Gli Avari
Il popolo degli Avari è di incerta origine ed è identificato da alcuni studiosi con gli Juan-juan e da altri con gli Unni Eftaliti. Le due proposte di identificazione hanno pari dignità poiché tanto gli Juan-juan (mongoli affini ai Sien-pi e originari delle regioni del Gobi settentrionale) quanto gli Unni Eftaliti (turchi insediatisi in Transoxiana e in Battriana tra le città di Samarcanda e di Kabul) furono sconfitti da Ista"mi, re dei Tu-kiue (Tu"rku"t) – rispettivamente nel 552 e nel 565 – e costretti a migrare verso occidente. Va semmai rammentato, sempre per quel che concerne le loro origini, che, secondo il bizantino Teofilatto Simocatta, gli Avari non differivano nell'aspetto esteriore dagli Unni che per un solo particolare: portavano due lunghe code intrecciate sul dorso.
Giunti nelle steppe dell'odierna Ucraina, gli Avari stabilirono dei buoni rapporti con il re degli Alani Sarosios e presero contatto, grazie alla sua mediazione, con i Romani d'Oriente. Le fonti bizantine ricordano a questo proposito come un'ambasceria guidata dall'àvaro Kandikh si sia presentata al cospetto dell'imperatore Giustiniano nel 557 e come una delegazione imperiale capeggiata da un tal Valentinos abbia ottenuto l'alleanza degli Avari nella lotta contro gli Unnuguri e i Sabiri e contro gli unni Kutriguri e Uturguri.
Vinte le genti slave degli Anti, degli Sloveni e dei Vendi, gli Avari avanzarono quindi ad occidente fino alla Turingia dove furono fermati da Sigebert re dei Franchi d'Austrasia. Il loro nuovo khagan, Bayan, alleatosi nel 567 con il re longobardo Alboin, decimò i Gepidi che erano allora insediati tra Sirmium e Belgrado. Bayan sconfisse poi i Bulgari, che, unitisi agli unni Kutriguri, si insediarono nelle attuali Bessarabia e Valacchia. Nel 610, il re àvaro saccheggiò il Friuli; nel 626, accordatosi con il re persiano Khosroe, assediò senza successo Costantinopoli. Nonostante lo scacco subìto sotto le mura di Bisanzio, gli Avari poterono comunque conservare la propria egemonia sull'Europa orientale fino al 791, l'anno in cui Carlo Magno penetrò nel loro territorio fino alla confluenza del Danubio e del Raab.
Fu l'inizio della fine: quattro anni più tardi, il figlio di Carlo, Pipino, con l'appoggio del duca del Friuli Eric, attaccò la loro capitale (il "ring") e razziò una parte del loro tesoro. L'anno seguente (796), una nuova spedizione di Pipino si concluse con la distruzione del ring. La definitiva sottomissione degli Avari, ribellatisi al dominio franco nel 799, va datata però all'803, quando l'ultimo khagan fece atto di dedizione e fu battezzato con il nome di Teodoro.
Gli Slavi
Insediati lungo il corso superiore del fiume Bug, i popoli Slavi delle origini coltivavano i cereali, pascevano i bovini e allevavano le api. Vivevano in un regime di proprietà collettiva della terra detto "zadruga" e, benché cambiassero frequentemente luogo di residenza in cerca di nuove terre da coltivare, non erano nomadi. La loro civiltà era piuttosto primitiva, ma non al punto da ignorare le tecniche di lavorazione dei metalli o i benefici degli scambi commerciali con gli Sciti e con le colonie greche del mar Nero.
Da bravi contadini e allevatori di buoi, veneravano Bogu, il dio donatore della ricchezza, Veles, il dio del bestiame, Mokos, la dea madre-Terra, e Perun, il dio della tempesta. Come i popoli iranici loro confinanti, distinguevano drasticamente, dualisticamente, le divinità buone dalle cattive e definivano il concetto di "fede" con il termine "vera" (scelta). Cremavano i morti e ne deponevano le ceneri in urne (opportunamente forate per far uscire lo spirito dei defunti) che interravano sotto enormi tumuli.
La loro società aveva una struttura politica poco rigida e scarsamente articolata: le parole slave che designarono in seguito le classi sociali dei contadini liberi, smerdi, o dei guerrieri a cavallo, vitiezi, sono infatti dei termini mutuati dalle lingue iraniche o dal tedesco. Anche la loro organizzazione militare, fondata sulla famiglia e sul clan, era molto rudimentale e primitive erano le loro armi: all'arrivo di nemici particolarmente bellicosi essi preferivano quindi fuggire nel folto delle foreste o rinchiudersi in fortezze erette in paludi impenetrabili.
Il loro problema maggiore era dunque costituito dalle genti militarmente formidabili (Germani, Irani, Turchi e Mongoli) con cui confinavano ad ovest e a oriente e non è quindi un caso che, nel corso della loro travagliata storia, gli Slavi siano stati assoggettati a più riprese dai Goti e dai nomadi delle steppe; trascinati fino all'Adriatico e alle rive dell'Elba dalle orde di Attila e dei khagan àvari, e infine cristianizzati, "germanizzati" o respinti oltre l'Oder da re franchi (fine VII -metà IX secolo), imperatori sassoni e cavalieri teutonici (X-XI secolo).
