Nell’Ottocento, il pensiero filosofico leopardiano non poteva essere accettato dall’idealismo e dal positivismo, in quanto egli non era favorevole al progresso. Oggi, invece, si corre il rischio di esaltarlo come pensatore non sistematico e privo d’ideologia. Leopardi, infatti, manca di sistematicità nel suo metodo di indagine, poiché egli non pensa in quanto filosofo, ma come essere umano e sociale. Questi due criteri, il primo esistenziale e il secondo sociale, sono la rispondenza alle esigenze profonde dell’individuo e ai caratteri della condizione umana. Si evince da ciò il suo interesse per la storia intesa come modo di pensare e per le culture dei primitivi.
Il Pensiero Leopardiano in sintesi
Fase del Pensiero | Caratteristiche Principali | Opera Esemplificativa |
---|---|---|
Pessimismo Storico | Infelicità umana come conseguenza della perdita dello stato naturale e del progresso storico | “Discorso di un italiano sulla poesia romantica” |
Pessimismo Psicologico (Individuale) | Dolore come intrinseco alla vita, come incapacità di raggiungere il piacere infinito a cui aspira l’uomo | “La sera del dì di festa“ |
Pessimismo Cosmico | Natura come forza indifferente o ostile, meccanicismo naturale, dolore come legge universale | “L’Infinito“, “Alla Luna“, “Dialogo della Natura e di un Islandese“ |
Pessimismo Eroico | Solidarietà umana come mezzo per superare l’ostilità della Natura | “La Ginestra“ |
Il pensiero leopardiano: 1817/18, la fase di “pessimismo storico”
La prima riflessione filosofica è sul tema dell’infelicità umana (illuminismo settecentesco). Essa non dipende dalla Natura che è considerata entità positiva, giacché produce generose illusioni che rendono l’uomo capace di virtù e grandezza. La civiltà, però ha distrutto le illusioni che proteggevano l’uomo e lo ha abbandonato ad un’infelicità consapevole ed insopportabile. Questa è appunto la fase del Pessimismo storico. Leopardi, in essa, infatti, giudica l’Italia del suo tempo come un caso limite di allontanamento dalle illusioni antiche. Solo l’azione e l’eroismo sono i rimedi contro la decadenza dei moderni.
Indagando sulla causa dell’infelicità umana, il Leopardi segue la spiegazione di Rousseau, e afferma, con la sua “Teoria delle Illusioni”, che gli uomini furono felici soltanto nell’età primitiva, quando vivevano a stretto contatto con la natura, ma poi essi vollero uscire da questa beata ignoranza e innocenza istintiva e, servendosi della ragione, si misero alla ricerca del vero. Le scoperte della ragione furono catastrofiche: essa infatti scoprì la vanità delle illusioni, che la natura, come una madre benigna e pia, aveva ispirato agli uomini; scoprì le leggi meccaniche che regolano la vita dell’universo; scoprì il male, il dolore, l’infelicità, l’angoscia esistenziale.
La storia degli uomini quindi, dice il Leopardi, non è progresso, ma decadenza da uno stato di inconscia felicità naturale, ad uno stato di consapevole dolore, scoperto dalla ragione.
Ciò che è avvenuto nella storia dell’umanità, si ripete immancabilmente, per una specie di miracolo, nella storia di ciascun individuo. Dall’età dell’inconscia felicità, quale è quella dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, allorché tutto sorride intorno e il mondo è pieno di incanto e di promesse, si passa all’età della ragione, all’età dell’arido vero, del dolore consapevole e irrimediabile .
La ragione è colpevole della nostra infelicità, in contrasto con la natura madre provvida, benigna e pia, che cerca di coprire col velo dei sogni, delle fantasie e delle illusioni le tristi verità del nostro essere.
