Ultimo Canto di Saffo (Leopardi): parafrasi e analisi - StudentVille

Ultimo Canto di Saffo di Giacomo Leopardi

Analisi del testo di Ultimo canto di Saffo di Giacomo Leopardi.

ULTIMO CANTO DI SAFFO DI GIACOMO LEOPARDI

ANALISI DEL TESTO E SAGGIO BREVE

La canzone fu composta a Recanati nel maggio 1822 e pubblicata nel gruppo delle dieci canzoni del 1824. Il monologo è recitato da Saffo, l’antica poetessa greca che secondo la versione di Ovidio (Eroidi, XI), si sarebbe uccisa gettandosi dalla rupe di Leucade perché era stata rifiutata dal fanciullo Faone. Nel componimento la donna diventa limpida riproduzione autobiografica e portavoce del pensiero dell’autore.

Saffo, ammirando il tranquillo paesaggio notturno, ricorda che un tempo, quando non conosceva gli strazi d’amore e non immaginava un destino doloroso, queste manifestazioni dolci della natura le erano care. Ora invece, poiché è infelice, ama la natura sconvolta dall’uragano, i paesaggi tormentati, perché essi sono in sintonia col suo animo. Dalla seconda strofa in poi, la poetessa riflette su sé stessa facendo dei ragionamenti. Ella non può godere delle meraviglie della natura, perché questa le ha negato tutto. Infatti, di tutta l’immensa bellezza della natura, a Saffo non è toccata neanche una minima parte, anzi da tutto ciò che è bello la poetessa si sente rifiutata, come un ospite indesiderato tra le meraviglie della Terra.
Rimangono indifferenti a lei la campagna soleggiata, la luce dell’alba, il canto degli uccelli e il fruscio delle foglie. Anche le acque trasparenti dei ruscelli si ritirano con ribrezzo quando ella avvicina il suo piede. Allora Saffo si domanda il motivo di tanta infelicità, ma non trova risposta, perché nella vita umana tutto è mistero. La sola certezza umana è il dolore. Giove decretò che soltanto la bellezza esteriore, fisica, esercitasse un eterno fascino sugli esseri umani. Ma chi ha un corpo deforme non è apprezzato da nessuno, sia che esso sia un grande eroe, sia una persona di grande cultura. Nell’ultima strofa, la poetessa è fermamente decisa a morire. Il suicidio è propriamente romantico, interpretato come un gesto di ribellione contro il cieco fato, come l’amaro finale di tante illusorie speranze.

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WLT204682 Sappho and Alcaeus, 1881 (oil on panel) by Alma-Tadema, Sir Lawrence (1836-1912); 66×122 cm; © Walters Art Museum, Baltimore, USA; (add.info.: both were Greek lyric poets from Lesbos;); English, out of copyright

La tematica principale del canto è l’infelicità come sorte specifica dell’Io lirico, che una svista del caso l’ha condannato a un corpo deforme, all’esclusione dalle bellezze della natura e all’infelicità. Inoltre, l’idea dell’infelicità individuale si estende a quella di un’infelicità universale, che abbraccia tutti gli esseri umani. Dall’io dei versi iniziali si arriva infatti al noi: “Arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor. Negletta prole / nascemmo al pianto, e la ragione in grembo / de’ celesti si posa”. Nell’ultima strofa poi, è evidente la valutazione della condizione dell’uomo, condannato a restare privo, molto presto, della gaiezza giovanile e a sopportare malattie, vecchiaia e morte. L’infelicità non appartiene solo all’uomo moderno che ha perso l’attitudine ad illudersi, come Leopardi sosteneva in precedenza, ma, scaturendo da terrificanti mali esteriori, materiali, coinvolge tutta l’umanità di ogni epoca storica.
Non è un caso che sia stata scelta, come modello di infelicità, la poetessa Saffo: la misera condizione dell’uomo non è estranea neppure alle civiltà antiche che Leopardi reputava privilegiate perché più prossime alla natura ed esenti dagli effetti demolitori della ragione. L’idea di un’infelicità universale scaturisce dal fatto che, vicino ad una natura benigna esiste un destino crudele, il quale assegna sciagure senza una logica, destinando l’uomo a una sofferenza senza soluzione. Saffo rappresenta la coscienza moderna, che ha perso le primigenie illusioni ed è del tutto cosciente del “vero”: in questa maniera può essere considerata la portavoce di Leopardi.
Per quando riguarda la struttura metrica, la canzone è composta da quattro strofe di diciotto versi ciascuna; i primi sedici versi sono endecasillabi sciolti, gli ultimi due, a rima baciata, sono un settenario e un endecasillabo.

Analizzando lo stile, notiamo la presenza di alcune metafore audaci attraverso cui il negativo diventa realtà sostanziosa e materiale (“l’ombra della gelida morte”). Il lessico aulico occupa la maggior parte dei versi, ed ha il compito di restituire una forma risolutiva, in una modalità solenne, al negativo: “arcano consiglio”, “negletta prole”, “velo indegno”.
Troviamo inoltre sentenze concise, lapidarie, che riportano, come un’epigrafe tombale, una verità miserabile e accettata con lucidità (“Virtù non luce in disadorno ammanto”). Accanto a questo linguaggio del “vero”, vi sono casi di linguaggio dell’”immaginar”, non solo in riferimento al vago e all’indefinito, ma anche
riguardo l’abbandono all’immaginazione di visioni elegiache: “Placida notte”, “mattutino albor”, “candido rivo”.

Dalla lettura e analisi della canzone, appare pertanto evidente che l’Ultimo canto di Saffo è una delle canzoni filosofiche nelle quali il passato, che nelle canzoni civili era ritenuto gioioso, valoroso e ammirevole, ora è pervaso dal pessimismo del poeta e viene assimilato nel dolore universale. L’Ultimo canto è anche “la canzone del suicidio”, insieme al Bruto minore. Mentre però il personaggio di Bruto è più duro, virile, Saffo è più tenera, più malinconica, umana, ed è il riflesso autobiografico del poeta.

In realtà, Saffo era una poetessa vissuta a Lesbo tra il VII e il VI sec. a.C., bellissima, sposa di un ricco uomo, Cercila, dal quale ebbe una figlia, Cleide. Il luogo in cui visse la poesia di Saffo fu il tiaso, la comunità femminile che si occupava dell’educazione delle fanciulle in vista del matrimonio, e che era sotto la sua guida. Nei suoi componimenti la poetessa cantava l’amore come passione e forza irresistibile che opera grazie ad Afrodite, il desiderio e le trepidazioni, la nostalgia e la memoria degli affetti lontani. Alceo, poeta suo conterraneo e contemporaneo, la commemorava come “crine di viola, dolce ridente, veneranda”.
E’ solo frutto di fantasia la storia, diffusa già nell’antichità e giunta sino a Leopardi, che la poetessa, brutta d’aspetto, si suicidò gettandosi dalla rupe di Leucade perché innamorata del bellissimo giovane Faone senza essere ricambiata. Si tratta probabilmente di un’alterazione generata nell’ambito della commedia antica. Infatti, per il suo spirito libero ed emancipato, Saffo fu denigrata da Aristofane e altri comici greci conservatori, che con le loro caricature diedero vita a questa leggenda, ripresa da Ovidio nelle Eroidi (XV), in cui la poetessa scrive una lettera al giovane Faone prima di suicidarsi. Il Leopardi seguì la versione della bruttezza di Saffo e del suo dolore, perché questa rispecchiava la sua condizione di essere disdegnato e misero.

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