Dopo la distruzione (500 a.C.) della civiltà paleo-slava lusaziana ad opera degli iranici Sciti, gli Slavi furono costretti a lasciare la regione compresa tra l'Elba, l'Oder, la Vistola e il Bug (ben presto occupata da Celti e Germani) e a migrare a oriente. Giunti nelle pianure del Dniepr e del Dniestr, essi caddero dapprima sotto il dominio degli iranici Sarmati Alani, poi dei Goti dei re Hermanrich e Withimer (350-370 ca.), e, infine, degli Unni (370-453).
Se si considerano questi eventi e si tiene conto di queste traversie, non soprende che gli influssi esercitati sulla cultura slava dai popoli delle steppe – e, in particolare, dai Sarmati – risultino oltremodo significativi: è noto ad es. che i termini paleoslavi attinenti alla sfera cultuale, religiosa e spirituale ("divinare", "adorare", "invocare", "guarire", ma anche "fuoco", "calice", "tumulo", "paradiso") sono di origine iranica; che la parola pace (mir) deriva dal nome del dio persiano Mithra; che Bogu (slav. mod. Bog, Dio) corrisponde al vedico Bhaga e che, tanto nello slavo che nell'iranico, dalla radice indoeuropea *Dieus è derivato il nome di un essere demoniaco femminile (iran. Daeva, slav. Deiwas, Divae) e non quello della suprema divinità celeste (Deus, Diauspitar = Iuppiter, Theos, Zeus). Non va inoltre trascurato di segnalare come, nel clima di estrema commistione etnica che caratterizzava le popolazioni nomadi, alcune tribù iraniche abbiano finito con lo slavizzarsi: è il caso degli Anti ricordati dall'"Origo gentis Langobardorum" e da Paolo Diacono, dei Serbi e dei Croati, che un'iscrizione del re persiano Dario ci dice stanziati nel VI sec. a.C. ai confini dell'attuale Afghanistan.
Tra il IV e il V secolo, quegli Slavi che non erano riusciti a mettersi al sicuro a settentrione (nelle odierne "Croazia Bianca", a nord dei Carpazi, e "Serbia Bianca", tra l'Elba e il Saal) furono dunque costretti a seguire le orde degli Unni fino alle pianure dell'odierna Ungheria: Prisco, l'ambasciatore bizantino alla corte di Attila in Pannonia, ricorda difatti il "medos", una bevanda a base di miele (slav. med), mentre lo storico goto Jordanes definisce con il termine slavo "strava" la cerimonia funebre celebrata in onore del re degli Unni.
Affrancatisi dagli Unni, i popoli slavi, cominciarono, nel VI secolo, a migrare verso occidente. La loro avanzata fu senza dubbio, da un lato, determinata dalla pressione esercitata dagli Avari e, dall'altro, favorita dall'annichilimento – o dall'emigrazione – delle principali tribù germaniche del Centroeuropa. Per quanto concerne quest'ultimo punto, va ricordato infatti che i Rugi del medio corso del Danubio erano stati decimati dal re d'Italia Odwakar (Odoacre); che gli Ostrogoti della Pannonia si erano stabiliti in Italia sotto la guida di Theoderich (Teodorico) e, infine, che i Quadi e i Marcomanni erano stati costretti dai Longobardi a lasciare la Boemia e a stanziarsi nella terra che da loro (detti "Boiuvari", uomini della Boemia) prenderà il nome di Baviera. Per quanto riguarda il primo punto, si deve invece rammentare che gli Slavi, dapprima incalzati a oriente dagli Avari, finirono con l'essere assoggettati al loro dominio (550-630 ca.).
Gli studiosi hanno a lungo dibattuto sull'origine del popolo Avaro: per alcuni, gli Avari devono essere identificati con i mongoli Jou-jan; altri studiosi li identificano invece con gli Unni (Hsiung-nu) rifugiatisi presso il lago Balkash dopo la conquista del loro regno da parte degli Hsien-pi, in una regione nota dalle fonti cinesi come Yue-pan: questi Unni, detti Eftaliti, sarebbero stati costretti a fuggire verso occidente per sottrarsi al dominio dei Turchi Tu-chu"e. Gli storici che propendono per quest'ultima interpretazione, fondano la loro ipotesi sulla base delle cronache cinesi in cui sono menzionati i Wu-huan (pronuncia *ahwar =Avari) e i Hsien-pi (pronuncia *sa"bir=Sabiri) e sulla scorta di un passo del bizantino Teofilatto Simocatte relativo agli Avari e agli pseudo-Avari: gli Unni Eftaliti, – gli"pseudo-Avari" di Teofilatto- avrebbero quindi imitato gli Avari (Wu-huan) assumendone anche il loro nome per acquisire la fama e il prestigio di cui questi godevano tra i popoli delle steppe.
