Il canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta il vero ingresso di Dante nel regno dei dannati, dove si trovano gli ignavi e avviene l’incontro con Caronte. Il canto si apre con la celebre iscrizione sulla porta infernale e si conclude con lo svenimento di Dante dopo un terremoto e un lampo vermiglio. Le terzine incatenate (schema ABA, BCB, CDC…) creano un ritmo poetico rigoroso che accompagna il lettore attraverso questo passaggio cruciale.
Indice:
- Parafrasi e testo del Canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia
- Canto 3 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 3 Inferno della Divina Commedia: I Personaggi
- Analisi del Canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia
- I temi principali del Canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia
- Il Canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia in pillole
Parafrasi e testo del Canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia
La struttura metrica delle terzine riflette l’ordine cosmico che Dante vuole rappresentare: anche nell’Inferno, luogo del caos e della sofferenza, vige un ordine stabilito dalla giustizia divina. Il contrasto tra questo ordine formale e il disordine delle anime dannate accentua il messaggio morale dell’opera.
La tabella che segue presenta il testo originale del Canto 3 dell’Inferno con la relativa parafrasi, permettendo di comprendere appieno il significato dei versi danteschi:
Testo originale | Parafrasi |
---|---|
Per me si va ne la città dolente, | Attraverso me si entra nella città della sofferenza, |
per me si va ne l’etterno dolore, | attraverso me si va nel dolore eterno, |
per me si va tra la perduta gente. | attraverso me si va tra la gente dannata. |
Giustizia mosse il mio alto fattore; | La giustizia mosse il mio nobile creatore (Dio); |
fecemi la divina podestate, | mi crearono la potenza divina, |
la somma sapïenza e ‘l primo amore. | la suprema sapienza e il primo amore. |
Dinanzi a me non fuor cose create | Prima di me non furono create cose |
se non etterne, e io etterno duro. | se non etterne, e io durerò in eterno. |
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate. | Abbandonate ogni speranza, voi che entrate. |
Queste parole di colore oscuro | Queste parole di significato cupo |
vid’ïo scritte al sommo d’una porta; | vidi scritte sopra una porta; |
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro». | perciò io dissi: «Maestro, il loro significato mi è difficile». |
Ed elli a me, come persona accorta: | Ed egli a me, come persona saggia: |
«Qui si convien lasciare ogne sospetto; | «Qui conviene abbandonare ogni timore; |
ogne viltà convien che qui sia morta. | ogni viltà deve qui essere morta. |
Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto | Siamo giunti al luogo in cui ti ho detto |
che tu vedrai le genti dolorose | che vedrai le genti sofferenti |
c’hanno perduto il ben de l’intelletto». | che hanno perduto il bene dell’intelletto (Dio)». |
E poi che la sua mano a la mia puose | E dopo che pose la sua mano sulla mia |
con lieto volto, ond’io mi confortai, | con volto rasserenante, per cui mi confortai, |
mi mise dentro a le segrete cose. | mi condusse dentro alle cose nascoste. |
Quivi sospiri, pianti e alti guai | Qui sospiri, pianti e forti lamenti |
risonavan per l’aere sanza stelle, | risuonavano per l’aria senza stelle, |
per ch’io al cominciar ne lagrimai. | per cui io all’inizio ne piansi. |
Diverse lingue, orribili favelle, | Lingue diverse, discorsi orribili, |
parole di dolore, accenti d’ira, | parole di dolore, toni di rabbia, |
voci alte e fioche, e suon di man con elle | voci alte e deboli, e suono di mani insieme a esse |
facevano un tumulto, il qual s’aggira | formavano un tumulto, che si muove |
sempre in quell’aura sanza tempo tinta, | sempre in quell’aria tenebrosa senza tempo, |
come la rena quando turbo spira. | come la sabbia quando soffia il turbine. |
E io ch’avea d’error la testa cinta, | E io che avevo la mente confusa dall’incertezza, |
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo? | dissi: «Maestro, che cos’è ciò che odo? |
e che gent’è che par nel duol sì vinta?» | e che gente è questa che sembra così vinta dal dolore?» |
Ed elli a me: «Questo misero modo | Ed egli a me: «Questa misera condizione |
tegnon l’anime triste di coloro | mantengono le anime infelici di coloro |
che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo. | che vissero senza infamia e senza lode. |
Mischiate sono a quel cattivo coro | Sono mescolate a quel malvagio coro |
de li angeli che non furon ribelli | degli angeli che non furono ribelli |
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. | né furono fedeli a Dio, ma furono per sé stessi. |
