintiliano. Le lezioni si impartivano in latino e in greco presso il grammaticus. Sembra che i grammatici romani non abbiano mai smesso di basare l'insegnamento della letteratura latina su quello della letteratura greca. Il grammatico disponeva di una doppia biblioteca a differenza del ludus litterarius il cui sapere si limitava a un libro solo. Il grammatico aveva limitato da sempre la sua scelta di autori latini ai poeti delle prime generazioni e aveva la civetteria di spiegare questi scrittori in greco, le cui opere erano più o meno riduzioni dal greco. Negli ultimi venticinque anni del primo secolo a.C. un liberto attico, Quinto Cecilio Epirota, decise di attuare nella scuola di grammatica che lui dirigeva due modifiche in un colpo solo: osò parlare latino e ammettere all'onore delle sue lezioni autori latini viventi o scomparsi da poco. Le sue opere cominciavano gradualmente ad arricchire i programmi. Questi tentativi intermittenti di rinnovamento non bastarono a modificare il carattere fondamentale di un insegnamento che si può definire tanto più come "classico" quanto più era legato alle tradizioni di successi già consacrati. La scuola di grammatica di Roma guardò sempre al passato, se pure con maggior o minore intensità secondo il momento, e il latino che vi si insegnava non fu mai, per essere esatti, una lingua viva, ma la lingua di cui si erano serviti i "classici".

I grammatici imponevano prima di tutto esercizi ad alta voce e recitazioni a memoria. Lavorando su un testo si svolgevano tre funzioni fondamentali:

a. l'emendatio ovvero l'attuale critica orale che esigeva riflessione da parte degli studenti;

b. l'enarratio propriamente detto commentario i cui difetti guasteranno più tardi l'opera di un Servio;

c. l'explanatio ovvero la spiegazione frase per frase o verso per verso, definendo tutte le figure retoriche e ricavando il senso di ogni parola.

Le discipline che i Romani chiamarono arti liberali entravano nell'insegnamento solo di seconda. Il grammatico romano si occupava di tutto, senza nulla approfondire e i suoi allievi a loro volta non facevano altro che sfiorare di sfuggita le conoscenze implicite della letteratura ch'egli veniva citando: la mitologia indispensabile a intendere le leggende poetiche, la musica quando da essa dipendevano i metri delle odi o dei cori, la storia senza della quale parecchi passaggi dell'Eneide sarebbero rimasti inintellegibili, la geografia quando bisognava seguire Ulisse nelle tribolazioni del ritorno, l'astronomia quando una stella si levava o tramontava nel ritmo di un verso e le matematiche nella misura richiesta dalla musica e dall'astronomia.

Il rhetor, ovvero il retore, insegna a parlare eloquentemente. L'eloquenza dominava le assemblee. Poco dopo il regime imperiale sotto i Flavi l'eloquenza, soprattutto quella a cui approdavano gli insegnamenti di grammatica e di retorica, si svuotò di ogni contenuto. Quando irruppero i pretoriani nella politica anche l'arte dell'eloquenza fu abbandonata.

Gli studi filosofici non furono mai pienamente accolti a Roma e il senato cacciò dall'Urbe l'accademico Carneade, lo stoico Diogene e il peripatetico ("passeggiatore", ovvero "che insegnava mentre passeggiava") Critolao; Traiano e Adriano la permisero solamente nei paesi d'origine come ad Alessandria e ad Atene. La filosofia aveva continuato a destare prevenzioni sospettose e ironiche e il cittadino che avesse voluto dedicarsi ad essa non aveva che tra due vie: o disporre di un grande patrimonio per mantenere a sue spese un maestro a casa sua, o espatriare in una di quelle lontane città in cui i filosofi potevano esporre liberamente le loro speculazioni.

Il latino lingua della civiltà europea

La lingua latina fa parte del grande gruppo delle lingue indoeuropee. Con questo termine si indica un insieme di lingue appartenenti all'area geografica che va dall'Europa occidentale all'India e accomunate da vari elementi (detti isoglosse). Confrontando infatti le varie lingue non rimangono dubbi sull'esistenza di antichissimi dialetti molto simili fra loro. Tuttavia non si può pensare ad una comune lingua indoeuropea, soprattutto perché le varie popolazioni che parlavano questi dialetti si sono disperse nel corso dei secoli e le loro lingue si sono differenziate. Esaminando le isoglosse si possono stabilire rapporti insospettati fra lingue parlate da popoli lontanissimi fra loro. Ad esempio, il latino rex deriva dalla radice reg- che si riscontra in alcune lingue celtiche (Vercingetorige) o in altre dell'area indiana (maragià, da maha raia). L'esame delle isoglosse lascia sconcertati, facendo intravedere una civiltà che si diffuse dall'Oceano Indiano all'Oceano Atlantico. Alcune antiche lingue indoeuropee sono scomparse (come l'ittita, la lingua parlata nell'impero ittita nel II millennio a.C.) mentre altre hanno dato vita a nuove lingue (come il latino).

Fra il 1400 e il 1000 a.C. varie popolazioni di lingua indoeuropea si diffusero in Italia. Una di esse, che si era insediata su un colle alla sinistra del Tevere fondando il villaggio fortificato di Roma, riuscì ad imporre la sua egemonia a poco a poco in tutto il bacino del Mediterraneo.
La lingua dei vincitori era il latino, ovvero la lingua del Lazio, che rapidamente soppiantò tutte le altre. Si impose più facilmente sulle popolazioni barbariche occidentali, mentre la penetrazione fu quasi nulla nei territori orientali, come la Grecia, che aveva già una sua cultura molto evoluta.

L'unica nazione orientale che conserva una profonda traccia della conquista romana è la Dacia, l'odierna Romania: dalla fusione del latino con la lingua indigena nacque il rumeno. Dell'antica lingua di Roma non sappiamo molto: gli unici documenti a nostra disposizione sono testi scritti, mentre non sappiamo niente della lingua parlata quotidianamente dalla gente. Per di più, il patrimonio letterario dei latini ci è giunto in maniera molto esigua e frammentata. Non abbiamo nemmeno precise informazioni sulla pronuncia, visto che non siamo in grado di riprodurre l'accento latino. Quindi dell'antica lingua di Roma conosciamo solo il latino letterario. A differenza di quello popolare, il latino letterario era uguale dovunque, poiché veniva insegnato nelle scuole di tutta Europa.

Accanto al latino letterario c'era quello parlato dal popolo. Era una lingua molto frammentata che assumeva caratteristiche diverse a seconda delle vicende storiche di ogni regione. Con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente (476 d.C.) le frammentazioni regionali si fecero sempre più forti, al punto che nell'813, in Francia, il Concilio di Tours esortò i preti a predicare in volgare, e non in latino, affinché la gente potesse capire.

Fra i numerosi volgari che stavano nascendo ne prevalsero alcuni, che diedero vita alle lingue neolatine o romanze. Si formarono quindi il portoghese, lo spagnolo, il catalano, il provenzale, l'italiano, il sardo, il rumeno, il ladino e la lingua d'oil da cui derivò il francese.

Verso il XII sec. le nuove lingue volgari iniziarono ad essere usate al posto del latino nella letteratura. Esemplare fu il caso di Dante Alighieri, che scrisse opere sia in volgare sia in latino, a seconda del pubblico a cui intendeva rivolgersi. Con il trionfo delle lingue neolatine, tuttavia, il latino non scomparve ma rimase lingua della Chiesa e della cultura per tutto il Medioevo. Era diverso dal latino classico, ma era in compenso una lingua viva e concreta. Gli Umanisti del '400 volevano riportare a nuovo splendore il latino classico cancellando quello "imbarbarito" dei cronisti medievali; non ci riuscirono, proprio perché era una lingua morta e quindi cristallizzata. Lorenzo Valla scrisse infatti il primo manuale di grammatica e stilistica latina. Il latino rimase comunque vivo come lingua della Chiesa cattolica, della filosofia e della scienza.

Oggi il latino non è più la lingua internazionale della cultura: per complesse ragioni storiche, oggi ha preso il suo posto l'inglese. Tentare di sostituirlo con altre lingue, come l'esperanto, è inutile. Il latino tuttavia rappresenta un elemento unificante della storia dei vari Paesi europei. Conoscerlo ci aiuta a conoscere il nostro passato, per essere padroni del presente e per poter progettare il futuro.

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