Il pensiero leopardiano: 1819/23, il “pessimismo psicologico” (o individuale)
Nella seconda fase, Leopardi si allontana dal cattolicesimo per abbracciare il sensismo illuministico (le idee dipendono dalle sensazioni ed il comportamento umano è orientato al procacciamento dell’utile). Egli approfondisce il suo punto di vista materialistico ispirato al meccanicismo settecentesco. Respinge quindi gli elementi spirituali e sostiene che il corpo è l’uomo che pensa, cioè il corpo è materia pensante. Questo sensismo porta alla causa dell’infelicità indicata nel rapporto tra il bisogno dell’uomo di essere felice e la possibilità di soddisfare tale bisogno.
Partendo dalla riflessione sull’infelicità, elabora la “Teoria del Piacere” che diventa il cardine del suo pensiero: secondo questa teoria, “l’amor proprio” porta l’individuo ad una richiesta di piacere infinito per intensità e per estensione; poiché questa richiesta non potrà mai essere soddisfatta interamente, l’individuo, anche nel momento di maggior piacere, continuerà a sentire l’assillo del desiderio non colmato. Questo assillo è di per sé patimento, sicché l’individuo, anche quando non soffre di mali materiali, è in stato di sofferenza per la sua stessa richiesta inappagata.
Questo tipo di pessimismo è ben più radicale del primo, perché l’infelicità non è un dato occasionale, ma ormai è una costante della condizione umana.
Il pensiero leopardiano: 1823/27, il “pessimismo cosmico”
Nella terza fase Leopardi scoprì, dopo alcune ricerche, che l’infelicità esisteva anche fra gli antichi.
Anche se l’individuo potesse raggiungere il piacere, il bilancio della sua esistenza sarebbe comunque negativo, per la quantità dei mali reali (infortuni, malattie, invecchiamento, morte) con cui la natura, dopo averlo prodotto, tende a eliminarlo per dar luogo ad altri individui in una lunga vicenda di produzione e distruzione, destinata a perpetuare l’esistenza e non a rendere felice il singolo.
In altri momenti il Leopardi approfondisce la sua meditazione sul problema del dolore e conclude scoprendo che la causa di esso è proprio la natura, perché è proprio essa che ha creato l’uomo con un profondo desiderio di felicità, pur sapendo che egli non l’avrebbe mai raggiunta: “O natura, natura, perché non rendi poi quel che prometti allor ? Perché di tanto inganni i figli tuoi ?”, dice il poeta nel canto “A Silvia“.
Così, di fronte alla natura, il Leopardi assume un duplice atteggiamento: ne sente allo stesso tempo il fascino e la repulsione, in una specie di “odi et amo” catulliano. L’ama per i suoi spettacoli di bellezza, di potenza e di armonia; la odia per il concetto filosofico che si forma di essa, fino a considerarla non più la madre benigna e pia (del primo pessimismo), ma una matrigna crudele ed indifferente ai dolori degli uomini, una forza oscura e misteriosa, governata da leggi meccaniche ed inesorabili (vedi “Dialogo della Natura e di un Islandese“). E’ questo il terzo aspetto del pessimismo leopardiano che investe tutte le creature (sia gli uomini che gli animali).
Ma in questo momento della sua meditazione il Leopardi rivaluta la ragione, prima considerata causa di infelicità. Essa gli appare colpevole di aver distrutto le illusioni con la scoperta del vero, ma è anche l’unico bene rimasto agli uomini, i quali, forti della loro ragione, possono non solo porsi eroicamente di fronte al vero, ma anche conservare nelle sventure la propria dignità, anzi, unendosi tra loro con fraterna solidarietà, come egli dice nella “Ginestra“, possono vincere o almeno lenire il dolore.