Comunque stiano le cose, risulta che gli Avari, assoggettati gli Unni Onoguri e i Sabiri (Hsien-pi), si stanziarono dapprima nel Caucaso settentrionale e in seguito (558), in qualità di federati di Bisanzio, nell'odierna Dobrugia. Di qui espansero il loro dominio nel bacino danubiano-carpatico, sottomisero i popoli Slavi e annientarono i Gèpidi della Pannonia con l'aiuto dei Longobardi, da loro costretti a migrare alla volta dell'Italia (568). Gli Slavi, che già agli inizi del VI secolo avevano perpetrato per proprio conto delle scorrerie ai danni delle città dalmate, macedoni ed epirote, intensificarono dunque i loro saccheggi sotto la guida dei khagan avari: tra gli esiti di di queste violente incursioni, – delle quali va ricordata almeno quella effettuata tra il 592 e il 600 in Istria e in Friuli dagli Sloveni della Carinzia (Carantania) -, si annoverano il completo sradicamento del cristianesimo dalle regioni dell'antica Illiria e l'interruzione delle comunicazioni terrestri tra l'Occidente e Bisanzio.
Anche gli Sloveni, insediatisi al principio del VII secolo in prossimità delle sponde orientali dell'Adriatico, erano dunque sottoposti al dominio esercitato dagli Avari attraverso una serie di presìdi, detti rinch, dislocati lungo le vie che dalla Pannonia portavano alle Alpi Orientali. In cambio della loro sottomissione, essi poterono però avvalersi del supporto avaro nelle guerre da loro sostenute contro i Longobardi e contro i Bavari: sappiamo ad es. che quando gli Sloveni furono battuti nei pressi di Lienz dal duca bavaro Tassilone il khagan avaro intervenne al loro fianco.
Dopo aver esteso il loro dominio su vasta parte dell'Europa centro-orientale, gli Avari, fermati sull'Elba tra il 561 e il 567 dal re franco Chlodwig (Clodoveo), furono sconfitti dall'imperatore bizantino alle porte di Costantinopoli (626). Dopo una tale disfatta, la loro egemonia fu insidiata da una serie di ribellioni di cui furono protagonisti gli Slavi Moravi guidati da Samo (623-659), i Serbi e i Croati, ai quali l'imperatore d'Oriente Eraclio concesse di stanziarsi nelle loro attuali sedi in cambio dell'alleanza anti-avarica con Bisanzio. Dal canto loro, sappiamo che gli Sloveni, guidati dal duca carantano Borut, si ribellarono agli Avari nel 743: la Carantania, riconosciuto il protettorato franco-bavaro, divenne allora il primo tra gli stati slavi a cristianizzarsi (750 circa). Alla fine gli Avari furono annientati da Carlo Magno (796), il quale aveva stabilito, nel frattempo, la propria egemonia in Baviera (788), conquistato il regno longobardo (774) e annientato i Sassoni (772-804).
Al dominio degli Avari nell'Europa centrale successe quindi quello dei Franchi i quali inglobarono nella "Marca" del Friuli tanto gli antichi domini bizantini dell'Istria quanto, – una volta soffocata dall'imperatore Ludwig (Ludovico il Pio) la rivolta del principe croato Ljudevit (819-822) -, i territori degli Sloveni e dei Croati. Per il loro appoggio a Ljudevit, gli Sloveni furono puniti in modo esemplare: i duchi carantani non furono più prescelti nella cerchia dei nobili sloveni e la Carantania fu ben presto assimilata ai ducati tedeschi. Il tentativo franco di estendere a oriente la propria egemonia conquistando la Dalmazia croata terminò invece con il grave scacco subito nell'assedio di Tarsatica (Fiume) dalle truppe del margravio del Friuli Erich. La frantumazione dell'impero franco e la partizione in quattro della Marca del Friuli consentirono infine ai Bulgari del khagan Krum, che aveva sconfitto e ucciso l'imperatore bizantino Niceforo (811) (ed era solito bere nel cranio di questi trasformato in coppa) di dilagare nella Slavonia.
L'Impero d'Oriente
"Struttura statale romana, cultura greca e religione cristiana sono le fonti culturali principali dello sviluppo dell'impero bizantino. Se si prescinde da uno di questi tre elementi, ci si preclude la comprensione della cultura bizantina" (Ostrogorski, p.25). Bisanzio rappresenta dunque il risultato della vittoria del cristianesimo, del virtuale trasferimento del centro politico dell'impero romano nell'Oriente ellenistico e della progressiva simbiosi tra lo Stato e la Chiesa in un unico organismo politico-religioso.
Un potere imperiale autocratico che rivendicò sempre il proprio diritto al governo di tutti i paesi appartenuti all'orbis Romanus e che considerò, secondo la tradizione romana, la religione come una parte del ius publicum si legò dunque ad una grande forza unificatrice come la Chiesa in un'unione che portò vantaggi ad ambedue le istituzioni. Non mancarono tuttavia i reciproci svantaggi: la Chiesa cadde sotto la tutela del potere imperiale; lo Stato si trovò coinvolto nelle interminabili dispute teologiche che dividevano il suo clero.