Caccianli i ciel per non esser men belli, | Li scacciano i cieli per non essere meno belli, |
né lo profondo inferno li riceve, | né il profondo inferno li accoglie, |
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli». | perché i dannati avrebbero da loro qualche vantaggio». |
E io: «Maestro, che è tanto greve | E io: «Maestro, cosa è tanto penoso |
a lor che lamentar li fa sì forte?» | per loro che li fa lamentare così intensamente?» |
Rispuose: «Dicerolti molto breve. | Rispose: «Te lo dirò molto brevemente. |
Questi non hanno speranza di morte, | Costoro non hanno speranza di morte, |
e la lor cieca vita è tanto bassa, | e la loro cieca vita è tanto misera, |
che ‘nvidïosi son d’ogne altra sorte. | che sono invidiosi di ogni altra condizione. |
Fama di loro il mondo esser non lassa; | Il mondo non lascia esistere la loro fama; |
misericordia e giustizia li sdegna: | misericordia e giustizia li disprezzano: |
non ragioniam di lor, ma guarda e passa». | non parliamo di loro, ma guarda e passa». |
E io, che riguardai, vidi una ‘nsegna | E io, che guardai attentamente, vidi un’insegna |
che girando correva tanto ratta, | che correva girando tanto velocemente, |
che d’ogne posa mi parea indegna; | che mi sembrava indegna di ogni riposo; |
e dietro le venìa sì lunga tratta | e dietro le veniva una fila così lunga |
di gente, ch’i’ non averei creduto | di gente, che io non avrei creduto |
che morte tanta n’avesse disfatta. | che la morte ne avesse disfatta tanta. |
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, | Dopo che vi ebbi riconosciuto qualcuno, |
vidi e conobbi l’ombra di colui | vidi e riconobbi l’ombra di colui |
che fece per viltade il gran rifiuto. | che fece per viltà il gran rifiuto. |
Incontanente intesi e certo fui | Immediatamente compresi e fui certo |
che questa era la setta d’i cattivi, | che questa era la schiera dei vili, |
a Dio spiacenti e a’ nemici sui. | spiacenti a Dio e ai suoi nemici. |
Questi sciaurati, che mai non fur vivi, | Questi sciagurati, che non furono mai veramente vivi, |
erano ignudi e stimolati molto | erano nudi e molto tormentati |
da mosconi e da vespe ch’eran ivi. | da mosconi e da vespe che erano lì. |
Elle rigavan lor di sangue il volto, | Essi rigavano loro di sangue il volto, |
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi | che, mescolato alle lacrime, ai loro piedi |
da fastidiosi vermi era ricolto. | era raccolto da vermi disgustosi. |
E poi ch’a riguardar oltre mi diedi, | E dopo che mi misi a guardare oltre, |
vidi genti a la riva d’un gran fiume; | vidi gente sulla riva di un grande fiume; |
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi | per cui dissi: «Maestro, ora concedimi |
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume | che io sappia chi sono, e quale usanza |
le fa di trapassar parer sì pronte, | li fa sembrare così desiderosi di attraversare, |
com’i’ discerno per lo fioco lume». | come distinguo in questa luce fioca». |
Ed elli a me: «Le cose ti fier conte | Ed egli a me: «Le cose ti saranno note |
quando noi fermerem li nostri passi | quando fermeremo i nostri passi |
su la trista riviera d’Acheronte». | sulla triste riva dell’Acheronte». |
Allor con li occhi vergognosi e bassi, | Allora con gli occhi vergognosi e bassi, |
temendo no ‘l mio dir li fosse grave, | temendo che il mio parlare gli fosse molesto, |
infino al fiume del parlar mi trassi. | fino al fiume mi trattenni dal parlare. |
Ed ecco verso noi venir per nave | Ed ecco venire verso di noi su una nave |
un vecchio, bianco per antico pelo, | un vecchio, bianco per la chioma antica, |
gridando: «Guai a voi, anime prave! | gridando: «Guai a voi, anime malvagie! |
Non isperate mai veder lo cielo: | Non sperate mai di vedere il cielo: |
i’ vegno per menarvi a l’altra riva | io vengo per condurvi all’altra riva |
ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo. | nelle tenebre eterne, nel caldo e nel gelo. |
E tu che se’ costì, anima viva, | E tu che sei qui, anima viva, |
pàrtiti da cotesti che son morti». | allontanati da questi che sono morti». |
Ma poi che vide ch’io non mi partiva, | Ma poi che vide che io non mi allontanavo, |
disse: «Per altra via, per altri porti | disse: «Per altra via, per altri porti |
verrai a piaggia, non qui, per passare: | verrai alla spiaggia, non qui, per attraversare: |
più lieve legno convien che ti porti». | occorre che ti trasporti un legno più leggero». |
E ‘l duca lui: «Caron, non ti crucciare: | E la mia guida a lui: «Caronte, non arrabbiarti: |
vuolsi così colà dove si puote | si vuole così là dove si può |
ciò che si vuole, e più non dimandare». | ciò che si vuole, e non chiedere altro». |
Quinci fuor quete le lanose gote | A questo punto si calmarono le guance pelose |
al nocchier de la livida palude, | del nocchiero della palude livida, |
che ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote. | che intorno agli occhi aveva cerchi di fiamme. |
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude, | Ma quelle anime, che erano stanche e nude, |
cangiar colore e dibattero i denti, | cambiarono colore e batterono i denti, |
ratto che ‘nteser le parole crude. | non appena intesero le parole crudeli. |
Bestemmiavano Dio e lor parenti, | Bestemmiavano Dio e i loro genitori, |
l’umana spezie e ‘l loco e ‘l tempo e ‘l seme | la specie umana e il luogo e il tempo e il seme |
di lor semenza e di lor nascimenti. | della loro generazione e della loro nascita. |
Poi si ritrasser tutte quante insieme, | Poi si ritrassero tutte quante insieme, |
forte piangendo, a la riva malvagia | piangendo fortemente, alla riva malvagia |
ch’attende ciascun uom che Dio non teme. | che attende ciascun uomo che non teme Dio. |
Caron dimonio, con occhi di bragia | Caronte demonio, con occhi di brace |
loro accennando, tutte le raccoglie; | facendo loro cenno, le raccoglie tutte; |
batte col remo qualunque s’adagia. | colpisce col remo chiunque indugia. |
Come d’autunno si levan le foglie | Come in autunno cadono le foglie |
l’una appresso de l’altra, fin che ‘l ramo | l’una dopo l’altra, finché il ramo |
vede a la terra tutte le sue spoglie, | vede a terra tutte le sue spoglie, |
similemente il mal seme d’Adamo | similmente la malvagia stirpe di Adamo |
gittansi di quel lito ad una ad una, | si getta da quella riva ad una ad una, |
per cenni come augel per suo richiamo. | a un cenno come l’uccello al suo richiamo. |
Così sen vanno su per l’onda bruna, | Così se ne vanno su per l’onda scura, |
e avanti che sien di là discese, | e prima che siano sbarcate di là, |
anche di qua nuova schiera s’auna. | anche di qua si raduna una nuova schiera. |
«Figliuol mio», disse ‘l maestro cortese, | «Figlio mio», disse il maestro gentile, |
«quelli che muoion ne l’ira di Dio | «quelli che muoiono nell’ira di Dio |
tutti convegnon qui d’ogne paese; | tutti convengono qui da ogni paese; |
e pronti sono a trapassar lo rio, | e sono pronti ad attraversare il fiume, |
ché la divina giustizia li sprona, | perché la divina giustizia li sprona, |
sì che la tema si volve in disio. | così che il timore si trasforma in desiderio. |
Quinci non passa mai anima buona; | Di qui non passa mai anima buona; |
e perché, se Caron di te si lagna, | e perciò, se Caronte si lamenta di te, |
ben puoi sapere omai che ‘l suo dir suona». | puoi ben capire ormai cosa significano le sue parole». |
Finito questo, la buia campagna | Finito questo, la buia pianura |
tremò sì forte, che de lo spavento | tremò così forte, che dello spavento |
la mente di sudore ancor mi bagna. | la mente ancora mi si bagna di sudore. |
La terra lagrimosa diede vento, | La terra dolorosa emise un vento, |
che balenò una luce vermiglia | che fece balenare una luce vermiglia |
la qual mi vinse ciascun sentimento; | la quale mi vinse ogni senso; |
e caddi come l’uom cui sonno piglia. | e caddi come l’uomo che è colto dal sonno. |
Canto 3 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia si articola in tre sequenze narrative principali che introducono il lettore alla realtà infernale.
La porta dell’Inferno e la sua iscrizione (vv. 1-21)
Nella prima parte, Dante e Virgilio giungono davanti alla porta dell’Inferno, sulla quale campeggia una celebre iscrizione che inizia con l’anafora “Per me si va” ripetuta tre volte, a sottolineare l’inesorabilità del passaggio. L’epigrafe spiega che l’Inferno è stato creato dalla giustizia divina (“Giustizia mosse il mio alto fattore”) per punire eternamente i peccatori. Il verso più memorabile, “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” (v. 9), sintetizza l’essenza della dannazione: l’impossibilità di redenzione e la permanenza della pena.
Dante, turbato da queste parole, chiede spiegazioni a Virgilio, che lo invita ad abbandonare ogni timore (“Qui si convien lasciare ogne sospetto; / ogne viltà convien che qui sia morta”, vv. 14-15) poiché stanno per incontrare coloro che hanno perso “il ben de l’intelletto”, ovvero la capacità di contemplare Dio.
Gli ignavi e il loro contrappasso (vv. 22-69)
Superata la porta, Dante si trova nell’antinferno, dove sono puniti gli ignavi, coloro che vissero “sanza ‘nfamia e sanza lodo” (v. 36), rifiutandosi di prendere posizione tra bene e male. Il contrappasso, principio della giustizia divina per cui la pena rispecchia o contrasta il peccato, si manifesta qui in modo emblematico: chi in vita non seguì mai un’insegna o un ideale è ora condannato a inseguire eternamente un vessillo bianco che corre vorticosamente, punto da vespe e mosconi che fanno sanguinare i dannati.
Questa punizione è particolarmente significativa perché riflette l’anonimato morale di queste anime che, non avendo mai preso posizione, non meritano nemmeno di essere ricordate: “non ragioniam di lor, ma guarda e passa” (v. 51). Tra questi ignavi, Dante riconosce “l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto” (vv. 59-60), tradizionalmente identificato con papa Celestino V, che rinunciò al papato nel 1294, permettendo l’ascesa di Bonifacio VIII.
Caronte e l’attraversamento dell’Acheronte (vv. 70-136)
Nella terza sequenza, Dante e Virgilio raggiungono la riva del fiume Acheronte, confine simbolico tra il mondo dei vivi e l’Inferno vero e proprio. Qui incontrano Caronte, il demonio traghettatore delle anime, descritto come un vecchio dalla barba bianca e dagli occhi infuocati (“un vecchio, bianco per antico pelo”, v. 83).
Caronte inizialmente si rifiuta di trasportare Dante, riconoscendolo come vivo (“E tu che se’ costì, anima viva”, v. 88), ma Virgilio lo zittisce con la formula “vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole” (vv. 95-96), rivelando che il viaggio è voluto da Dio stesso.
Dante assiste quindi all’arrivo delle anime dannate che, saputo il proprio destino, imprecano contro Dio, i propri genitori e la propria nascita. Caronte le raccoglie colpendo con il remo chi indugia, in una scena che Dante descrive con una potente similitudine autunnale: “Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra” (vv. 112-113), paragone che evoca fragilità e caducità.
Il canto si conclude con un terremoto seguito da un lampo di luce rossa che fa svenire Dante. Questo svenimento rappresenta simbolicamente l’impossibilità per un vivo di attraversare coscientemente il confine con l’aldilà e segna la transizione verso il canto successivo, quando il poeta si ritroverà già sul primo cerchio infernale.
In questo canto di soglia tra il mondo terreno e l’aldilà, Dante stabilisce i principi morali che reggeranno l’intero viaggio infernale: la giustizia divina come motore della punizione, il contrappasso come criterio di pena, e la necessità di schierarsi attivamente dalla parte del bene, poiché persino l’indifferenza morale merita condanna. Il pellegrino Dante comincia qui la sua trasformazione spirituale, confrontandosi per la prima volta con la realtà del male e iniziando a comprendere la logica divina che sottende alla dannazione.
Canto 3 Inferno della Divina Commedia: I Personaggi
Nel 3 canto dell’Inferno della Divina Commedia, Dante presenta diversi personaggi che svolgono ruoli fondamentali nell’evoluzione narrativa e nella costruzione del significato allegorico dell’opera. Esaminiamo i protagonisti di questo canto e la loro funzione simbolica.
Dante Pellegrino
Dante personaggio è il protagonista del viaggio ultraterreno. In questo canto lo vediamo attraversare importanti momenti di trasformazione:
- All’inizio mostra timore e confusione davanti alla porta infernale, ammettendo che il senso dell’iscrizione gli appare “duro” (v. 12)
- Si commuove fino alle lacrime udendo i lamenti dei dannati (v. 24)
- Manifesta curiosità intellettuale, chiedendo spiegazioni a Virgilio sugli ignavi (v. 32)
- Sviene alla fine del canto, simboleggiando l’impossibilità per un vivo di attraversare consapevolmente il confine con l’aldilà (v. 136)
Questo percorso emotivo rappresenta l’inizio della trasformazione spirituale che caratterizzerà l’intero viaggio dantesco.
Virgilio
Virgilio mantiene il suo ruolo di guida saggia e rassicurante:
- Conforta Dante davanti alla porta infernale (“Qui si convien lasciare ogne sospetto”, v. 14)
- Spiega con autorevolezza la condizione degli ignavi (vv. 34-69)
- Gestisce con fermezza l’incontro con Caronte, utilizzando la formula “vuolsi così colà dove si puote” (v. 95)
- Rappresenta la ragione umana che illumina il cammino attraverso il peccato
In questo canto, Virgilio mostra una particolare autorevolezza nei confronti delle creature infernali, rivelando che il viaggio è voluto da una potenza superiore.
Gli Ignavi
Gli ignavi costituiscono la prima categoria di anime dannate che Dante incontra:
- Sono coloro “che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo” (v. 36)
- Non furono né fedeli né ribelli a Dio, ma vissero solo per sé stessi (vv. 37-39)
- Sono rifiutati sia dal Cielo che dall’Inferno profondo (“Caccianli i ciel per non esser men belli, / né lo profondo inferno li riceve”, vv. 40-41)
- Corrono eternamente nudi dietro un’insegna che gira vorticosamente
- Sono punti da vespe e mosconi, il cui veleno provoca lacrime e sangue
- Rappresentano l’indifferenza morale, condannata da Dante come una delle peggiori colpe
Il loro tormento incarna perfettamente il principio del contrappasso: chi in vita non seguì mai un ideale, è condannato a inseguire eternamente un’insegna vuota.
Colui che fece “il gran rifiuto”
Tra gli ignavi, Dante menziona un personaggio che ha suscitato numerosi dibattiti tra gli studiosi:
“vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto” (vv. 59-60)
La maggior parte dei commentatori identifica questa figura con papa Celestino V (Pietro da Morrone), che abdicò al soglio pontificio nel 1294, permettendo l’elezione di Bonifacio VIII, considerato da Dante responsabile di molti mali della Chiesa e della società contemporanea.
Il “gran rifiuto” rappresenterebbe così la rinuncia alla responsabilità morale e religiosa in un momento cruciale, esemplificando perfettamente la colpa dell’ignavia.
Caronte
Caronte è il primo dei guardiani infernali che Dante incontra:
- Descritto come “un vecchio, bianco per antico pelo” (v. 83)
- Ha occhi circondati da “fiamme rote” (v. 99)
- Svolge la funzione di traghettatore delle anime attraverso l’Acheronte
- Inizialmente si oppone al passaggio di Dante, riconoscendolo come “anima viva” (v. 88)
- Rappresenta il passaggio irrevocabile dalla vita alla morte, dal mondo terreno all’aldilà
La figura di Caronte deriva direttamente dalla mitologia classica, in particolare dal libro VI dell’Eneide di Virgilio, ma Dante la reinterpreta in chiave cristiana, trasformando il nocchiero in un demone al servizio della giustizia divina.
Gli angeli neutrali
Virgilio menziona anche gli “angeli che non furon ribelli / né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro” (vv. 37-39), che si uniscono al “cattivo coro” degli ignavi. Questa categoria di creature angeliche, non presente nella teologia ufficiale, è un’invenzione dantesca che sottolinea ulteriormente la gravità della neutralità morale.
Questi personaggi, con le loro caratteristiche e funzioni specifiche, non sono semplici figure narrative ma incarnazioni di concetti morali e teologici fondamentali per la visione dantesca del mondo. Attraverso di loro, Dante costruisce un universo in cui ogni scelta (o non-scelta) ha conseguenze eterne, stabilendo fin dal terzo canto i principi etici che guideranno l’intero percorso attraverso l’aldilà.
Analisi del Canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi
Il 3° canto dell’Inferno della Divina Commedia presenta una ricca architettura tematica e narrativa che pone le fondamenta per l’intero viaggio di Dante nell’aldilà. Attraverso un’attenta analisi possiamo individuare gli elementi chiave che rendono questo canto cruciale nella struttura della Commedia.
La struttura del cosmo dantesco
L’iscrizione sulla porta infernale delinea immediatamente una precisa cosmologia morale. I versi “Giustizia mosse il mio alto fattore; / fecemi la divina podestate, / la somma sapïenza e ‘l primo amore” stabiliscono che l’Inferno non è frutto di malvagità, ma espressione necessaria dell’ordine divino. Questo apparente paradosso – un luogo di tormento creato dall’amore divino – introduce la concezione dantesca della giustizia come perfetto equilibrio cosmico.
La presenza dell’antinferno, collocato prima del vero e proprio regno dei dannati, rivela che esiste una gerarchia persino nella dannazione. Gli ignavi occupano una posizione liminale che riflette la loro condizione morale: non sufficientemente virtuosi per il Paradiso, ma nemmeno abbastanza malvagi da meritare l’Inferno vero e proprio.
Il contrappasso come manifestazione della giustizia divina
Il principio del contrappasso – la corrispondenza tra colpa e pena – trova nel terzo canto una delle sue prime e più chiare espressioni. Gli ignavi, che in vita rifiutarono di schierarsi, sono condannati a una perpetua corsa dietro un’insegna “che girando correva tanto ratta, / che d’ogne posa mi parea indegna”. La loro neutralità si trasforma in un movimento forzato e senza scopo.
La descrizione delle loro punizioni riflette precisamente l’essenza morale della loro colpa: “Questi sciaurati, che mai non fur vivi”. Il sangue e le lacrime raccolti da “fastidiosi vermi” rappresentano l’inutilità della loro esistenza, ora ridotta a nutrire le creature più umili. Come osserva Virgilio: “Fama di loro il mondo esser non lassa; / misericordia e giustizia li sdegna”.
Il valore dell’azione morale
Un tema centrale è la condanna dell’inazione morale. La neutralità per Dante non è una posizione accettabile nell’universo etico. Il poeta fiorentino esprime un giudizio durissimo verso chi, come gli ignavi, ha vissuto “sanza ‘nfamia e sanza lodo”, privilegiando un’esistenza priva di rischi e responsabilità.
Particolarmente significativo è il riferimento a “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, tradizionalmente identificato con papa Celestino V. Questo giudizio rivela la convinzione dantesca che le responsabilità morali, specialmente quelle di grande portata, non possono essere declinate senza gravi conseguenze spirituali.
