Dum haec in Volscis geruntur, dictator
Sabinos, ubi longe plurimum belli fuerat, fundit exuitque castris. Equitatu immisso mediam turbauerat hostium aciem, quam, dum
se cornua latius pandunt, parum apte introrsum ordinibus firmauerant; turbatos pedes inuasit. Eodem impetu castra capta
debellatumque est. Post pugnam ad Regillum lacum non alia illis annis pugna clarior fuit. Dictator triumphans urbem inuehitur.
Super solitos honores locus in circo ipsi posterisque ad spectaculum datus; sella in eo loco curulis posita. Volscis deuictis
Veliternus ager ademptus; Velitras coloni ab urbe missi et colonia deducta. Cum Aequis post aliquanto pugnatum est, inuito
quidem consule quia loco iniquo subeundum erat ad hostes; sed milites extrahi rem criminantes ut dictator priusquam ipsi
redirent in urbem magistratu abiret inritaque, sicut ante consulis, promissa eius caderent, perpulere ut forte temere in
aduersos montes agmen erigeret. Id male commissum ignauia hostium in bonum uertit, qui priusquam ad coniectum teli ueniretur,
obstupefacti audacia Romanorum, relictis castris quae munitissimis tenuerant locis, in auersas ualles desiluere. Ibi satis
praedae et uictoria incruenta fuit. Ita trifariam re bello bene gesta, de domesticarum rerum euentu nec patribus nec plebi cura
decesserat: tanta cum gratia tum arte praeparauerant feneratores quae non modo plebem, sed ipsum etiam dictatorem
frustrarentur. Namque Valerius post Vetusi consulis reditum omnium actionum in senatu primam habuit pro uictore populo,
rettulitque quid de nexis fieri placeret. Quae cum reiecta relatio esset, “non placeo” inquit, “concordiae auctor. Optabitis,
mediusfidius, propediem, ut mei similes Romana plebis patronos habeat. Quod ad me attinet, neque frustrabor ultra ciues meos
neque ipse frustra dictator ero. Discordiae intestinae, bellum externum fecere ut hoc magistratu egeret res publica: pax foris
parta est, domi impeditur; priuatus potius quam dictator seditioni interero.” Ita curia egressus dictatura se abdicauit.
Apparuit causa plebi, suam uicem indignantem magistratu abisse; itaque uelut persoluta fide, quoniam per eum non stetisset quin
praestaretur, decedentem domum cum fauore ac laudibus prosecuti sunt.
Versione tradotta
Durante questa campagna contro i Volsci, il dittatore,
mette in rotta i Sabini - di gran lunga il nemico numero uno per Roma - conquistandone l'accampamento. Lanciatosi
all'attacco con la cavalleria, aveva fatto il vuoto nel centro dell'esercito nemico, rimasto troppo scoperto per
l'eccessiva apertura a ventaglio delle due ali. Nel bel mezzo di questo disordine subentrarono i fanti all'assalto. Con
un solo e unico attacco presero l'accampamento e misero fine alla campagna. Dopo quella del lago Regillo, nessun'altra
battaglia, in quegli anni, fu più famosa. Il dittatore tornò a Roma in trionfo. Oltre agli onori di rito, fu riservato un posto
a lui e ai suoi discendenti per assistere ai ludi nel circo, e lì fu sistemata una sedia curule. A séguito di questa sconfitta
i Volsci persero il territorio di Velitra; la città, popolata da coloni inviati da Roma, divenne colonia. Poco tempo dopo si
combatté con gli Equi, anche se il console era contrario perché si trattava di abbordare il nemico da posizione sfavorevole. Ma
i suoi uomini lo accusavano di tirare per le lunghe la cosa per lasciare che scadesse il mandato del dittatore prima del loro
rientro a Roma e far così cadere nel nulla le sue promesse, come era già prima successo con quelle del console. Quindi lo
forzarono a una mossa sconsiderata e del tutto affidata al caso: spingere le truppe sul versante della montagna di fronte a
loro. Fu solo grazie alla codardia dei nemici che questa manovra, di per sé malcongegnata, ebbe un esito favorevole: i Romani
non erano ancora arrivati a distanza di tiro che essi, scoraggiati da una simile dimostrazione di audacia, abbandonarono il
loro accampamento piazzato in una posizione quasi inespugnabile e si dileguarono nei valloni dell'altro versante. Si trattò
di un bottino non trascurabile e di una vittoria senza perdite. Malgrado questo triplice successo militare, plebe e senato non
avevano smesso di preoccuparsi della soluzione dei problemi interni. E gli usurai, con un assiduo lavorio da veri esperti, si
erano dotati degli strumenti per frustrare le iniziative non solo della plebe ma anche del dittatore stesso. Infatti Valerio,
dopo il rientro del console Vetusio, diede precedenza assoluta alla causa del popolo vincitore, portandola all'attenzione
del senato e chiedendo un pronunciamento definitivo sugli insolventi per debiti. Visto che la richiesta non fu approvata,
disse: «Io non vi vado a genio perché cerco di ricomporre la frattura. Tra pochi giorni, ve lo garantisco, desidererete che la
plebe abbia dei difensori come me. Per quel che mi riguarda, non ho intenzione di prendere ulteriormente in giro i miei
concittadini né di continuare a fare il dittatore solo in teoria. Questa magistratura era l'unica soluzione per uno Stato
diviso tra urti interni e una guerra da combattere all'esterno: fuori è tornata la pace, mentre in città si fa di tutto per
ostacolarla. Interverrò nei disordini da privato cittadino piuttosto che da dittatore.» Uscì quindi dalla curia e rassegnò le
dimissioni. La plebe capì benissimo che un gesto simile era stato dettato dal risentimento per i torti che essa subiva. E così,
come se egli avesse mantenuto la parola - non era colpa sua se l'impegno non era stato onorato -, lo seguirono mentre
rientrava a casa e gli manifestarono la loro gratitudine con un lungo applauso.
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