Questi limiti si manifestarono già al tempo di Costantino il Grande -il quale, com'è noto, sostenne il vescovo Ario contro le risoluzioni del concilio di Nicea- e, mezzo secolo più tardi, quando Valentiniano I, imperatore d'Occidente e seguace della dottrina nicena, si trovò in conflitto con suo fratello Valente, imperatore d'Oriente e seguace dell'arianesimo. La morte di Valente nella battaglia di Adrianopoli nel 378 e il concilio ecumenico di Costantinopoli del 381 segnarono la fine dell'arianesimo, ma non valsero a impedire la disgregazione dell'Impero, riunificato a stento e definitivamente diviso (395) proprio da Teodosio, l'imperatore che aveva elevato il cristianesimo al rango di religione di stato.
Dal caos in cui si dibatteva l'Impero d'Occidente emerse quindi come potenza la Chiesa romana che con papa Leone Magno (440-461) riaffermò il primato spirituale dell'antica capitale sull'ecumene. Ad Oriente, il dissidio teologico sull'unità o la duplicità della natura di Cristo legittimava il conflitto meramente egemonico tra la scuola antiochiena del patriarca Nestorio e quella mistica alessandrina del patriarca Cirillo. L'alleanza tra Roma e Costantinopoli, prima ancora che la condanna dell'eresia monofisita al concilio di Calcedonia (451), valse dunque ad eliminare la pericolosa concorrenza di Alessandria e a riconoscere al patriarca di Bisanzio il primato nella gerarchia ecclesiastica dopo il papa. Una conseguenza immediata e politicamente nefasta di tale concilio fu l'approfondimento della frattura tra il centro bizantino e le province orientali (l'Egitto e la Siria) che rimasero sempre fedeli al monofisismo.
Oltre ai problemi di natura teologica, i successori di Teodosio II, – Marciano (450-457) e Leone I (457-474)-, dovettero però far fronte anche ai rivolgimenti causati dalle invasioni barbariche: in particolare essi dovettero arginare lo strapotere esercitato dai capi militari alani e ostrogoti nella vita politica di Bisanzio. Per liberarsi dalla tutela dei generali barbari -che di fatto avevano imposto al governo di Costantinopoli di far ostinatamente orecchio da mercante alle richieste di aiuto militare provenienti dall'Impero d'Occidente- i due imperatori trovarono un valido alleato negli Isauri, un popolo bellicoso e culturalmente meno progredito degli stessi Germani.
Il capo degli Isauri, Tarasicodissa, alla morte di Leone II, salì dunque al trono imperiale con il nome di Zenone (476-491) proprio nell'anno in cui a occidente l'Impero aveva cessato di esistere e il barbaro Odoacre aveva assunto il potere in Italia, nominalmente come plenipotenziario dell'imperatore di Bisanzio. Un ulteriore passo per la definitiva liberazione della parte orientale dell'impero dalle infiltrazioni germaniche fu compiuto nel 488 quando gli Ostrogoti di Alarico l'amalo, stanziati nei Balcani, furono convinti a dirigersi verso Occidente per abbattere Odoacre con cui Bisanzio si era inimicata. La lotta tra Germani terminò con la vittoria di Teodorico il quale diede vita al regno ostrogoto in Italia (493).
A Zenone era intanto succeduto Anastasio I (491-518), un anziano funzionario di corte, che si rivelò un energico amministratore: a lui si devono infatti i provvedimenti miranti al perfezionamento del sistema monetario introdotto da Costantino il Grande e al cospicuo rafforzamento delle casse dello stato per mezzo di un esoso fiscalismo. Sotto il suo regno si riacutizzò tuttavia la crisi religiosa che, com'è noto, trovò nel contrasto nell'ippodromo tra le opposte fazioni degli "azzurri" e dei "verdi" una sua cruenta espressione. Organizzazioni sportive e politiche che rivestivano l'importante funzione pubblica di milizia cittadina, gli azzurri e i verdi erano capeggiati rispettivamente dai rappresentanti della vecchia aristocrazia senatoriale latifondista greco-romana e dagli esponenti della borghesia commerciale e industriale delle province orientali dell'impero: sostenitori quindi i primi dell'ortodossia greca, del monofisismo e delle altre "eresie" orientali i secondi, i due partiti si trovarono, -come avveniva spesso ma non sempre-, divisi di fronte alle scelte politico-economico-religiose di Anastasio I che fu insultato e fatto segno di un lancio di pietre da parte degli "azzurri".
Ad Anastasio successe il suo capo delle guardie Giustino I (518-527) e a questi successe suo nipote Giustiniano I (527-565). "Giustiniano, il figlio di un contadino proveniente da una provincia dei Balcani, divenne lo spirito più raffinato e colto del secolo; e questo è il segno più evidente della forza civilizzatrice che aveva la capitale bizantina" (Ostrogorski p.60). Egli fu infatti l'ispiratore di tutte le iniziative civili e militari intraprese durante il suo regno: le grandi guerre di conquista condotte dai generali Belisario e Narsete; la grandiosa codificazione giuridica diretta da Triboniano; le misure amministrative introdotte, non sempre con successo, dal prefetto del pretorio Giovanni di Cappadocia contro il prepotere dell'aristocrazia latifondista. La guerra contro i Vandali e la conquista dell'Africa (533-534 seguita però da quattordici anni di conflitti contro le tribù mauritane) e la prima fase della guerra contro gli Ostrogoti (535-540) conclusasi con l'espugnazione della capitale ostrogota Ravenna e la traduzione in catene del re Vitige a Costantinopoli furono dei successi dell'energico generale Belisario. Fu tuttavia Narsete, geniale stratega e scaltro diplomatico, a riportare la definitiva vittoria nel 555 sugli Ostrogoti ribellatisi sotto la guida del re Totila.
Nel frattempo, si era ultimata anche l'annessione della parte meridionale della penisola iberica, sottratta ai Visigoti (554). Le guerre di conquista di Giustiniano ebbero tuttavia delle conseguenze nefaste nei Balcani e in Oriente: il re persiano Kushraw I potè assicurarsi il controllo delle province microasiatiche, mentre nella penisola balcanica i Bulgari e i loro alleati slavi si spinsero con i loro saccheggi fino al golfo di Corinto e al mare Egeo. Ai pericoli esterni si aggiunsero gravi disordini interni: la rivolta di azzurri e verdi coalizzati contro le misure repressive dell'imperatore, che aveva cercato invano di liberarsi della loro influenza, fu sfiancata con abili negoziati da Narsete e repressa manu militari da Belisario.
Il successore e nipote di Giustiniano, Giustino II (565-578) si trovò quindi a capo di un impero economicamente dissestato, travagliato da tensioni interne, reso tributario dei Persiani e mutilato nei territori che da poco aveva riconquistato: i Visigoti riconquistarono infatti ben presto Cordoba (572) mentre i Longobardi, penetrati in Italia nel 568, stabilirono in un breve arco di tempo la loro signoria su una larga parte della penisola. Per giunta, l'affrancamento dell'impero dai mercenari germani aveva imposto all'impero la necessità di ricorrere ad un massiccio reclutamento dei popoli sudditi: la resistenza degli Armeni all'arruolamento coatto fu quindi all'origine di una sanguinosa guerra ventennale risolta dal nuovo imperatore Maurizio (582-602).
Costui diede vita, con i resti dei possedimenti bizantini in Occidente, ai due esarcati di Ravenna e di Cartagine: il sistema delle luogotenenze militari nei territori imperiali "a rischio" prefigurò per molti versi l'organizzazione eracliana dei temi. Maurizio fu però incapace di fronteggiare le incursioni degli Avari e dei popoli slavi nella penisola balcanica e, in conseguenza dei suoi insuccessi, fu destituito dai militari e sostituito al potere da un sottufficiale semibarbaro, Foca (602-610).
Osannato a Roma da Bonifacio III – soprattutto per l'editto con cui riconosceva la chiesa apostolica di S.Pietro come capo di tutte le chiese-, Foca portò con la sua politica di terrore (uccisione in massa degli aristocratici, persecuzione dei monofisiti e dei giudei) l'impero sull'orlo del crollo: così mentre i Persiani avanzavano in oriente fino a Calcedonia (605) e le orde avaro-slave dilagavano nei Balcani, il figlio dell'esarca di Cartagine, Eraclio, giunto a Bisanzio con una grande flotta e accolto entusiasticamente dalla popolazione, depose e uccise il tiranno. "Dalla crisi uscì un'altra Bisanzio, liberata ormai dall'eredità del decadente stato tardo-romano, e alimentata da nuove forze. A questo punto ha inizio la storia bizantina propriamente detta, cioè la storia dell'impero greco medievale."
Fu dunque compito di Eraclio (610-641) fronteggiare, a nord, le immense orde di Avari e Slavi e contrastare, ad oriente, le velleità espansionistiche dei Persiani. A tale scopo l'imperatore procedette ad una riforma -l'organizzazione dei "temi"- che rappresentò il fondamento indispensabile per la formazione di un forte esercito e per la nascita di un assetto amministrativo svincolato dall'eredità del Tardo impero romano. Il fulcro della riforma eracliana consisteva nella creazione di circoscrizioni militari e nel dislocamento dei vari corpi d'armata (temi) in ciascuna di queste regioni. In cambio dell'obbligo a prestare servizio in forma permanente ed ereditaria, ai soldati fu attribuità la proprietà ereditaria di fondi da cui potevano trarre i mezzi per il proprio sostentamento. Questi fondi furono conferiti in seguito anche ad una parte dei contadini bizantini -che furono così obbligati al servizio militare- e ad un gran numero di Slavi trapiantati in Asia Minore sotto i successori di Eraclio.
La riforma comportò quindi una straordinaria riduzione delle spese militari (la voce più rilevante del bilancio passivo dello stato) e incentivò, al tempo stesso, lo sviluppo della piccola proprietà contadina a scapito del latifondo. Sul piano militare, su Costantinopoli incombevano da una parte gli Avari e gli Slavi che, distrutta Salona (614), la capitale romano-bizantina della Dalmazia, avevano ridotto in loro potere l'intera penisola balcanica, ad eccezione delle città di Zara, Traù, Scutari e Lisso; dall'altra i Persiani, che, occupate Damasco, Tarso e l'Armenia e saccheggiata Gerusalemme (incendio della chiesa del Santo Sepolcro edificata da Costantino il Grande, furto della più preziosa delle reliquie, la Santa Croce), erano sul punto di conquistare la più ricca provincia dell'Impero, l'Egitto.
Il momento di massima crisi fu raggiunto nel 626, quando il generale persiano Shahrbaraz arrivò ad accamparsi sul Bosforo e il khan degli Avari, alla testa di innumerevoli schiere di Slavi, Bulgari e Gepidi apparve alle porte di Costantinopoli. La sconfitta inflitta dalla flotta bizantina alle navi slave indusse gli Avari a toglier l'assedio e a battere disordinatamente in ritirata; i successi sui Persiani furono invece il preludio dell'avanzata bizantina nel cuore dell'impero nemico, della vittoria di Ninive (627), dell'espugnazione della capitale sassanide Dastagerd, e della riconquista di tutti i territori che erano appartenuti a Bisanzio. Così mentre la disfatta degli Avari si tradusse nell'insurrezione, abilmente pilotata da Bisanzio, dei popoli slavi al dominio dei khan, le vittorie in oriente inflissero un colpo decisivo alla potenza persiana, di lì a poco annientata dagli Arabi.
La riconquista delle province orientali ripropose il problema del monofisismo, particolarmente diffuso in Siria e in Egitto. I tentativi del patriarca di Costantinopoli Sergio di ristabilire la pace religiosa attraverso una posizione di compromesso (la dottrina monoenergetica, secondo cui alle due nature -umana e divina- di Cristo corrispondeva un'unica forza agente ) incontrarono l'opposizione del patriarca di Gerusalemme Sofronio. Come in passato avevano facilitato la conquista persiana, queste controversie religiose resero agevole la conquista araba. Sconfitta al primo attacco la Persia, gli Arabi conquistarono l'Oriente e l'Egitto (642). La situazione si fece ancor più pericolosa quando il successore di 'Omar il conquistatore, il califfo Mu'awiya, avendo compreso che la guerra contro Bisanzio non poteva esser condotta senza una flotta, mosse per mare alla volta di Cipro, di Coo e di Rodi e le conquistò.
L'imperatore Costante II (641-668), nipote di Eraclio, gli diede battaglia al largo della Lidia ma fu sconfitto. Solo lo scoppio di un'aspra guerra civile tra Mu'awiya e Alì, il genero del profeta Maometto, consentì una tregua a Costante che potè quindi intraprendere, probabilmente in Macedonia, una campagna militare contro gli Slavi.
Il cesaropapismo dell'imperatore – il quale aveva fatto arrestare dall'Esarca di Ravenna il papa Martino, salito sul trono papale nel 649 senza il suo beneplacito- creò un clima di forti tensioni interne. In particolare, l'ostilità della popolazione di Bisanzio per l'arresto di Massimo Confessore, il capo dell'opposizione ortodossa al monotelismo, indusse Costante II a lasciare Costantinopoli. Nel 663 l'imperatore sbarcò quindi a Taranto e diede inizio ad una campagna militare contro i Longobardi. Dopo qualche successo, Costante si vide costretto ad assediare Benevento. Le sue risorse militari, nonostante le brutali estorsioni inflitte ai sudditi italiani, si rivelarono però insufficienti e l'imperatore fu costretto ad interrompere l'assedio e a ritirarsi a Napoli. Di qui si diresse a Roma dove fu accolto da papa Vitaliano. Dopo 12 giorni di visita, Costante tornò a Napoli e si recò in Sicilia. Stabilì quindi a Siracusa la sua corte ma i duri gravami imposti per il mantenimento della sua corte gli alienarono presto le simpatie di tutti e nel 668 l'imperatore cadde vittima di una congiura di palazzo.
Il regno del figlio e successore di Costante II, Costantino IV (668-685), segnò la svolta della guerra arabo-bizantina. Conquistate, oltre a Cipro, Rodi e Coo anche Chio e la penisola di Cizico, la flotta araba apparve nel 674 di fronte alle mura di Costantinopoli. Il lungo assedio arabo fu sventato intorno al 678 grazie al celebre "fuoco greco" dell'architetto greco-siriano Callinico: un esplosivo segreto che veniva scagliato a grande distanza sulle navi nemiche per mezzo di un "sifone". La flotta araba, più volte sconfitta, subì quindi nuove perdite a causa di una tempesta al largo dell'Asia minore e, a seguito della disfatta, Mu'awiya si vide costretto a concludere una sfavorevole pace trentennale con Bisanzio.
Stipulata la pace con gli Arabi, omaggiato dalle ambascerie dei popoli avari e slavi insediati nei Balcani, Costantino IV si accinse dunque a marciare contro i Bulgari. Sotto la pressione dei Kazari, questo popolo di stirpe turca minacciava infatti il confine danubiano. La spedizione di Costantino non solo fu infruttuosa, ma finì con aprire la strada ai nemici che penetrarono nell'antica Mesia. I Bulgari del khan Asparuch sottomisero quindi le genti slave che da tempo si erano insediate in quell'area e con "grande onta per il popolo romano" imposero a Bisanzio il pagamento di tributi annui. Nel frattempo gli sviluppi della situazione in Oriente costrinsero l'imperatore a rivedere la sua politica ecclesiastica: essendo ormai inutile ogni concessione agli orientali caduti in mano agli Arabi, Costantino IV rinunciò al monotelismo e convocò un concilio che elevò di nuovo a dogma la dottrina delle due energie e delle due volontà.
