I grandi rivolgimenti politici che interessano l’ Inghilterra del 1600 sono intrinsecamente connessi a complesse lotte di religione. Per questo motivo il problema della tolleranza religiosa riveste nel pensiero di Locke un’ importanza analoga a quella presentata dai suoi interessamenti politici. In tema di tolleranza egli arriva infatti ad elaborare formulazioni teoriche che avranno una grande influenza sul pensiero successivo, contribuendo in maniera determinante a formare una sensibilità culturale che caratterizzerà gran parte dell’ illuminismo e che costituisce tutt’ oggi uno dei capisaldi della mentalità e della cultura occidentale. La posizione di Locke sulla tolleranza non è stata comunque sempre la stessa. Nei primi scritti dedicati al problema, risalenti agli anni 1661 -1662 e rimasti inediti, egli rivela più ostilità che favore nei confronti di un atteggiamento permissivo da parte dello Stato nelle questioni religiose. La religione, fa notare Locke, si sviluppa nell’ ambito della coscienza interiore, per cui i suoi aspetti esteriori, quelli relativi alla dimensione chiesistica e cultuale, non hanno in essa un’ incidenza sostanziale. Il magistrato può dunque intervenire nella loro determinazione senza per questo condizionare la vita religiosa del fedele. Sull’ interesse per la tolleranza prevale dunque ancora in questi scritti la preoccupazione, di derivazione hobbesiana, per l’ ordine pubblico, che sembra poter essere garantito solamente attraverso il controllo della Chiesa da parte dello Stato. Ben diversa è la posizione assunta da Locke nel Saggio sulla tolleranza del 1667. Qui viene esplicitamente affermato che esistono alcune sfere di pensiero e di azione in cui l’ individuo non deve subire alcuna limitazione da parte dello Stato, visto che esse non hanno alcun effetto sulla vita politica e sociale della nazione. Tra queste egli colloca le opinioni filosofiche e il culto divino. La piena giustificazione di questa posizione si ha tuttavia soltanto nell’ Epistola sulla tolleranza del 1689, che è diventata un termine di riferimento imprescindibile per i fautori della tolleranza dei secoli successivi. La modernità di questo scritto consiste nell’ aver sancito la nettissima separazione tra Chiesa e Stato per quanto riguarda le finalità , le funzioni e i poteri che ad essi rispettivamente competono. Lo Stato è un’ associazione di individui che ha come scopo la tutela del diritto naturale alla vita, alla libertà e alla proprietà . Esso non può dunque intervenire con la costrizione ( che gli compete essenzialmente ) in questioni che, come quelle religiose, non hanno alcuna attinenza con la difesa di quei diritti, a meno che esse non comportino pratiche nocive per la salute sociale o l’ integrità dello Stato stesso. Per questo Locke esclude dal diritto alla tolleranza due categorie: i cattolici o, come allora si usava dire, i papisti, perchò obbediscono a un’ autorità politico-religiosa che è a sua volta intollerante, e gli atei, poichò non esistendo per essi alcunchò di sacro, non possono dare garanzia alcuna sui patti e sui giuramenti che assicurano la coesione dello Stato e l’ armonia della società . Questa duplice esclusione non è certo da poco, ma può essere compresa tenendo conto delle particolari condizioni storico-politiche in cui Locke vive. La Chiesa è invece un’ associazione intesa a procurare ai propri membri la salvezza dell’ anima, la qual cosa, dipendendo esclusivamente dalle convinzioni interiori del credente, non può in nessun modo essere indotta con la forza. Il sacerdote non può richiedere l’ intervento del magistrato per realizzare con la coazione ciò che non riesce a ottenere con le armi della parola e della convinzione. La Chiesa può legittimamente espellere dal proprio seno mediante la scomunica coloro che non condividono i dogmi e i riti che essa propone come mezzi di salvezza: ma lo scomunicato non deve assolutamente perdere i diritti civili di cui gode come membro dello Stato. La difesa lockiana della tolleranza trova infine il proprio completamento nello scritto sulla Ragionevolezza del cristianesimo del 1695, dove essa è riconsiderata alla luce del più vasto problema del rapporto rapporto tra religione e ragione. Ridotto alla sua struttura essenziale, il cristianesimo si limita alla fede nell’ esistenza di Dio, al riconoscimento della funzione salvifica del Cristo come Messia, e alla predicazione di alcuni insegnamenti morali fondamentali. Considerata sotto questa luce, la religione cristiana non solo non appare contraria alla ragione, ma rivela la sua intrinseca ragionevolezza poichò non fa che rivestire con la forza della Rivelazione contenuti etico-religiosi cui tutti potrebbero accedere con il solo ausilio della ragione. Locke pone così le basi di quella tendenza a ricondurre la religione ai suoi fondamenti razionali che prende il nome di deismo. Tuttavia egli è ben lontano dalla radicalizzazione dei deisti posteriori ( tanto frequenti nell’ illuminismo ) che rifiutavano ogni forma di religione positiva ( ossia fondata sulla Rivelazione e sulla Scrittura ) contrapponendo ad essa una religione puramente razionale o naturale sulle orme del razionalismo con cui Aristotele concepiva la divinità . Razionalità e rivelazione vanno per Locke di pari passo nella religione cristiana. Ma proprio per questo l’ adesione ai singoli credi o ai singoli riti delle varie sette cristiane non può essere viziata dal fanatismo di chi crede essere, egli solo, nella verità , ma deve essere animata dallo spirito di tolleranza di chi si affida alla forza dell’ argomentazione razionale. E anche in questa cultura della tolleranza si esprime la ragionevolezza del cristianesimo, se si tiene conto che per Locke la ragione non è lo strumento per attingere la verità assoluta, ma piuttosto quello per rimuovere gli ostacoli per l’ avvicinamento a una verità sempre circoscritta dai limiti costitutivi dell’ uomo. E il fanatismo è sicuramente uno di quegli ostacoli.
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