Il simbolismo del passaggio
L’attraversamento dell’Acheronte rappresenta una transizione fondamentale nel viaggio dantesco. Il fiume è simbolo tradizionale del confine tra vita e morte, e Caronte incarna il guardiano di questo passaggio. Il rifiuto di trasportare Dante sottolinea l’anomalia del suo viaggio: un vivo che attraversa il regno dei morti. Il terremoto finale e lo svenimento di Dante rappresentano la difficoltà e l’eccezionalità di questo passaggio che segna l’inizio della trasformazione spirituale del pellegrino.
La trasformazione del pellegrino
Il terzo canto documenta anche l’inizio della trasformazione interiore di Dante personaggio. La sua reazione emotiva ai tormenti degli ignavi (“per ch’io al cominciar ne lagrimai”) rivela la sua natura ancora profondamente umana e la sua capacità di compassione.
Lo svenimento finale di Dante (“e caddi come l’uom cui sonno piglia”) dopo il terremoto rappresenta un momento di passaggio significativo. Questo svenimento simboleggia la morte mistica necessaria per accedere pienamente al regno dell’aldilà. Il pellegrino, ancora legato alla sua condizione umana, non può attraversare coscientemente il confine tra vita e morte, ma deve sperimentare una sospensione temporanea della coscienza.
La disperazione e l’eternità della pena
Il celebre verso “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” cristallizza l’essenza dell’Inferno dantesco: un luogo di sofferenza eterna, senza possibilità di redenzione o cambiamento. Questa assenza di speranza costituisce forse la punizione più terribile.
Particolarmente straziante è la condizione degli ignavi, descritti come coloro che “non hanno speranza di morte”. In un paradosso inquietante, queste anime sono private persino della speranza nella fine della loro sofferenza, condannate a una condizione di eterna incompiutezza che rispecchia la loro incapacità di vivere pienamente durante l’esistenza terrena.
Il contrasto tra luce e tenebre nel canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia
Il canto è dominato dalle immagini di oscurità (“l’aere sanza stelle”, “la buia campagna”) che contrastano con la “luce vermiglia” che appare nella scena finale. Questo contrasto simbolico tra luce e tenebre riflette la contrapposizione tra salvezza e dannazione che attraversa tutta la Commedia.
L’oscurità dell’Inferno non è solo fisica ma anche spirituale, rappresentando l’assenza della grazia divina. La momentanea apparizione della luce vermiglia prima dello svenimento di Dante suggerisce la presenza di una forza divina che guida il percorso del pellegrino anche nei momenti più bui del suo viaggio.
Figure retoriche nel Canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia è straordinariamente ricco di figure retoriche, dispositivi stilistici che Dante impiega per amplificare l’impatto emotivo e concettuale del testo. Queste figure non sono semplici ornamenti, ma strumenti essenziali attraverso cui il poeta trasmette la potenza del suo messaggio morale e spirituale.
Anafora
L’anafora, ripetizione della stessa parola all’inizio di versi successivi, appare nei celebri versi iniziali che introducono la porta dell’Inferno:
“Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.” (vv. 1-3)
Questa triplice ripetizione crea un ritmo martellante che simula il suono di porte che si chiudono irrevocabilmente, sottolineando l’ineluttabilità del destino dei dannati. L’effetto è quello di una sentenza definitiva che non concede appello.
Personificazione
La personificazione della porta infernale, che parla in prima persona, rappresenta uno degli esempi più notevoli della capacità di Dante di dare vita a elementi inanimati:
“Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e ‘l primo amore.” (vv. 4-6)
Attribuendo voce alla porta, Dante trasforma un elemento architettonico in un testimone vivente della giustizia divina, creando un’introduzione drammatica al regno infernale.
Climax
Un efficace climax ascendente si trova nella descrizione dei suoni infernali:
“Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle” (vv. 25-27)
Il poeta costruisce una progressione di suoni sempre più specifici e distinti che culmina nel tumulto generale, paragonato al turbine di sabbia. Questa intensificazione graduale rende quasi udibile al lettore il caos sonoro dell’antinferno.
Similitudine
La similitudine più potente del canto paragona le anime che si imbarcano sulla nave di Caronte alle foglie autunnali:
“Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ‘l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.” (vv. 112-117)
L’immagine delle foglie che cadono evoca fragilità, inevitabilità e desolazione, creando un contrasto tra il ciclo naturale delle stagioni e l’eternità della dannazione. La similitudine è arricchita dall’ulteriore paragone con gli uccelli che rispondono a un richiamo, suggerendo un destino ineluttabile.
Metafora
Nel verso “ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo” (v. 87), Dante utilizza la metafora delle temperature estreme per rappresentare i tormenti infernali. Questa opposizione simboleggia la varietà delle punizioni e l’incapacità dei dannati di trovare conforto, anticipando la struttura fisica dell’Inferno che alterna zone di fuoco e di ghiaccio.
Sinestesia
Un esempio notevole di sinestesia, fusione di percezioni sensoriali diverse, si trova nel verso “la terra lagrimosa diede vento” (v. 133). Qui Dante attribuisce la capacità di piangere (percezione visiva) alla terra (elemento fisico), collegandola all’emissione di vento (sensazione tattile e uditiva). Questa commistione di sensazioni intensifica l’atmosfera surreale della scena finale.
Antitesi
Le antitesi abbondano nella descrizione degli ignavi:
“che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo” (v. 36)
“che non furon ribelli / né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro” (vv. 38-39)
Queste opposizioni sottolineano la natura ambigua dei peccatori, né buoni né cattivi, evidenziando come la loro colpa consista proprio nell’assenza di una chiara posizione morale.
Ossimoro
L’espressione “alto fattore” (v. 4) costituisce un ossimoro che unisce l’idea di altezza (spirituale) con quella di creazione materiale, sottolineando la natura paradossale di un Dio che è contemporaneamente trascendente e immanente.
Iperbato
L’iperbato, inversione dell’ordine naturale delle parole, appare in “Fecemi la divina podestate” (v. 5), dove il verbo è anticipato per enfatizzare l’azione divina creatrice.
Lo stile retorico di Dante in questo canto è caratterizzato da un equilibrio tra la solennità dell’iscrizione iniziale, il realismo crudo delle descrizioni delle pene, e il lirismo di alcune similitudini. Le figure retoriche rendono concrete e visibili realtà astratte o soprannaturali, caratteristica fondamentale dell’intera Divina Commedia che qui trova una delle sue prime e più efficaci applicazioni.
I temi principali del Canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia
Il canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia è ricco di temi fondamentali che permeano l’intera opera dantesca, offrendo spunti di riflessione sul piano morale, teologico e filosofico.
La Giustizia Divina come Fondamento dell’Inferno
L’iscrizione sulla porta infernale stabilisce immediatamente che questo regno è manifestazione della giustizia divina: “Giustizia mosse il mio alto fattore” (v. 4). L’Inferno non è creato per crudeltà, ma come necessaria conseguenza dell’ordine cosmico. Dante evidenzia come la giustizia si manifesti attraverso il contrappasso, principio secondo cui la pena rispecchia o contrasta il peccato commesso. Nel caso degli ignavi, correre eternamente dietro un’insegna riflette perfettamente la loro riluttanza in vita a seguire qualsiasi ideale o bandiera.
La Neutralità come Colpa Morale Grave
Uno degli insegnamenti più potenti del canto è che l’indifferenza morale rappresenta una colpa imperdonabile. Gli ignavi, coloro che vissero “sanza ‘nfamia e sanza lodo” (v. 36), sono condannati a una condizione di eterno anonimato e tormento. Questo riflette la visione etica di Dante secondo cui è necessario schierarsi attivamente dalla parte del bene: il rifiuto di prendere posizione è vigliaccheria morale. Non a caso questi peccatori sono collocati nell’antinferno, non essendo degni nemmeno della vera dannazione, scartati sia dal Cielo che dall’Inferno (“che misericordia e giustizia li sdegna”, v. 50).
La Disperazione e l’Assenza di Speranza
Il celebre verso “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” (v. 9) sintetizza l’essenza dell’Inferno dantesco: un luogo dove non esiste possibilità di redenzione o cambiamento. La condizione degli ignavi è particolarmente tragica perché “non hanno speranza di morte” (v. 46), rappresentando una sospensione eterna nella sofferenza. Questo tema della disperazione è ulteriormente evocato nelle anime che si affollano sulle rive dell’Acheronte, consapevoli del destino che le attende, e nei loro lamenti: “Bestemmiavano Dio e lor parenti, / l’umana spezie e ‘l loco e ‘l tempo e ‘l seme / di lor semenza e di lor nascimenti” (vv. 103-105).
L’Ordine Cosmico e la Struttura Morale dell’Universo
Il canto delinea chiaramente la struttura morale del cosmo dantesco. La porta dell’Inferno rappresenta il confine tra un mondo in cui la redenzione è possibile e un regno di disperazione. L’antinferno, dove sono collocati gli ignavi, suggerisce una gerarchia anche nella dannazione. Il fiume Acheronte segna un ulteriore confine simbolico tra il mondo terreno e l’aldilà. Quando Dante afferma che prima dell’Inferno “non fuor cose create / se non etterne” (vv. 7-8), stabilisce una cronologia teologica che colloca la creazione dell’Inferno subito dopo la ribellione angelica, chiarendo che il male è conseguenza necessaria del libero arbitrio.
Il Contrappasso come Principio Punitivo
La pena degli ignavi rappresenta perfettamente il principio del contrappasso: chi in vita non seguì mai un’insegna è ora costretto a seguirne una eternamente; chi non prese mai posizione determinata è obbligato a correre senza sosta; chi evitò il “pungiglione” della coscienza è punto da insetti. Il sangue e le lacrime che colano dai loro volti, raccolti da vermi ripugnanti, simboleggiano come la loro indifferenza non abbia prodotto nulla di buono nemmeno nella sofferenza.
Il Simbolismo del Passaggio
L’attraversamento dell’Acheronte rappresenta una transizione fondamentale nel viaggio dantesco. Il fiume è simbolo tradizionale del confine tra vita e morte, e Caronte incarna il guardiano di questo passaggio. Il rifiuto di trasportare Dante sottolinea l’anomalia del suo viaggio: un vivo che attraversa il regno dei morti. Il terremoto finale e lo svenimento di Dante rappresentano la difficoltà e l’eccezionalità di questo passaggio che segna l’inizio della trasformazione spirituale del pellegrino.
La Dimensione Politica e Sociale del canto 3 della Divina Commedia
Il riferimento a “colui che fece per viltade il gran rifiuto” (v. 60), tradizionalmente identificato con papa Celestino V, introduce una dimensione politica nel discorso morale. La critica all’abdicazione del pontefice (che permise l’ascesa di Bonifacio VIII, avversario di Dante) riflette la convinzione che le scelte individuali abbiano conseguenze collettive. L’indifferenza morale non è solo un peccato personale ma una mancanza verso l’intera comunità.
Il Canto 3 dell’Inferno della Divina Commedia in pillole
Per offrire una visione d’insieme chiara e immediata del terzo canto dell’Inferno, abbiamo organizzato le informazioni principali nella seguente tabella riassuntiva:
Elemento | Descrizione |
---|---|
Titolo | Canto III dell’Inferno |
Opera | Divina Commedia |
Autore | Dante Alighieri |
Periodo di composizione | 1304-1321 |
Ambientazione temporale | Venerdì Santo, 8 aprile 1300 |
Struttura metrica | Terzine incatenate di endecasillabi (terza rima) |
Versi totali | 136 |
Ambientazione | Antinferno e riva del fiume Acheronte |
Personaggi principali | Dante (pellegrino), Virgilio (guida), gli ignavi, Caronte (traghettatore), presunto riferimento a Papa Celestino V |
Sequenze narrative principali
Sequenza | Versi | Contenuto
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---|---|---|
L’iscrizione infernale | 1-21 | La porta dell’Inferno con la celebre scritta “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” |
Gli ignavi | 22-69 | Incontro con coloro che in vita non presero mai posizione |
L’Acheronte | 70-136 | Incontro con Caronte e attraversamento del fiume |
Temi fondamentali
Tema | Manifestazione nel canto
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Giustizia divina | L’iscrizione sulla porta che stabilisce l’Inferno come manifestazione della giustizia di Dio |
Neutralità come colpa | La punizione degli ignavi, considerati indegni persino del vero Inferno |
Contrappasso | Chi non seguì mai un’insegna è costretto a seguirne una eternamente |
Ordine cosmico | La strutturazione dell’aldilà con confini e gerarchie precise |
Disperazione | L’assenza di speranza come condizione esistenziale dei dannati |
Figure retoriche principali
Figura retorica | Esempio dal testo | Effetto
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---|---|---|
Anafora | “Per me si va” (vv. 1-3) | Enfatizza la funzione della porta come passaggio obbligato |
Personificazione | La porta che parla in prima persona | Drammatizza l’introduzione all’Inferno |
Similitudine | “Come d’autunno si levan le foglie” (vv. 112-114) | Evoca la fragilità delle anime dannate |
Antitesi | “sanza ‘nfamia e sanza lodo” (v. 36) | Sottolinea la natura ambigua degli ignavi |
Sinestesia | “La terra lagrimosa diede vento” (v. 133) | Intensifica l’atmosfera surreale |
Versi memorabili del canto 3 della Divina Commedia
Verso | Significato
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“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” (v. 9) | Definisce l’essenza dell’Inferno come luogo di dannazione eterna |
“Questi non hanno speranza di morte” (v. 46) | Descrive la condizione tragica degli ignavi |
“che fece per viltade il gran rifiuto” (v. 60) | Possibile riferimento a Papa Celestino V e alla sua rinuncia al papato |
“Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole” (vv. 95-96) | Formula che ribadisce la volontà divina dietro il viaggio di Dante |
L’importanza strutturale del canto
Il 3° canto dell’Inferno della Divina Commedia, dopo l’incontro con le tre fiere e con Virgilio nel Canto I, e i timori di Dante nel Canto II, funge da vera e propria soglia tra il mondo terreno e l’aldilà, introducendo il lettore alla logica morale che governa l’intero poema. L’incontro con gli ignavi stabilisce immediatamente una gerarchia di valori in cui anche la colpa attiva è preferibile all’indifferenza morale. Il passaggio dell’Acheronte, marcato dallo svenimento di Dante, rappresenta simbolicamente la transizione tra la vita e la morte, tra il mondo dei vivi e il regno dei dannati.
La descrizione delle anime che si affollano sulla riva dell’Acheronte “come d’autunno si levan le foglie” è una delle immagini più potenti del canto, che evoca la fragilità umana di fronte al giudizio divino e anticipa la rassegnazione delle anime dannate al loro destino eterno.