Suo figlio e successore, Giustiniano II (685-695, 705-711), noto per aver intrapreso una grande campagna contro i domini slavi (Sclavinie) dei Balcani e per aver trasferito un gran numero di Slavi in un tema dell'Asia minore, fu un sovrano così "cristiano" da definirsi sulle sue monete "servus Christi" e da effigiare, sul loro verso, primo tra gli imperatori bizantini, la figura di Cristo. Sotto il suo regno (691-692) si tenne un concilio, chiamato Quinisextum, in cui furono stabiliti dei canoni disciplinari relativi alla costituzione ecclesiastica e alla morale del popolo e del clero e in cui si manifestarono le opposte posizioni della Chiesa ori entale e di quella occidentale in materia di matrimonio dei sacerdoti e di digiuno del sabato. Appare evidente che questi disaccordi, tutt'altro che inerenti ai problemi di fede, erano il risultato dello sviluppo sempre più divergente delle due metropoli di Roma e di Costantinopoli. Il rifiuto da parte del papa delle conclusioni del Quinisextum fu quindi il pretesto per l'arresto del pontefice: le milizie di Roma e dell'Esarcato di Ravenna disobbedirono però agli ordini dell'imperatore con la conseguenza che l'agente inviato a Roma per arrestare il papa ebbe salva la vita solo grazie alla magnanimità del pontefice.
Intanto, l'opposizione alla politica imperiale in favore della piccola proprietà contadina sfociava in una rivolta (695): l'imperatore, subìto il taglio del naso, fu esiliato a Cherson. I torbidi che seguirono alla detronizzazione di Giustiniano II favorirono l'avanzata degli Arabi, i quali irruppero in Africa e occuparono Cartagine (697). Giustiniano II, fuggito dapprima presso i Kazari e poi sulle rive del Mar Nero, si accordò con il khan bulgaro Tervel e alla testa di un grande esercito bulgaro-slavo fece ingresso a Costantinopoli.
Conferito a Tervel il titolo di Cesare, l'imperatore, preferì vendicarsi ferocemente dei suoi nemici che fronteggiare gli Arabi i quali dilagarono in Cappadocia e in Cilicia: l'imperatore fece quindi devastare Ravenna, imprigionare i suoi cittadini più eminenti e cavare gli occhi al suo vescovo. Egli organizzò anche una spedizione punitiva contro Cherson, ma la popolazione della città, ribellatasi con l'appoggio dei Kazari, ottenne l'appoggio dell'esercito che si ammutinò e impose sul trono l'armeno Bardane Filippico (711-713). Con l'assassinio di Giustiniano II ebbe dunque fine la dinastia di Eraclio.
Il nuovo imperatore dovette intraprendere una difficile guerra con i Bulgari del khan Tervel, che, con il pretesto di vendicare il loro antico alleato Giustiniano II, avanzarono fino a Costantinopoli e ne saccheggiarono i sobborghi. Le truppe bizantine richiamate dall'Asia Minore e dispiegate contro i Bulgari si ribellarono e Filippico fu deposto e accecato (713).
Il nuovo imperatore, Anastasio II (713-715), ebbe solo il tempo di riorganizzare le difese di Costantinopoli: i soldati Gotogreci (Ostrogoti grecizzati che abitavano dal tempo delle invasioni in Asia Minore) imposero sul trono imperiale Teodosio III il quale fu a sua volta spodestato da Leone III (717-741), l'ex governatore (stratego) del tema anatolico.
Sotto Leone, la città di Costantinopoli resistette ad un nuovo lungo assedio arabo (717-718): sconfitti dal fuoco greco della flotta bizantina, gli Arabi furono attaccati anche dai Bulgari e, nel Caucaso e in Armenia, dai Kazari, tradizionali amici di Bisanzio. Oltre che per le sue doti di capo militare, Leone III si segnalò anche come amministratore: perfezionò il sistema amministrativo dei temi e pubblicò nel 726 un libro di diritto, l'Ekloge, in cui erano riportate le più importanti norme in materia di diritto civile e penale e in cui il diritto classico, che pur sta a fondamento del manuale, viene rivisto e attualizzato.
Sotto il suo regno ebbe inizio la grande controversia sul culto delle immagini, una polemica in un certo senso preannunciata già al tempo di Filippico Bardane il quale, convinto monotelita, aveva fatto distruggere un dipinto nel palazzo imperiale rappresentante il concilio che aveva condannato il monoteletismo. Per comprendere il significato della crisi iconoclastica si deve considerare che nella Chiesa greca il culto delle immagini aveva raggiunto, nell'età post-giustinianea, una tal diffusione da diventare una delle forme principali della religiosità bizantina. L'opposizione a questa forma di culto era particolarmente forte nelle regioni orientali dove non solo continuava ad esistere il monofisismo ma anche erano più sentite le influenze delle religioni ebraica ed araba (nelle quali, com'è noto, vige il rigoroso divieto delle immagini). Da queste regioni proveniva anche Leone III, che, come stratego dell'Anatolia, aveva inoltre trascorso molti anni nell'oriente bizantino. Un forte terremoto che egli considerò come un segno dell'ira divina contro l'idolatria pagana e la pressione dei vescovi iconoclasti dell'Asia minore indussero quindi l'imperatore (726) a pronunciarsi pubblicamente contro il culto delle icone. Dopo una fase di trattative infruttuose con il patriarca di Costantinopoli e con papa Gregorio II, -che cercò comunque di evitare una rottura con l'imperatore, Leone impose nel 730 la distruzione delle immagini di culto. L'editto iconoclasta segnò la tanto a lungo ritardata rottura tra Roma e Costantinopoli ed ebbe come conseguenza il sensibile indebolimento delle posizioni bizantine in Italia.
La fase più acuta dell'iconoclastia corrispose al regno del figlio di Leone III, Costantino V (741-775): la controversia tra gli anticonoclasti (che legittimavano la rappresentazione di Cristo con il fatto che il figlio di Dio si era incarnato) e gli iconoclasti -tra i quali l'imperatore- (che sostenevano invece che Cristo, a causa della sua natura divina, non poteva essere raffigurato) finì con collegarsi alla vecchia disputa cristologica sull'unità o sulla duplicità della natura del figlio di Dio. Un sinodo riunitosi a Hieria nel 754 vietò le immagini di culto e le icone furono dappertutto distrutte e sostituite da dipinti di argomento profano o raffiguranti l'imperatore. La fiera opposizione del mondo monastico bizantino a tale risoluzione fu duramente repressa: i monasteri vennero chiusi o trasformati in caserme, in terme e le loro immense proprietà terriere furono confiscate dalla corona.
Sul piano politico-militare, Costantino V ottenne delle grandi vittorie sui Bulgari e sugli Arabi che avevano attaccato l'Impero. Inoltre, la crisi politica che segnò il passaggio dalla dinastia araba degli Omayyadi a quella degli Abbasidi gli consentì di passare alla controffensiva in Oriente. Contro i Bulgari, l'imperatore intraprese invece ben nove spedizioni approfittando dei conflitti tra le masse slave e la vecchia nobiltà turco-bulgara (Boiari) preoccupata della preservazione dei propri privilegi.
Intanto, in Italia, Ravenna cadeva in mano dei Longobardi (751): il papa Stefano II, persa ogni speranza di trovare protezione a Oriente, attraversò dunque le Alpi e si incontrò a Ponthion con il re dei Franchi Pipino cui chiese aiuto. Come tutta risposta, l'imperatore sottrasse a Roma l'Illirico e le province grecizzate della Calabria e della Sicilia e le sottopose al patriarcato di Costantinopoli, sancendo di fatto la fine dell'universalismo della chiesa cristiana.
Il regno del figlio e successore di Costantino V, Leone IV (775-780), segnò la fine degli eccessi antimonastici e iconoclasti. La morte precoce dell'imperatore portò al trono suo figlio Costantino VI, di soli dieci anni. La reggenza fu affidata ufficialmente alla moglie di Leone IV, Irene, la quale presiedette il concilio ecumenico di Nicea che condannò nel 786 l'iconoclastia. Gli elementi iconoclasti, sconfitti ma non domi, si radunarono quindi intorno a Costantino VI, al quale, pur maggiorenne, Irene non consentiva di regnare. La lunga lotta che oppose madre e figlio si concluse nel 797, quando l'imperatore fu ucciso a palazzo per ordine della stessa Irene.
Costei divenne dunque la prima donna che governò l'impero (797-802) non come reggente ma come autocrate con il titolo non di basilissa (regina) ma di basileus (re). L'imperatrice fu a sua volta eliminata da una congiura di palazzo nell'802. Sulla sua sorte pesarono di certo gli insuccessi militari registrati da Bisanzio contro Bulgari ed Arabi e la definitiva scissione con Roma conseguente all'abbattimento e l'annessione del regno longobardo da parte del nuovo re dei Franchi Carlo Magno. Costui aveva, agli occhi di Roma, adempiuto al compito cui Bisanzio si era dimostrata incapace. Va ricordato inoltre che il concilio di Nicea, pur sancendo il ritorno di Bisanzio all'ortodossia, non aveva portato ad una vera riconciliazione tra le due metropoli. In particolare, le richieste di carattere politico del papa Adriano I (restituzione dei diritti giurisdizionali del papato sull'Italia meridionale e sull'Illirico, il diritto di Roma al primato) erano state ignorate.
Il suo successore papa Leone III aderì quindi senza riserve all'alleanza con i Franchi e suggellò con una decisione rivoluzionaria la propria condotta politica: il 25 dicembre dell'800, nella Chiesa di San Pietro a Roma impose a Carlo Magno la corona imperiale. "La fondazione dell'impero di Carlo Magno ebbe nella sfera politica la stessa importanza rivoluzionaria che ebbe più tardi nella sfera religiosa lo scisma. Per il mondo di allora era un assioma che potesse esistere un solo impero, come anche una sola Chiesa cristiana…La divisione tra Oriente e Occidente che si era andata preparando attraverso un processo secolare, e che era diventata evidente nell'età della crisi iconoclastica, si era ormai compiuta anche nella sfera politica. L'ecumene si divise in due parti diverse dal punto di vista linguistico, culturale, politico e religioso( Ostrogorski p.168)".
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