La sua riflessione raggiunse quindi l’atarassia, in altre parole una saggezza distaccata e scettica. Questo distacco era dovuto dal suo nuovo giudizio sulla civiltà, al quale era giunto grazie al contatto con l’ambiente liberale moderato dei cattolici fiorentini. In quest’ultima fase l’esigenza dell’impegno civile e la proposta di una nuova funzione intellettuale sono, per lui, i bisogni della civiltà. Infatti il suicidio costituisce un errore, perché provoca dolore ai superstiti; quindi, lo sforzo degli essere umani deve essere rivolto a soccorrersi scambievolmente (sentimento della fraternità sociale). Gli uomini, così, consapevoli del male comune, la Natura, devono allearsi per ridurre il più possibile il loro dolore e accrescere la felicità consentita. Sta qui la democraticità del pensiero leopardiano, nella fase finale del cosiddetto pessimismo eroico, che promuove la solidarietà umana come mezzo per affrontare la sofferenza e la vanità della vita.
La Teoria del piacere e la noia
Al centro del pensiero leopardiano troviamo la celebre “teoria del piacere“, una delle intuizioni più originali della sua riflessione filosofica. Formulata principalmente nello “Zibaldone”, questa teoria sostiene che l’essere umano tende naturalmente al piacere infinito, ma è costituzionalmente incapace di raggiungerlo in maniera piena e duratura. Leopardi scrive nei suoi appunti: “Il piacere è sempre o passato o futuro, non mai presente”, individuando in questa discrepanza tra desiderio infinito e possibilità limitate la causa fondamentale dell’infelicità umana.
Secondo Leopardi, l’uomo è caratterizzato da un’aspirazione all’infinito che lo porta a non accontentarsi mai di ciò che possiede. Ogni piacere ottenuto genera immediatamente insoddisfazione, poiché il desiderio umano è per sua natura illimitato, mentre le possibilità di appagamento sono finite. Questa condizione paradossale si manifesta nella celebre poesia “L’infinito”, dove il poeta, di fronte all’orizzonte limitato dalla siepe, immagina spazi senza limite, trovando momentaneo sollievo solo nell’immaginazione.
Strettamente collegata alla teoria del piacere è la riflessione sulla noia, che per Leopardi non rappresenta semplicemente la mancanza di stimoli, ma una condizione esistenziale profonda che rivela il vuoto intrinseco dell’esistenza. “La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani”, afferma Leopardi, descrivendola come “il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera”. In questa analisi, Leopardi anticipa temi che saranno centrali nel pensiero esistenzialista del Novecento, presentando la noia come manifestazione più pura del desiderio infinito dell’uomo confrontato con la finitezza della sua condizione.
La modernità e l’influenza culturale del pensiero leopardiano
Il pensiero leopardiano si distingue per la sua straordinaria attualità, anticipando temi centrali della filosofia esistenzialista del Novecento. Le sue riflessioni sul vuoto esistenziale, sull’angoscia e sull’assurdità della condizione umana lo collegano direttamente a pensatori come Schopenhauer, Nietzsche e Sartre. La sua critica al mito del progresso rivela una lucidità profetica rispetto alle contraddizioni della modernità.
Schopenhauer in particolare, pur non conoscendo direttamente l’opera leopardiana, sviluppa una visione del mondo sorprendentemente affine. Entrambi riconoscono nella volontà insoddisfatta la radice della sofferenza umana. Anche Nietzsche può essere considerato un erede del pensiero leopardiano, soprattutto nella critica all’ottimismo progressista e nella ricerca di valori vitali alternativi alla morale tradizionale.
L’influenza di Leopardi sulla cultura italiana è stata profonda e duratura. Intellettuali come Walter Benjamin lo definirono “il più grande poeta dell’Italia dopo Dante“, mentre Antonio Gramsci ne sottolineò la modernità. Nel panorama letterario, poeti come Montale e Ungaretti hanno riconosciuto apertamente il loro debito nei suoi confronti.
Particolarmente significativa è la sua analisi dell’insoddisfazione perpetua e del desiderio insaziabile, che sembra quasi prevedere il malessere dell’individuo contemporaneo nella società dei consumi. La sua proposta di una “social catena” basata sulla solidarietà di fronte alla comune sofferenza offre inoltre una prospettiva etica sorprendentemente attuale, capace di rispondere alle crisi di senso del nostro tempo.
Per approfondire ulteriormente il tema del pensiero leopardiano, vedi anche: